EUROPA

L’inviato in Ucraina: «La popolazione a metà fra sollievo e paura»

Sabato Angieri si trova da quasi un mese fra Kyiv, Charkiv e Mariupol’ per capire quale sia il sentimento diffuso fra i cittadini della repubblica est-europea all’incombere del conflitto

La “crisi” in atto fra Russia e Ucraina, con l’ovvia “aggiunta” di Ue e Usa, si gioca su molteplici livelli. Se quello più propriamente militare sembra assumere una sempre maggiore concretezza, con la richiesta a Putin delle repubbliche indipendenti di Donèck e Lugansk di «aiuto contro Kiev” e il recente ingresso di truppe russe di peacekeeping nel Donbass , confuse strategie diplomatiche e bombardamenti mediatici si sono invece avviate fin da subito. Come ogni guerra che si rispetti – calda o fredda, paventata o reale – uno dei primi obiettivi delle forze in campo è infatti la conquista “dei cuori e delle menti” delle popolazioni coinvolte. Notizie, proclami e dichiarazioni hanno effetti che vanno oltre le sole parole.

Val la pena dunque chiedersi come stanno reagendo le persone a ciò che sta accadendo. Quale sia il grado di credulità o di incredulità nello scorgere l’evolversi dell’escalation bellica. Abbiamo parlato con il giornalista Sabato Angieri, che si trova in Ucraina da quasi in mese per carpire “l’aria che si respira” fra cittadini e cittadine della repubblica est-europea e che sta pubblicando numerosi reportage sul quotidiano “il manifesto”.

Con il riconoscimento delle repubbliche in Donbass siamo arrivati a un punto di non ritorno della crisi. La popolazione ucraina reagisce di conseguenza?

Rispetto ai primi giorni in cui sono atterrato a Kyiv, c’è sicuramente una differenza sostanziale nell’atteggiamento della popolazione. Inizialmente, le persone non davano molto credito ai continui annunci di guerra imminente. Lo stesso presidente Zelens’kyj diceva che si trattava di dichiarazione esagerate, che non si doveva aver paura, e in effetti tutti si ripetevano che non c’era da farsi prendere dal panico. Questo succedeva per esempio nelle scuole, dove un tale messaggio veniva ripetuto ai giovani. Sui luoghi di lavoro – per quanto mi hanno raccontato – si parlava poco o nulla dell’argomento.

Ovviamente non dappertutto: se quanto ho appena affermato era vero per Kyiv, a Charkivil clima era già diverso. Si sentiva la presenza di un’“ombra minacciosa” e infatti si sono tenute varie mobilitazioni di stampo “patriottico”. Poi però, anche nella capitale, all’aumentare dei proclami bellicosi e con il cambio di registro della retorica del Cremlino, tutti si sono convinti che la possibilità di un conflitto non fosse così remota come appariva inizialmente. È interessante notare che già una settimana fa c’era un sentire diffuso che qualcosa dovesse comunque accadere in Donbass.

Com’è dunque cambiata l’atmosfera?

Dopo essere stato, come accennavo, a Charkive poi a Mariupol’ e Odessa, ho fatto ritorno a Kyiv. Devo dire che mi sembrava esserci stato un cambiamento significativo: l’aria della città era più tetra di prima, c’era meno disponibilità da parte delle persone a fare pronostici ed era percepibile un generale nervosismo. Dalla sicurezza iniziale si è passati a uno stato di apprensione maggiormente emotiva. Allo stesso tempo, il cambiamento intercorso presenta degli aspetti più sottili e sfaccettati.

Nel momento in cui c’è stata la notizia della decisione di Putin di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche del Donbass, sono rimasto sorpreso dalle reazioni attorno a me. Mi aspettavo un’esplosione di rabbia, o di tristezza. Invece, è come se si fosse diffuse un sentimento a metà fra il sollievo per il fatto che qualcosa era finalmente successo e un diverso tipo di paura rispetto a prima, una paura più razionale e meno dettata dallo stato di incertezza. Si può dare un volto a questa paura: ora entrano in gioco tutti i risvolti pratici del conflitto, dai parenti che magari si trovano al di là del confine ai figli che in caso di guerra dovrebbero partire, ecc. Insomma, ora entrano in campo anche le questioni più personali.

Lo “spettro” di Euromaidan e degli avvenimenti del 2014/2015 ti sembra giocare un ruolo in tutto questo?

È una questione complessa, di cui posso farmi solo un’idea parziale. L’impressione è che il ricordo di quegli eventi si è come “cristallizzato”, facendo scomparire ogni percezione di divisione interna alla società. Voglio dire che, anche parlando con le persone, noto una certa difficoltà a introdurre dei distinguo nelle proprie dichiarazioni, come per esempio condannare l’invasione da parte di Putin ma allo stesso tempo non rigettare l’elemento russo delle proprie radici.

E questo perché, credo, da un lato prevale la paura dall’altro il sentimento nazionale si è consolidato sotto il segno di un “patriottismo” diffuso che – come ogni forma di nazionalismo – tende a cancellare e invisibilizzare certe radici. È interessante notare che chi si definisce animato da sentimenti patriottici tende comunque a non collocarsi “a destra” nello spettro politico (cosa che magari tenderemmo ad aspettarci). Il succo dei discorsi che fanno in tanti è: “Per noi è una questione di sopravvivenza”.

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org