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Contro l’emergenza: il legame fra le lotte a Hong Kong e nelle Filippine

Gli Stati in tutto il mondo stanno criminalizzando il dissenso a fronte di una nuova ondata di rivolte: la legge sull’antiterrorismo firmata dal Presidente Rodrigo Duterte nelle Filippine e la Legge sulla sicurezza dello Stato imposta dal Partito Comunista Cinese su Hong Kong appartengono in questo senso a una stessa logica

La pandemia ha visto un ampio fallimento degli Stati in giro per il mondo nel garantire la salute e le risorse di protezione adatte ai propri cittadini. Molti si sono rivoltati contro questo evidente stato di abbandono causato dai governi: esporre in modo così spregiudicato i più vulnerabili e marginalizzati all’infezione serve infatti solo a mantenere il flusso del capitale globale. Il disordine sociale che ne è seguito, ha dato ai governi la giusta scusa per coprire la strategia di consolidare il proprio potere, l’emergenza viene utilizzata come una minaccia per forzare la legge e rafforzare un potere che monopolizza in modo incontrollato la violenza.

È in questo senso che la legge sull’antiterrorismo (Anti-Terrorism Act) firmata dal Presidente Rodrigo Duterte nelle Filippine e la Legge sulla sicurezza dello Stato (National Security Laws NSL) imposta dal Partito Comunista Cinese su Hong Kong appartengono alla medesima logica, rappresentano un microcosmo del presente panorama geopolitico. Infatti, queste leggi possono indicare un’epoca di governance globale caratterizzata da un’idea di sovranità così come delineata dal famigerato giurista tedesco Carl Schmitt: il monopolio esercitato dalla sovranità non sulla violenza ma sulla sospensione della legge stessa.

 

La legge sulla sicurezza dello Stato a Hong Kong

Mentre nella storia recente di Hong Kong l’opposizione ha principalmente reagito alla lenta ma ferma violazione del modello “un paese, due sistemi” da parte del PCC, la rivolta attuale si è invece sviluppata attorno all’abuso della violenza della polizia contro i manifestanti, segnando livelli record di condanna fra i 7,5 milioni di abitanti della città.

La diffusa sfiducia verso la polizia è particolarmente sorprendente perché la polizia di Hong Kong (HKPF) è stata associata per lungo tempo con una idea di “stabilità”. Come porto marittimo commerciale, la società coloniale di Hong Kong era caratterizzata da una confusa unione di lavoratori e commercianti provenienti da tutto il mondo. Gli amministratori coloniali crearono la polizia di Hong Kong a immagine di quella di Londra e così, come per il suo modello metropolitano, il suo ruolo principale era il controllo dei lavoratori e la repressione delle rivolte.

 

Detto in modo semplice, il ruolo principale della polizia è quindi quello di proteggere la creazione di profitto, la sicurezza della proprietà privata e il passaggio di sovranità da un regime capitalista coloniale a un altro. Ciò è rimasto uguale sia che si trattasse dell’amministrazione coloniale inglese sia sotto il governo di Hong Kong dopo il 1997, è così che si spiega la violenza quotidiana che la polizia ha esercitato per quasi dodici mesi sul movimento di protesta diretto contro lo status quo.

 

Per parte loro, gli oppositori hanno avuto un grande successo attaccando l’economia. Dopo cinque mesi dall’inizio delle proteste, Hong Kong presto è entrata in una spirale recessiva, con le banche che hanno corretto le previsioni di crescita del PIL fino ad arrivare a una contrazione di oltre il 5%. E nonostante la buona reputazione della polizia legata al mantenimento dell’ordine (capitalistico), la sua brutalità ha portato la popolazione a volerne l’abolizione. Questa crescente disillusione verso una istituzione una volta ritenuta la “migliore dell’Asia”, rivela bene come la retorica della polizia stessa che si presenta come “ordine e controllo” a fronte del dissenso presentato come violento e radicale, sia vuota.

L’impatto catastrofico sull’economia di Hong Kong e, fino a un certo punto, su quella della Repubblica Popolare Cinese, ha aperto la strada a considerare la Legge sulla sicurezza dello Stato come una soluzione politica ed economica legittima. Infatti, il ministro delle finanze di Hong Kong Paul Chan ha detto chiaramente come banche e privati appoggiano la nuova legge, pur non conoscendone ancora i contenuti ma solo appoggiandosi sulla promessa di “stabilità” con cui questa legge si presenta. Anche se il capitalismo autoritario ha le sue vie per il profitto, per molti dell’élite, parte dell’ “emergenza” a Hong Kong è legata alla finanza.

La violenza della polizia che in nome dello Stato ha devastato Hong Kong nella seconda metà del 2019, è stata il preludio ai metodi sempre più autoritari del governo di Carrie Lam, che nell’ottobre 2019 ha iniziato con il divieto di coprirsi la faccia rifacendosi a un’ordinanza di epoca coloniale, poi con l’imposizione di regole vaghe sui raduni pubblici con la scusa della protezione della salute pubblica, da gennaio 2020 fino a oggi (l’esempio più lampante dell’uso dell’emergenza è avvenuto dopo la pubblicazione di questo articolo: con la scusa della pandemia, e temendo fortemente una vittoria del campo avverso, Carrie Lam ha annunciato che le elezioni indette per settembre 2020 sono spostate di un anno!)

Queste sono le due forme di “stato di emergenza” che il governo utilizza per legittimare il consolidamento del proprio potere. Eppure, è il governo stesso la causa di queste emergenze, perché tramite la sua governance non democratica affronta la legittima insoddisfazione pubblica e la propria inadeguatezza politicizzando così l’esplosione della pandemia. O, più precisamente, lo stato di emergenza crea il limite esterno dell’ordine legale normativo stesso e in questa forma di sovranità noi ci troviamo sempre in uno stato di emergenza, anche se graduato.

Ironicamente, e prevedibilmente, la nuova legge sulla sicurezza dello Stato imposta ufficialmente da Pechino il 30 giugno in risposta alla rivolta, sopravanza completamente la legge di estradizione a causa della quale lo scorso anno era iniziato il movimento di protesta. Questa nuova legge criminalizza il dissenso contro la Repubblica Popolare Cinese fuori dai suoi confini con delle pene che vanno da un minimo di tre, cinque o dieci anni fino all’ergastolo per atti vagamente indicati come sovversivi. Una nuova era è iniziata a Hong Kong con questa legge, e infatti è stata subito utilizzata per censurare libri, proibire gli slogan di protesta e per arrestare manifestanti che avevano in mano solo fogli bianchi.

 

La legge anti-terrorismo nelle Filippine

Nel pieno della pandemia, il Senato e la Camera delle Filippine hanno fatto passare di corsa una legge fortemente controversa sull’anti-terrorismo, soprannominata “legge del terrore” dai suoi critici, che aumenta i poteri di polizia, di sorveglianza e l’uso dell’arresto senza mandato. La legge, che ha modificato la già controversa legge sulla “sicurezza umana”, è stata presentata dal Presidente Duterte come progetto di legge urgente, poi il 3 luglio l’ha firmata nonostante le ampie condanne. Essa arriva in un contesto preesistente caratterizzato dall’impunità, dove gli omicidi extragiudiziali (legittimati o anche promossi dal Presidente) hanno come obiettivi i poveri delle città così come i musulmani e la popolazione indigena Lumad.

La polizia filippina (PNP) è la prima linea di questo stato di violenza, avendo commesso ogni brutalità e ripetutamente contro la popolazione. Decine di migliaia sono già morti nella disastrosa “guerra alla droga” di Duterte, uccisi dalla polizia o da vigilanti; molti altri sono finiti in angusti centri di detenzione.

 

Essenzialmente, lo Stato ha trattato la pandemia come una questione di sicurezza e non di salute. Questa “guerra contro il nemico invisibile” è superficiale, il pretesto perfetto per silenziare il dissenso e forzare leggi e misure che vanno verso l’espansione dei poteri del governo.

 

Durante la quarantena di stato, la polizia ha ucciso diverse persone, compreso un caso eclatante in cui un poliziotto ha ucciso un veterano in pieno giorno e poi ha gli messo la pistola addosso per giustificare l’ omicidio.

 

Foto di Alex Yun

 

Moltissimi sono stati detenuti per la violazione della quarantena, nonostante il fatto che una volta detenuti il rischio di contrarre il virus è più alto. Questi provvedimenti brutali fanno pensare all’epoca della Legge Marziale, dove la polizia va a sostituire la risposta medica. Questo dominio omicida dimostra ancora una volta il modo in cui l’ordine legale produce da se l’ “emergenza” (cioè la propria sospensione) per dare più potere alla polizia, legalizzare l’eccezione della violenza, e criminalizzare il dissenso. Come a Hong Kong, la polizia filippina svolge il ruolo di protezione della creazione di profitto e spesso infatti interviene direttamente nei conflitti sul lavoro per conto del capitale. È stato evidente quando la polizia ha fatto irruzione in uno sciopero dei lavoratori della Cosmic Enterprises. Il picchetto che durava da un mese è stato disperso con violenza dalla polizia insieme alla sicurezza privata della compagnia. La polizia ha arrestato i lavoratori e gli organizzatori con l’accusa di “assalto”, che in realtà è stata autodifesa del picchetto a fronte della repressione poliziesca. Queste forme di abuso si verificano in tanti altri contesti, per esempio con arresti senza mandato e detenzioni illegali degli attivisti durante il 1 Maggio. del Pride 20 di giugno scorso, e per il Cabuyao del 17 luglio. Questo tipo di abusi non potranno che proliferare con la criminalizzazione del dissenso veicolata dalla legge antiterrorismo. Le brutalità di oggi prefigurano un’epoca buia davanti a noi.

I termini della nuova legge sono ampi, e ciò significa non solo che Duterte e la polizia troveranno molti modi per applicarla, ma che la vaghezza stessa dei termini di questa legge porta con sé un effetto dissuasivo. Una buona parte di questo effetto dipende dalla costruzione della figura del terrorista operata dallo Stato. Genericamente definito, un atto terroristico va ad includere la distribuzione di materiale radicale, post sui social media, donazioni a ONG o la partecipazione alle manifestazioni di piazza.

 

In un clima politico dove gli attivisti sono costantemente indicati come “rossi” dallo Stato, cioè accusati di essere collegati all’insorgenza maoista filippina, non c’è dubbio che ora ogni dissidente sarà indicato facilmente come terrorista. Persone appartenenti a diversi percorsi e idee politiche sono ora più soggette ad essere colpite dall’antiterrorismo, una struttura composta da militari e poliziotti di fiducia del Presidente.

 

Attualmente, la detenzione senza mandato è valida solo per uno o due giorni al massimo, la nuova legge espande il periodo fino a ventiquattro giorni quando si tratta di sospetto terrorismo. Una volta giudicato come terrorista, si può essere imprigionati per dodici anni. La legge aumenta inoltre i poteri di controllo dello Stato in modo tale che nessuno può essere esente dalla sorveglianza e dalle intercettazioni. Come per la legge sulla sicurezza dello Stato di Hong Kong, la “legge del terrore” nelle Filippine ha implicazioni pericolose per ogni forma di organizzazione visto che sfidare lo Stato a qualsiasi livello è ora un atto criminale. Chi è a favore di questa “legge del terrore” spesso ripete il senso comune per cui se non sei un terrorista, non hai nulla da temere, logica questa che ha avuto il suo picco durante la “guerra alla droga” quando si diceva che, se uno non è uno spacciatore o un consumatore, non ha nulla da temere. Tantissimi minori e innocenti sono stati però uccisi dalla polizia, lo attesta l’esempio di Kian de los Santos, abbiamo quindi molti motivi per temere lo Stato.

 

Resistere al rafforzamento globale del potere dello Stato

Diciamo invece che il dissenso non è affatto un crimine. È oggi ancora più chiaro quanto la resistenza a Hong Kong e nelle Filippine sia collegata. Queste leggi non proteggono affatto il popolo dai “terroristi” o dai “separatisti”, proteggono invece lo Stato dall’essere inquisito e giudicato rispetto a chi sfida la stabilità politica e finanziaria.

Duterte è stato capace di trovare questa stabilità in Xi Jinping. Allontanandosi l’occidente, Duterte ha mostrato la propria brama verso gli investimenti cinesi, basta fare solo l’esempio dei contratti illegali per l’estrazione di risorse, che hanno mandato via gli indigeni rubando e distruggendo la loro terra. Ed è stato più che contento nel seguire Xi verso un sempre più deciso autoritarismo, con la Cina che ha offerto fondi e corsi per la “guerra alla droga” di Duterte. Negli ultimi anni in Cina influenti teorici della politica hanno sostenuto una idea di governance basata sul “sovranismo statuale” promuovendo la nozione di Schmitt sulla sospensione della legge. Data l’influenza globale del potere autoritario capitalista cinese, la missione di Xi di normalizzare un perenne stato di emergenza sarà da intendersi come un  semaforo verde per le altre autocrazie a fare lo stesso.

DI sicuro, questa tendenza globale al consolidamento del potere dello Stato in nome dell’emergenza si sente ovunque: la ribellione nella Papua Occidentale in Indonesia, le proteste in Cile e in Libano, gli attivisti contro l’apartheid in Palestina, i gilets jaunes e le proteste antirazziste in Francia, le proteste in Serbia, in Canada a Wet’suwet’en Unist’ot’en Camp e il movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti. La negligenza e l’incapacità dello Stato nel rispondere alla pandemia globale genera disordine sociale. Laddove c’è “potere dall’alto”, ecco che c’è lotta contro esso dal basso, ecco che c’è un “potere con”. La popolazione di Hong Kong e quella della Filippine hanno mostrato come ci sia un “potere con” grazie al mutuo supporto. È questo “potere con” gli altri che va a contrastare il “potere su” ognuno.

Molti attivisti sulle due parti del Mar cinese meridionale hanno già compreso come questa lotta sia di portata globale. Mentre la Cina arma le Filippine che si preparano a far guerra alla propria gente, vediamo azioni di solidarietà da parte degli attivisti sia a Hong Kong che nelle Filippine a supporto delle rispettive lotte e delle rivolte nel mondo. Persone della diaspora filippina a Hong Kong si sono mobilitate in tutti e due i paesi a sostegno della libertà. Le badanti filippine possono trovarsi difronte a una punizione e del padrone e del governo di Hong Kong qualora dovessero partecipare a qualsivoglia attività politica. È questo dunque un caso dove la popolazione di Hong Kong deve assicurare che la propria lotta contro lo Stato include anche la lotta sui trattamenti iniqui sulla parte della società più vulnerabile.

Per chi dissente, una vittoria in una lotta significa una vittoria in tutte le lotte, così come, dato lo spazio di libertà sempre più esiguo, una sconfitta in una lotta significa una sconfitta per tutte le lotte: In questo periodo di pandemia e di rafforzamento del potere dello stato, noi dobbiamo consolidare la pratica del potere dal basso.

 

Articolo pubblicato sul sito Lausan

Traduzione italiana per DINAMOpress a cura di GioGo

Foto di copertina di Alex Yun via Lausan