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OPINIONI

Libera università? Un dialogo critico con Montanari

Il saggio “Libera università” di Tomaso Montanari, Einaudi 2025, propone l’accademia come corpo unico e critico verso il potere, ma forse occorre approfondire meglio le trasformazioni negative indotte in questo corpo dalla politica neoliberale e analizzare le forme di resistenza dal basso, che finora hanno poco coinvolto i docenti strutturati

Il saggio Libera Università di Montanari merita di essere discusso. Apre una riflessione che interroga tutte le componenti delle università italiane, dai rettori agli e alle studenti, passando per docenti ordinari e associati e intercettando alcune istanze poste dalle Assemblee Precarie Universitarie (APU), che in questi mesi si sono organizzate per contrastare le riforme in essere e per denunciare le responsabilità dell’accademia italiana nell’alimentare il regime di guerra che si sta materializzando nelle nostre vite.

Una delle argomentazioni che ricorrono nella tesi proposta da Montanari è un’idea dell’accademia come corpo unico, come spazio sociale che per sua vocazione dovrebbe essere critico o conflittuale nei confronti di governi e poteri.

Si tende, in altri termini, a confondere la natura epistemologicamente conflittuale della scienza con una propensione altrettanta naturale al conflitto dei soggetti che elaborano, sistematizzano e divulgano la conoscenza. L’autore sostiene questo a partire dal proprio desiderio, pienamente condivisibile, di immaginare un’accademia orientata a sostenere i processi democratici, l’empatia, la solidarietà e la messa a disposizione delle intelligenze per trasformare il mondo a partire da questi principi, senza negare tuttavia che «per lottare per l’università come potrebbe (o dovrebbe) essere, dobbiamo mettere in discussione l’università com’è oggi, frutto di scelte politiche scellerate, ma anche di una diffusa acquiescenza, o peggio complicità, interna al mondo accademico» (p. 57).

Nel quadro storico e politico attuale, la nostra attenzione dovrebbe essere dunque posta non tanto sull’ideale mobilitazione dell’Università in quanto tale, quanto piuttosto sul far emergere posizionamenti e tensioni politiche che abitano in modo sempre più palese i nostri atenei. In questo contesto, l’obiettivo preliminare di chi vuole costruire un’università diversa dovrebbe concentrarsi sul far emergere questa acquiescenza e queste complicità, costruendo schieramenti, smascherando posizionamenti e individuando controparti.

Da questo punto di vista, seguendo la ricostruzione genealogica proposta da Montanari, in questi anni solo studentə e precarə hanno tentato di organizzarsi contro il disegno autoritario di ristrutturazione delle università, contro l’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro accademico e, più recentemente, contro l’arruolamento degli atenei nel regime di guerra incombente. Al contrario, il silenzio assordante che si è manifestato è quello dellə strutturatə, in gran parte appiattitə e titubantə di fronte ai continui ricatti che arrivano dall’esecutivo. Eppure, chi vive i corridoi dei dipartimenti percepisce che in tutte le componenti della comunità accademica c’è la consapevolezza di quanto radicali siano le trasformazioni epocali che si stanno prospettando.

La domanda che è emerge è dunque la seguente: chi, se non quellə che hanno il privilegio di avere una posizione tutelata e di potere, dovrebbe proporre spazi di partecipazione collettiva per ragionare riflessivamente sulla comunità educante e democratica che dovrebbe rappresentare la composizione sociale accademica?

Rispondere a questa domanda, significherebbe però mettere in discussione tutto, significherebbe in primis interrogarsi sulle forme organizzative e sulle processualità amministrative delle università, mettendo in discussione strutture di potere e posizionamenti acquisiti. Significherebbe, dunque, mettere in discussione la ragione valutativa e i suoi obiettivi, i quali minano l’autonomia delle istituzioni universitarie ma soprattutto la libertà della scienza e di chi la pratica.

La riforma della governance universitaria è un atto autoritario di inaudita gravità. Sulla scia di Orbán e dell’amministrazione Trump, anche l’Italia si appresta a mettere sotto commissariamento tutte le università del Paese. Inserire un commissario del governo nei CDA degli atenei, con poteri legati alla dimensione finanziaria e all’indirizzamento delle traiettorie della ricerca e della didattica, significa sottomettere la libertà e l’autonomia della scienza alle disposizioni ideologiche dei governi in carica. In questo senso, sono pienamente condivisibili le preoccupazioni e le esortazioni alla mobilitazione di Montanari, presenti nel suo libro e sulla lettera pubblicata su ROARS pochi giorni fa.

Tutto giusto, ma se vogliamo sviluppare una critica agli ultimi provvedimenti non possiamo non interrogarci su quello che fin qui è stato e su come si strutturi oggi la dimensione dell’autonomia degli atenei. La riforma Meloni-Bernini, infatti, non nasce dal nulla. Non si può ragionare della pericolosa fase politica che stiamo attraversando senza constatare che la ragione valutativa – e le infrastrutture organizzative che la sostengono – avessero esattamente l’obiettivo di governare i soggetti che si occupano di ricerca e di indirizzare e gerarchizzare saperi e conoscenze da sviluppare nelle università.

La valutazione neoliberale

Dal primo punto di vista, a quindici anni dall’approvazione della legge 270, appare ormai chiaro che le retoriche utilizzate per sostenere la trasformazione dell’università italiana in chiave neoliberale (merito, eccellenza, competizione, produttività, etc.) sono servite in modo efficace ad amministrare la dismissione economica e culturale del carattere pubblico dell’accademia, producendo un conflitto orizzontale tra i soggetti precari che ambivano ad accedere a una posizione stabile. Ricordiamo come il dibattito pubblico degli anni ’10 rappresentasse queste riforme come strumenti per combattere il baronato e sostenere una nuova trasparenza dei processi di reclutamento. Nella realtà, abbiamo assistito a una concentrazione di poteri violenta, che a fronte del costante definanziamento della ricerca pubblica ha irrobustito e reso più forti i sistemi feudali che governano i nostri atenei. Le commissioni dell’ASN, l’indicizzazione delle riviste, la spinta continua ad una iper-produttività sono tutti ambiti in cui è evidente come nessuna neutralizzazione delle dinamiche baronali sia sorta da queste trasformazioni.

Al contrario, la costante valutazione e sorveglianza delle pratiche di ricerca e dei suoi prodotti hanno reso le relazioni tra i soggetti che si occupano di saperi e conoscenze ancor più autoritarie e volte al ricatto di quanto lo siano mai state nell’Italia Repubblicana.

Siamo di fronte a una grande rappresentazione distorta, in cui in gioco ci sono le vite dellə precariə della ricerca e la libertà della scienza, che senza adeguati finanziamenti e sotto il ricatto dell’ANVUR, che decide in modo arbitrario chi e come ha il diritto di continuare a fare ricerca, viene ontologicamente messa in discussione.

I progetti di ricerca

Veniamo qui al secondo punto, ovvero al fatto che le procedure valutative servono anche, e soprattutto, a indirizzare e gerarchizzare saperi e conoscenze, definendo dall’alto quali traiettorie di ricerca abbiano il diritto o meno di essere sostenute e finanziate. L’elemento che mostra con chiarezza questa dinamica è connesso ai processi di progettazione nazionale ed europea, i quali dal punto di vista economico sono i principali meccanismi di sostegno della ricerca pubblica in sostituzione del Fondo di Finanziamento Ordinario. Per poter accedere alla grandissima maggioranza di questi finanziamenti è necessario proporre dei progetti su delle linee programmatiche decise dall’alto, o dal MUR o dall’Unione Europea, istituzioni che quindi definiscono quali saperi siano necessari e quali, invece, non abbiano il diritto di essere sviluppati.

Emblematiche e preoccupanti sono in questo senso le notizie che giungono in questi giorni sulle discussioni che all’interno dell’UE si stanno avendo sul programma quadro HORIZON 2028-2034. Dopo circa 40 anni in cui l’Unione Europea aveva assunto come questi finanziamenti dovessero essere utilizzati esclusivamente per ricerche che avessero uno scopo civile, la Commissione Europea, attraverso il piano ReArms Europe, sta tentando di togliere questo vincolo indirizzando questi finanziamenti verso ricerche dual-use, ovvero che abbiano applicazioni sia civili che militari. Torneremo poi sulla relazione tra guerra e università, ma qui è indispensabile sottolineare la non neutralità dei meccanismi di finanziamento nazionali ed europei che passano dalla progettazione, facendo emergere come le forme di finanziamento della ricerca pubblica e i diversi meccanismi valutativi che in essa agiscono siano processi amministrativi dei sistemi accademici che ne limitano, se non inibiscono, la libertà.

Ed è qui che l’idea dell’autore sembra insufficiente se non si mettono in discussione tutti i dispositivi che limitano la libertà della scienza e che controllano chi la pratica.

Per mobilitarsi contro l’attacco del governo Meloni all’autonomia della istituzioni universitarie bisogna essere sinceri e affermare con chiarezza che già oggi la libertà accademica sta subendo, da oltre vent’anni, un attacco violento che si è dato attraverso riforme sostenute dalla retorica fuorviante della valutazione e del merito. Ripensare l’intero assetto amministrativo e retorico che governa l’università contemporanea italiana è necessario quando si vuole lottare per riconsegnare alla conoscenza il compito di criticare l’esistente e di sorvegliare sulla tenuta della democrazia.

In altre parole, è necessario uscire dall’autoreferenzialità radicale con cui oggi il lavoro universitario viene rappresentato e agito da chi lo sviluppa, ricominciando a pensare i saperi in rapporto con la società, rendendoli spendibili, affermando di nuovo e con coraggio che studiare, fare ricerca, connettere le intelligenze e farle cooperare sono elementi indispensabili per rendere il mondo un posto migliore di com’è.

Che un’università libera è necessaria per difendere la democrazia, per lottare per i diritti di tuttə, per migliorare la vita delle persone e la salute del Pianeta, per prevenire e rifiutare le guerre. In definitiva, per lottare contro tutti quei poteri, più o meno democratici, che stanno decidendo di investire e scommettere con grande nonchalance sulla barbarie e sulla catastrofe.

Lo stato della mobilitazione

In conclusione, poche note su quello che sta succedendo dal basso e sulle cose di cui ci sarebbe oggi una vitale necessità. Nel corso di questi mesi, abbiamo capito che della precarietà che investe gran parte dellə ricercatorə italianə non interessa a nessuno, che le sorti dellə 20000 precariə della ricerca che rischiano l’espulsione dalle accademie non sono un tema che interessa i professori strutturati. Nonostante questo ci lasci sbigottitə e inorriditə, siamo anche dispostə a comprendere questo atteggiamento a fronte di un mondo in subbuglio, in cui i fascismi e la guerra stanno definendo una nuova epoca storica con cui confrontarsi. Purtroppo, dobbiamo tuttavia constatare che anche di fronte all’intensità del dispiegarsi del regime di guerra in tutti gli ambiti della società troppo silenzio si sente. In questi mesi, le APU e la componente studentesca, senza privilegi e con tutto da perdere, si sono mobilitate, esponendosi al ricatto e alla violenza del governo, di chi dirige i nostri dipartimenti e atenei, ma anche al ricatto dei propri professori di riferimento.

I professori strutturati, semplicemente, non hanno detto niente, non si sono mai presi responsabilità adeguate alla storia che si sta tetramente esprimendo. A ben vedere, richiamando Montanari, anche in assenza della richiesta di firmare un giuramento, non sembra che la situazione sia particolarmente diversa dal 1931. Eppure, chi attraversa i dipartimenti sa bene che ci sono tante persone disgustate dalla situazione, che sono contro la guerra e contro l’autoritarismo, che sostengono la pace e la democrazia. Rimane vero, però, che se non si ha il coraggio di prendere posizione, di agire conflitti che potrebbero mettere in discussione privilegi e posizioni di rendita, questo disgusto resta un elemento simbolico che non qualifica queste persone in modo diverso dai tanti che invece sostengono la guerra e vedono di buon occhio l’ulteriore smantellamento delle prassi democratiche negli atenei.

Mai come in epoca di guerra, il silenzio significa assenso e complicità. È quindi questo il momento di rimettere al centro il tema del conflitto come dimensione che sostiene e rappresenta in pieno la democrazia. Si tratta di aprire spazi in cui la comunità accademica ricominci a discutere di se stessa e del mondo, non di definire a priori quale sia il conflitto buono e quello cattivo e quale immagine questo debba assumere.

Chi, se non quelli che hanno il privilegio di essere tutelati dal punto di vista soggettivo devono assumersi la responsabilità di rivendicare con forza questi spazi? Cos’hanno da perdere gli strutturati se non posizioni di rendita, accesso a finanziamenti che in ogni caso non intaccherebbero il loro salario o accesso alle gerarchie organizzative del proprio dipartimento?

Siamo in un momento storico in cui essere responsabili significa esporsi, perché l’oggi non è uguale allo ieri e l’epoca che stiamo vivendo è tanto nuova quanto violenta. Da questo punto di vista, emergono inevitabilmente delle domande, a cui sarebbe bello trovare delle risposte attraverso la vita pubblica e democratica dei nostri atenei: è possibile che il corpo docente assista senza toccare palla, e senza volerla toccare, a questa serie di riforme che piombano sulle loro teste? Il corpo docente è d’accordo con la nuova presidente CRUI quando dice che non c’è bisogno di nuove risorse per l’università e la ricerca? Il corpo docente è d’accordo con l’ingresso dei commissari del ministero nei CDA degli atenei? Il corpo docente accetta che il nuovo programma Horizon sia dedicato alla guerra e alle sue esigenze?

Purtroppo, fino a prova contraria, pare che gli strutturati di questo paese siano tutti d’accordo. Nel concreto, in attesa di essere sorpresi da una loro mobilitazione che affermi in modo chiaro il rifiuto della guerra e dell’autoritarismo, e che essi ricomincino a lottare per un’università libera e democratica, si dovrebbero sostenere le battaglie delle APU, agevolando i propri ricercatori e ricercatrici e sollecitandoli alla mobilitazione, difendendolə dalle aggressioni che subiscono pubblicamente e tutelandolə dalle sicure ritorsioni che subiranno. Si dovrebbero fornire spazi materiali e simbolici per le iniziative e le prese di parola della ricerca precaria e dellə studentə. Si dovrebbe richiedere alle amministrazioni degli atenei di metterci la faccia e condividere con la comunità accademica tutta che cosa sta succedendo, innanzitutto convocando formalmente e invitando democraticamente a una partecipazione più ampia possibile, assemblee di dipartimento e di ateneo in tutte le università del paese.

Se solo si scorgessero questi piccoli segnali, allora forse l’università potrebbe ricominciare ad esprimere quella intima vocazione alla critica e al conflitto che Montanari racconta nel suo libro. Altrimenti, dovremmo semplicemente constatare la complicità del corpo docente universitario italiano alla guerra, all’autoritarismo e al definitivo tramonto delle università come luogo della critica e della democrazia. A ognuno, dunque, le proprie riflessioni e le proprie responsabilità.

La copertina è di Guilhem Vellut (Flickr) e ritrae il campus Einaudi dell’Università di Torino

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