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Libano, la lunga strada per la rivoluzione

Dal 17 ottobre, centinaia di migliaia di libanesi chiedono le dimissioni dell’attuale governo e la fine di un sistema politico che non li rappresenta. Ma le vecchie divisioni confessionali, l’incertezza economica e le ingerenze straniere rendono difficile la strada del cambiamento

Dal 17 ottobre centinaia di migliaia di libanesi si sono riuniti per le strade e le piazze di Beirut e delle principali città per chiedere le dimissioni dell’attuale governo e la fine di un decennale sistema politico su base confessionale.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’implemento della nuova legge di bilancio che prevedeva l’aumento dell’IVA e del prezzo dei carburanti, oltre a una tassa giornaliera di 20 centesimi di dollaro sui programmi che utilizzano il sistema VoIP come WhatsApp e Facebook.

L’implemento di queste misure era uno dei punti presenti negli accordi economici stipulati fra l’ex-primo ministro Sa’ad al-Hariri e i rappresentanti politici di 48 paesi ad aprile 2018 durante la conferenza CEDRE a Parigi. Il Libano si era impegnato ad attuare misure fiscali e riforme strutturali per accedere a un piano di investimenti stranieri da circa 11 miliardi di dollari da distribuire in 6 anni. Non è un caso che questo accordo sia stato preso un mese prima delle ultime elezioni politiche libanesi.

Debito, corruzione, disoccupazione e disuguaglianze

La crisi interna libanese ha diverse cause di natura economica ed è degenerata negli ultimi dieci anni. Secondo i dati della Banca Mondiale il debito pubblico libanese ammonta al 150% circa del suo PIL, attorno ai 155 miliardi di dollari. Parte di questo debito può essere imputato all’altissimo livello di corruzione che intacca sia il settore pubblico che quello privato.

L’economia libanese basa i propri profitti principalmente sui servizi, in particolare sul settore finanziario e bancario, e solo in parte sull’esportazione di prodotti agricoli. La maggior parte dei beni consumati nel paese sono infatti importati e ciò contribuisce ad alzare il costo della vita a livelli insostenibili.

Fonti ufficiali sostengono che il tasso di disoccupazione sia al 25%, ma tra le persone con meno di 25 anni superi il 37%. Eppure il Libano è uno dei paesi arabi con il maggior numero di laureati. Secondo l’ex-ministro del lavoro Mohammad Kabbara, ogni anno si laureano fra 30.000 e 35.000 studenti, mentre il mercato del lavoro può inglobarne solo 5000. Per questo motivo questi molti di loro sono stati costretti a emigrare soprattutto nei paesi del Golfo, ma data l’instabilità e la crisi economica che coinvolge l’intera regione, oggi in tanti sono costretti a restare. Tuttavia è proprio sulle rimesse estere che si regge la fragile economia libanese.

 

«A Beirut, non si trova posto per parcheggiare uno yacht, ma al tempo stesso la maggior parte dei libanesi non ha i soldi per le cure mediche di base o per garantire un’educazione ai propri figli», ha recentemente dichiarato ad Al-Jazeera Omar Nashabe, analista politico ed ex-responsabile della sezione diritti umani del Ministero dell’Interno libanese.

 

Il Libano è un paese dalle enormi disuguaglianze, infatti secondo il World Inequality Database, l’1% della popolazione guadagna il 25% sul totale del reddito nazionale, mentre il 50% della popolazione solo il 10%.

Questi sono solo alcuni dei motivi per cui il popolo libanese è sceso in strada chiedendo all’attuale governo di dimettersi. Hanno bloccato le strade, hanno gridato che «tutti i membri di questa classe politica corrotta» avrebbero dovuto lasciare le loro poltrone. Nessun movimento, religione, o forza politica li identifica, ma esprimono la rabbia di non essere rappresentati da un sistema politico obsoleto, basato ancora su una spartizione dei poteri su base confessionale.

Dagli accordi di Taif alle elezioni del 2018. Il sistema politico multiconfessionale

Per comprendere l’attuale situazione politica è necessario fare qualche passo indietro. Il Libano è un paese piccolissimo, dove però convivono persone appartenenti a numerose confessioni religiose. Le principali comunità sono quella cristiano-maronita (35% circa), e quelle musulmano sunnita e sciita (che insieme fanno circa il 60% della popolazione). Il restante 5% comprende principalmente altre comunità cristiane, i drusi e la piccola comunità ebraica.

Nel 1943 il paese ottenne l’indipendenza dalla Francia e le principali forze politiche dell’epoca stipularono un accordo chiamato Patto Nazionale. Questo accordo creava uno stato basato su un sistema multiconfessionale, in cui il parlamento fosse diviso su una proporzione di 6 a 5 a vantaggio dei deputati cristiani e che quindi avrebbe garantito loro la maggioranza dei seggi.

Durante la sanguinosa guerra civile libanese (1975-1990), il paese subì dei danni economici e sociali gravissimi, aggravati dell’invasione siriana (durata fino al 2005) e di quella israeliana nella regione meridionale (dal 1982 al 2000). Al termine della guerra civile vennero stipulati gli accordi di Taif.

Questi accordi, stipulati con l’intervento di alcune potenze straniere ( fra cui Stati Uniti e Arabia Saudita), stabilivano una ripartizione equa del parlamento fra deputati cristiani e deputati musulmani. Inoltre venivano indette per la prima volta elezioni libere, ridotti i poteri del capo di stato e dati maggiori poteri al primo ministro. Veniva inoltre stabilito che il presidente dovesse essere di fede cristiano maronita, il primo ministro di fede sunnita e il presidente del parlamento di fede sciita.

Questo sistema su base confessionale, rappresenta uno dei motivi che hanno portato alle proteste dell’ultimo mese. I manifestanti credono che un sistema del genere non favorisca i meriti politici, ma anzi dia potere alle famiglie più potenti e crei ulteriori divisioni in un paese dove nessun gruppo religioso è capace di governare con la maggioranza assoluta.

Per questo i tentativi di formare governi duraturi sono falliti miseramente dal 2005 a oggi, nonostante, prima delle ultime elezioni del 2018, sia stata fatta una riforma che riduce il numero delle circoscrizioni e introduce un sistema proporzionale.

Le coalizioni che nell’ultimo decennio sono state protagoniste della scena politica libanese, sono l’alleanza del 14 marzo e quella dell’8 marzo nate entrambe nel 2005. La prima nacque dalle proteste sbocciate durante i funerali del primo ministro Rafiq al-Hariri, morto assassinato, che chiedevano il ritiro immediato di circa 14.000 tra soldati e membri dell’intelligence siriana presenti sul territorio dai tempi della guerra civile. Al tempo stesso, l’8 marzo scesero in piazza i sostenitori del governo siriano, che invece volevano ringraziare il governo siriano per i gli sforzi compiuti nel proteggere il Libano dalle invasioni e gli attacchi israeliani.

Da un lato l’alleanza del 14 marzo riuniva le principali forze politiche sunnite del paese, fra cui il partito Movimento del Futuro, guidato da Saad al-Hariri, e i “falangisti”, cioè quei gruppi cristiani che si erano resi tristemente celebri per i massacri compiuti, assieme alle truppe israeliane, ai danni dei profughi palestinesi nel sud del paese durante guerra civile.

Dall’altra parte, l’8 marzo raggruppava i Cristiani Maroniti del Movimento Patriottico Libero (con a capo l’ex-generale Michel Aoun, attuale capo di stato) e il partito sciita Amal (Speranza) con i suoi alleati, il partito Hezbollah, fortemente osteggiato da Israele per i suoi sentimenti fortemente anti-sionisti e dall’Arabia Saudita per il loro rapporto con l’Iran.

In quindici anni ci sono state numerose elezioni, con governi fragili incapaci di portare avanti delle riforme strutturali e sociali. Le ultime elezioni, nel 2018, hanno sancito la vittoria della coalizione fra Hezbollah, Amal e Il Movimento Patriottico Libero di Aoun, che sono riusciti a ottenere 70 seggi su 128 in parlamento.

La sconfitta è stata bruciante per Saad al-Hariri, che ha sicuramente pagato per l’episodio del suo rapimento da parte delle autorità saudite nel 2017. Ciò ha messo a nudo la sua sudditanza nei confronti di Ryad e la sua incapacità di rappresentare i veri bisogni dei libanesi. Molti di loro, persino i sunniti, credono che Hezbollah sia l’unico partito, dotato di un esercito proprio, a tutelare gli interessi del paese e a poterli proteggere in caso di attacco israeliano.

 

Tuttavia è necessario considerare che solo il 49% dei libanesi ha partecipato alle elezioni del 2018. Ciò dimostra la mancanza di fiducia della popolazione in un sistema politico che non li rappresenta.

 

Le manifestazioni di ottobre hanno portato alle dimissioni di al-Hariri, accusato inoltre dai manifestanti di aver donato 16 milioni di dollari alla sua amante sudaficana in un momento di grave crisi economica. Tuttavia la sua uscita di scena è solo parziale. È lui il garante degli accordi presi con gli investitori stranieri e il giorno delle sue dimissioni i suoi sostenitori sono scesi in piazza per manifestare contro le proteste anti-governative.

Stessa cosa hanno fatto i sostenitori di Hezbollah e Amal, che durante i giorni più accesi delle proteste, sono scesi in piazza in sostegno del movimento sciita e hanno provocato violenti scontri con i manifestanti anti-governativi.

Il 3 novembre anche gli elettori del partito del presidente Michel Aoun hanno manifestato a sostegno del loro leader, e condannano le manifestazioni del mese scorso.

Nonostante le proteste, che hanno invaso le strade di Beirut e di altre città, abbiano mostrato una parte di paese che è in rivolta contro le sue autorità e che è unito per ottenere un vero cambiamento senza colori, bandiere o partiti politici, la strada per la rivoluzione è ancora molto impervia e lunga.

Il paese ha bisogno di riforme immediate, inoltre la crisi umanitaria, che colpisce un milione e mezzo di siriani che vivono in condizione di estrema povertà e ai margini di una società già poco inclusiva, rischia di causare effetti devastanti come è successo in altri paesi della regione.

Foto di Daniele Napolitano