OPINIONI

Letta e Zan nella tagliola

La sconfitta parlamentare del ddl Zan avrà un contraccolpo negativo anche sulle pratiche di base e dissuaderà a sinistra dall’ulteriore impegno sui diritti civili. Una volta che una battaglia è stata ingaggiata, condurla come ha fatto il Pd è suicida e grottesco

Poteva andare peggio? Sì, poteva piovere. E invece su Roma e intorno al Senato in particolare risplendeva il sole – come sempre sulle sciagure umane – e si diffondeva un tepore meridiano. Con il voto, 154 a 131, cadeva non solo il ddl Zan ma anche la maggioranza Ursula in itinere e perfino la maggioranza ulivista attuale, non solo vince la destra trogloditica (con dietro, però, il potere vaticano) ma si consolidano il ricatto renziano e l’inaffidabile diaspora grillina, che condizioneranno tutte le future iniziative parlamentari del Pd. Per non farsi mancar niente, Renzi non era presente, perché in volo per l’Arabia Saudita, e le assenze trasversali abbondavano, mentre il navigato Mastella commentava al vetriolo: «serviva una capacità morotea di mediare, bisognava essere più levigati, Letta invece è andato sparato».

Passata la festa, cioè le amministrative, il Pd era entrato nella fase delle grandi manovre per la costruzione di un’alleanza Ursula, tirando dentro una fantomatica coalizione, oltre l’indocile M5S e la docile Leu, pure renzini, calendari e berluscones. Programma che sarebbe andato a regime dopo la divisiva votazione del Presidente della Repubblica, dove Berlusconi vuol giocarsi l’alleanza con tutta la destra per un’improbabile (speriamo) elezione e la scelta di un altro candidato finirà per configurare gli accordi futuri e la stessa durata del governo Draghi.

Insomma, i giochi si erano riaperti e allora alla prima scadenza obbligata – il passaggio o meno con voto segreto alla discussione del ddl Zan al Senato – Letta ha rimesso in discussione il carattere non negoziabile del testo già approvato in altri tempi alla Camera. Mossa sconcertante, perché non compiuta in estate, quando si era aperta una mezza trattativa dopo lo sblocco in commissione, mentre adesso era evidente che la svolta improvvisa implicava tacitamente un cedimento alle pressioni respinte pochi mesi fa – facciamo qui un discorso meramente tattico, come se volessimo difendere l’interesse del Pd.

Su cosa si sarebbe dovuto trattare? In estate le richieste di cambiamento (che comunque implicavano una chiara intenzione da parte della Lega di sputtanare il Pd e poi di far cadere egualmente la legge, al Senato o dopo il ritorno alla Camera del testo emendato) consistevano nell’abolizione dell’art. 1, di ogni allusione all’omofobia mascherata da posizione culturale, all’esclusione di qualsiasi effetto del ddl nelle scuole, insomma a un mero inasprimento delle pene per comportamenti violenti, sostanzialmente già previsti dalla legislazione vigente. E cosa c’era di tanto divisivo nell’art. 1 e richiami sparsi negli articoli successivi? Una petite phrase, «per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Che vuol dire due cose: il genere è diverso dal sesso ed è vietato aggredire e perseguitare i trans. Dio mio, che scandalo, che pretesa! Ma come, si difende il Pd, l’identità di genere è già prevista in altre leggi, per esempio nell’Ordinamento penitenziario (che meraviglia!) – argomento non troppo diverso dalla destra che sostiene che già adesso spaccare le ossa a un gay o a un trans è punito dalla legge (e vorrei vedere!).

In un presagio appello di molte associazioni uscito ieri si chiedeva proprio «di non escludere le migliaia di persone transgender, non binarie, che sono fra le più esposte alla violenza. Questo è quel che avverrebbe togliendo dalla legge l’espressione “identità di genere”. Inserire “omofobia e transfobia”, come propongono alcuni, renderebbe inoltre la legge inefficace, a rischio di incostituzionalità, rendendola incompatibile con gli attuali 604 bis e ter, il dispositivo dell’ex Legge Mancino-Reale». Il disegno di legge «tutela persone in carne ed ossa, le persone LGBTQIA+, tutte le donne, le persone disabili, nonché chiunque possa essere considerato “diverso” ed essere bersaglio dell’odio motivato da sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità. Non ha quindi senso inseguire ulteriori improbabili compromessi privi di ogni garanzia politica con chi non ha mai voluto questa proposta di legge».

Facile profezia, largamente confermata dal voto di oggi, doppia sconfitta di aver mostrato all’improvviso volontà di trattare e aver preso un sonoro schiaffo, mostrando per di più di essere in virtuale minoranza al Senato su tutto. O meglio: di essere impotenti se non appoggiati al 100% a Draghi, che non è entrato nel dibattito (la finanza è asessuata, ignora cis e trans), ma semplicemente ha fatto vedere che non c’è maggioranza, a sinistra come a destra, senza di lui. Qui non ha neppure dovuto alzarsi e andarsene, come al tavolo con i sindacati sulle pensioni.

Concludeva l’appello di cui sopra che «la nostra società è ormai più avanti della nostra classe dirigente e ha dimostrato di essere lontana dall’estremismo dei movimenti omofobi e oscurantisti. La maggior parte della popolazione è favorevole all’approvazione di questa legge e ha capito che non toglie diritti e libertà a nessuna persona, ma aggiunge tutele necessarie integrando le norme che già puniscono l’odio razziale, etnico, nazionale e religioso».

Vero, ma la sconfitta parlamentare del ddl Zan, che in pratica non potrà essere riproposto in questa legislatura, avrà un contraccolpo negativo anche sulle pratiche di base e dissuaderà a sinistra dall’ulteriore impegno sui diritti civili. Non favorirà neppure un approfondimento sul carattere biologico e/o culturale del genere, che sarà emarginato dal discorso politico corrente e risospinto in ambito specialistico e accademico.

Ripetiamo, non è una battaglia persa con onore, ma un flop dopo aver invocato la clemenza del nemico. Qui non entriamo neppure sul merito della formulazione del ddl Zan o, più in generale sull’opportunità di giuridificare certi temi – sarebbe opportuno continuare a discuterne fra chi è d’accordo nella battaglia sul genere e contro l’omolesbobitransfobia – ma, una volta che una battaglia è stata ingaggiata, condurla come ha fatto il Pd è suicida e grottesco.

Immagine di copertina e nell’articolo di Lisa Capasso, manifestazione Molto più di Zan, Roma, luglio 2021.