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Caldo e freddo. La politica machista di Duterte nelle Filippine

Nelle relazioni internazionali, il presidente della repubblica del sud-est asiatico sta adottando una strategia che i commentatori definiscono di “copertura e contenimento”. È parte, però, di una più ampia politica di asservimento della vita a favore dell’economia capitalista

Nel passaggio dalla guerra fredda al periodo successivo della post-guerra fredda, il rapporto speciale delle Filippine con gli Stati Uniti ha conosciuto una svolta. In qualche punto lungo il percorso, le Filippine hanno lasciato il ruolo di custode e amante degli Stati Uniti, quando erano poste sotto la tutela e il patrocinio del suo ex colonizzatore e mettevano in mostra la democrazia mentre servivano le forze militari statunitensi con l’obiettivo di tenere al sicuro la regione dell’ Asia-Pacifico e il mondo libero contro il comunismo, e hanno preso ad agire come l’alleato più piccolo della fraterna coalizione globale guidata dagli Stati Uniti, schierandosi a supporto nella guerra mondiale permanente contro il terrorismo.

Qualunque sia stato il problema di sesso e di genere razzializzato che lo stato filippino ha sperimentato durante il periodo della post-guerra fredda, che si è inaugurato ufficialmente tre anni dopo la caduta di quel “coniuge” che fu Marcos nel 1986, l’attuale presidente Rodrigo Duterte sembra aver messo tutto a tacere. Presentandosi (con la più violenta, misogina, eterosessista retorica maschilista e azione omicida) come un uomo forte che il suo ex padrone non avrebbe più potuto evirare né femminilizzare, capace di mandare affanculo Obama e poi apparire come fratello di Trump, Duterte sta conducendo le danze. E sta scegliendo di ingraziarsi la Cina.

Questa è solo una versione della storia delle Filippine nel recente contesto internazionale, che però mostra quei familiari ma spesso misconosciuti codici di potere legati al sesso e al genere che vediamo usati e dispiegati da vari commentatori e dagli attori stessi.

Cosa dice la storia? Molto è stato detto sul trattamento freddo di Duterte nei confronti di Obama, sull’abbraccio riservato a Trump e sulla “continua storia d’amore” fra Duterte e Xi. La realpolitik che pare star dietro a questa forma di racconto dove si parla degli stati come fossero persone, ci dice però che sotto i loro mutevoli sentimenti, è in atto un cambiamento geopolitico.

Immagine da The White House su Flickr

Una nuova guerra fredda? Mentre il regime di Trump ha indubbiamente inaugurato il congelamento delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cina e l’inizio di una guerra commerciale, sollevando strali razzisti di un territorio che si lecca ferite reali e immaginarie imputate alla Cina e ad altri usurpatori e distruttori della “supremazia americana”, non molto tempo prima gli Stati Uniti (sotto Obama) dichiaravano «una forte relazione di cooperazione con la Cina» come «centrale nella nostra strategia in Asia».

Alfred McCoy sostiene che il riconoscimento e il sostegno di Obama all’indiscutibile ascesa economica della Cina era parte di una grande ma sottile strategia geopolitica per ricostruire ed estendere l’egemonia globale degli Stati Uniti, reindirizzando l’enorme commercio eurasiatico che la Cina ha alimentato e catturato attraverso la sua Belt and Road Initiative, un massiccio progetto imperiale di costruzione di infrastrutture transcontinentali e investimenti dall’Asia orientale a quella centrale e occidentale e all’Europa, verso gli Stati Uniti.

Questo piano generale degli Stati Uniti per frenare la crescente egemonia economica della Cina sull’Eurasia e sull’Europa, che includeva due patti commerciali proposti (la Trans-Pacific Partnership e la Transatlantic Trade and Investment Partnership), doveva essere accompagnato dal rafforzamento della leadership regionale degli Stati Uniti attraverso alleanze di sicurezza bilaterali rinserrate e aggiornate nella regione dell’Asia-Pacifico.

Così, è stato durante l’amministrazione Obama che il governo liberale filippino di Benigno Aquino ha firmato l’Enhanced Defense Cooperation Agreement (2014) tra le forze militari statunitensi e filippine, un accordo che consente l’accesso a rotazione degli Stati Uniti alle basi e alle strutture militari nelle Filippine, un accordo siglato sulla scia dell’occupazione aggressiva della Cina del 2012 di una barriera corallina e zona di pesca nel Mar delle Filippine occidentali, la secca di Scarborough.

Immagine da commons.wikimedia.org

Questi accordi diplomatici segnalano una rinnovata forza nell’alleanza tra Stati Uniti e Filippine, un’alleanza che era stata la chiave della strategia geopolitica degli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico durante la Guerra Fredda. Eppure il rapporto prese a traballare da quando le Filippine post-dittatura, rinvigorite nel nazionalismo, e l’eruzione vulcanica del monte Pinatubo hanno espulso le forze statunitensi dalle loro basi militari permanenti nelle Filippine nel 1991. Il fallimento o il rifiuto degli Stati Uniti di difendere militarmente il suo fedele alleato (o lacchè) nel contesto delle continue controversie e tensioni crescenti provocate dalle rivendicazioni della Cina e dall’aumento del suo potere nel Mar Cinese Meridionale è conseguenza di quelle scelte.

Questo “abbandono” delle Filippine da parte delle amministrazioni Clinton e Obama, per non parlare delle critiche di quest’ultima alla guerra assassina alla droga lanciata da Duterte al momento della sua elezione nel giugno 2016, costituisce il contesto dell’annuncio storico di Duterte sulla “separazione” militare ed economica del paese dagli Stati Uniti e il volgere del proprio «perno verso la Cina» poco dopo.

Da allora, la Cina è diventata il più grande partner commerciale delle Filippine e la più grande fonte di investimenti esteri diretti, con i due paesi che hanno firmato accordi di cooperazione e assistenza finanziaria nel 2016 pari a 24 miliardi di dollari.

La Cina è la fonte di 9 miliardi di dollari di progetti ufficiali di assistenza per lo sviluppo del massiccio piano infrastrutturale di Duterte, “Build, Build, Build”, è l’ambizioso progetto sponsorizzato dallo stato di costruzione di aeroporti, superstrade, ponti, ferrovie, dighe, progetti di irrigazione e zone industriali ed economiche di megacittà, che è centrale nel tentativo delle Filippine di diventare una sorta di piattaforma in stile Uber per la circolazione globale dei capitali. Nonostante le chiacchiere anti-cinesi e la supremazia bianca dell’amico Trump, sembra proprio che Duterte abbia messo le Filippine definitivamente nel campo della Cina.

Oltre e sopra le proteste locali contro le centinaia di forze paramilitari cinesi che circondano le isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale, le vessazioni sui pescatori filippini nelle zone di pesca rivendicate dalla Cina e il continuo afflusso di un numero sconosciuto di appaltatori, ingegneri e lavoratori cinesi, in un’economia nazionale che costringe circa 2,2 milioni di filippini a cercare lavoro a contratto all’estero ogni anno, prevale il “team China” (come il governo Duterte è stato chiamato criticamente dalla stampa). 

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E quindi cos’è questa nuova guerra fredda? Con l’elezione presidenziale di Biden durante l’anno disastroso della pandemia globale, si fanno speculazioni su cosa ne sarà delle tensioni tra Stati Uniti e Cina, ma anche sull’alleanza Usa-Filippine che abbiamo visto essere diventata “sfilacciata”, un’alleanza che però continua a essere importante nella strategia della nuova amministrazione statunitense per «preservare l’area Indo-Pacifico libera e aperta». 

Certamente, gli ultimi quattro anni per le Filippine hanno segnato la fine del ruolo di amante paziente e fedele, il ruolo del “tontolone” asiatico (l’aiutante “scemo”), e di “boy” dell’America avuto durante la vecchia guerra fredda. Duterte ha parlato tanto, in molti modi diversi nel corso degli anni.

Nel febbraio 2020, Duterte ha abrogato il Visiting Forces Agreement (Vfa) varato nel 1999 quando il suo top gun, il senatore Ronald “Bato” de la Rosa, ex capo della polizia che ha supervisionato i primi due anni di migliaia di uccisioni extragiudiziali nell’ambito della guerra alla droga, si è visto negare i documenti d’ingresso per gli Stati Uniti. Il suo portavoce ha considerato che questo atto degli Stati Uniti «sconfina con l’assalto alla nostra sovranità e alla mancanza di rispetto per il nostro sistema giudiziario», alludendo con ciò a una risoluzione degli Stati Uniti che ha sanzionato l’imprigionamento della senatrice Leila de Lima, una voce critica del governo contro la guerra alla droga.

Mentre poi Duterte ha sospeso l’abrogazione per due volte, la seconda volta all’elezione di Biden a novembre e nel mezzo della continua espansione marittima della Cina nel Mar Cinese Meridionale, ha anche recentemente minacciato di farla pagare agli Stati Uniti mettendo in dubbio la continuazione dell’alleanza di sicurezza militare, esprimendo frustrazione e risentimento contro gli Stati Uniti perché, come ha detto, «hanno preso così tanto da noi e dato così poco di ciò che è stato chiesto in cambio».

Quest’ultimo riferimento alla “ferita” o al risentimento (panghinanakit) segue le dichiarazioni di “ipocrisia” e “rozzezza” o indecenza (napakabastos) rivolte agli Stati Uniti, che le Filippine non saranno trattate come uno «zerbino» dagli Stati Uniti e l’irremovibile rifiuto di rendere conto agli «sciocchi bianchi» che dominano le istituzioni internazionali come la Corte penale internazionale, che sta indagando il governo Duterte per i suoi «crimini contro l’umanità» nella guerra alla droga.

La risposta a dir poco “emotiva” e di pancia di Duterte ai critici dell’Unione Europea sui suoi metodi omicidi – «Abbiamo passato la fase della colonizzazione. Non prendeteci per il culo» – è in effetti una politica di stato.

Come ha dichiarato recentemente il capo consigliere presidenziale per gli affari legali Salvador Panelo, in risposta alle congetture sulle incerte conseguenze di un’amministrazione Biden per le Filippine, l’unica certezza è che le Filippine «non sono più uno stato vassallo di nessuna entità straniera e come tale non permetteranno a nessun potere uguale di mancare di rispetto alla loro indipendenza».

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Eppure, nonostante tutti i discorsi sull’atteggiamento freddo delle Filippine nei confronti degli Stati Uniti, sono continuate a tenersi decine di esercitazioni militari congiunte, si è proseguito a fare affidamento sull’assistenza militare degli Stati Uniti, a stringere accordi bilaterali con le agenzie di sicurezza e sviluppo degli Stati Uniti, che spingono per una crescita guidata dal mercato e per trasformazioni “orientate all’accesso” dell’ambiente, della salute, della finanza e dell’istruzione, tutto per mantenere un qualche vantaggio competitivo “nazionale” che si potrebbe esercitare sulla scena globale. Proprio come il Vfa che è stato abrogato, ma solo per essere subito ripreso, e poi messo di nuovo in discussione, le Filippine giocano «al caldo e al freddo» con gli Stati Uniti, alternando minacce a dichiarazioni di amicizia e alleanza eterne. 

Giocare a caldo e a freddo. I commentatori politici lo chiamano “copertura e contenimento”. Ma cosa sta coprendo e contenendo esattamente lo stato filippino? 

Se le Filippine non sono più uno stato vassallo, di proprietà delle potenze coloniali che l’avevano messa in ginocchio nel corso dei secoli (comprese le banche internazionali), sono ancora quel che sono sempre state per gli stati imperiali e il capitale, cioè una postazione geopoliticamente importante e una piattaforma di lancio per la proiezione del potere globale e dell’egemonia capitalista.

Non più una colonia in senso stretto, ma un avamposto della uber-sovranità territoriale imperiale, conserva tuttavia molti dei tratti caratteristici dei vari ruoli a cui era stata designata durante cinque secoli di dominio coloniale: porto per il commercio e gli affari globali (una destinazione di punta per l’esternalizzazione dei processi aziendali); base militare (ora nodo di rete o «ninfea») per le operazioni di sicurezza globale; laboratorio per tutti i tipi di esperimenti politici, sociali ed economici “globali” (innovazioni nei modelli di gestione del potere, istruzione, salute, tecnologia, social media, pagamenti digitali e infrastrutture di trasferimento di valuta); mercato delle risorse naturali e del lavoro (sito di estrazione di minerali ed “energia” umana e non umana); sito operativo per progetti di sviluppo e nuovi investimenti (modernizzazione, urbanizzazione, assistenza umanitaria, ricostruzione e recupero in zone di guerra); e fornitore/broker di cittadini di paesi terzi (Third Country National) dentro quell’impalcatura della sicurezza degli Stati Uniti creata per altre regioni (Asia Occidentale) così come di fornitore di manodopera a contratto per l’industria della cura domestica, dell’assistenza e delle spedizioni in tutto il mondo.

Se le Filippine continuano a essere una nazione “in prima linea”, la loro importanza in uno scontro fra superpotenze (in particolare per gli Stati Uniti, ma come la seconda guerra mondiale ha dimostrato, per qualsiasi potenza asiatica rivale degli Stati Uniti) si basa senza dubbio sulla cruciale posizione geografica dell’arcipelago al confine più occidentale di un Pacifico dominato dagli Stati Uniti, porta d’accesso all’Asia orientale e sudorientale e stazione aerea e marittima verso l’Asia centrale e occidentale.

Il comportamento “caldo e freddo” attuale deriva quindi dal riconoscimento del ruolo proprio delle Filippine come perno (piuttosto che “roccaforte strategica”) nel contesto dei poteri geopolitici. Sembrerà inutile dirlo, tuttavia, non è semplicemente come territorio geografico, ma piuttosto come nazione composta da vita, umana e non, e capace di creare vita che le Filippine possono svolgere questa funzione di perno. Perché è solo nella sua funzione di deposito e di sistema delle forze e delle capacità di vita disponibile che questo territorio (il corpo alienabile dello stato sovrano) può agire come una server-nazione sicura dentro un quadro di competizione mondiale fra stati per l’egemonia della mega-piattaforma capitalistica.

In questo contesto, ciò che i commentatori intendono quando giustamente chiamano questo atteggiamento che alterna “caldo e freddo” come copertura e contenimento, è che gli stati come il governo filippino non sono semplicemente gestori delle loro rispettive politiche ma anche, e forse soprattutto, arbitri della ricchezza nazionale, che è né più né meno che “vita asservita e sfruttata”, a cui si applicano vari prezzi, che viene comprata e venduta più volte sui mercati mondiali, o spesa a volontà per guadagni correlati.

Gran parte di questa ricchezza (la natura, le persone, e soprattutto le loro forme di sopravvivenza) è stata continuamente consumata e deprezzata, è utilizzata come un bene a disposizione e poi spostata su un altro stadio di estrazione di valore: i futures speculativi, i prestiti/crediti, e la mera circolazione di capitale (umano, merceologico, di investimento) che è al centro di un’economia globale finanziarizzata sempre più guidata dalle piattaforme capitaliste. 

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Infatti, è il costante impoverimento e deprezzamento dei “beni” filippini (smentito dall’ascesa della sua “classe media” globale) che è, nel corso di cinquant’anni di sviluppo neoliberista controinsurrezionale, alla base del loro uso in tutte le industrie globali ausiliarie menzionate sopra. I lavoratori domestici filippini, gli infermieri e le badanti, i lavoratori del sesso, i marittimi, i lavoratori nei call center, i lavoratori della manutenzione delle basi militari, gli eserciti di troll a pagamento, gli operatori dei social media, i servitori, gli autisti e i corrieri sono tutti strumenti volti alla facilitazione della circolazione globale del valore-produttivo del capitale, sia sotto forma di persone, di informazioni, di beni o denaro (credito).

Questa servibilità globale della vita umana filippina e delle sue capacità di vita come componenti vitali a disposizione delle macchine e delle piattaforme capitalistiche è ciò che prolunga la funzione delle Filippine come ospite e ospitante dei desideri delle potenze imperiali dalla vecchia alla nuova Guerra Fredda.

Ieri come oggi, questo servizio è stato assicurato attraverso un’intensa guerra contro-insurrezionale: brutali campagne “calde” per decimare i movimenti radicali organizzati e per pacificare tutte le forme di resistenza popolare nell’arcipelago, che hanno comportato enormi dolori e sofferenze, peraltro non riconosciute.

Se le etichette per identificare l’insorgenza sembrano essersi spostate a livello globale (dal comunismo al terrorismo), nelle Filippine le etichette si sovrappongono e si alternano, fungendo da codici per istigare e legittimare le forme più violente di repressione, comprese le esecuzioni extragiudiziali e le sparizioni effettuate con regolarità e impunità dalle forze statali e dai loro mercenari. Oggi, sotto la legge antiterrorismo del 2020 approvata da Duterte (che sostituisce la legge sulla sicurezza del 2007), i codici repressivi sono unificati nel “red-tagging”: è diretto alla soppressione di qualsiasi espressione di dissenso e critica, perché «intenzione» e «pianificazione», avvicinate al terrorismo, vengono vagamente definite come interferenze «minacciose» verso le infrastrutture critiche, un reato gravemente punibile. 

Come evidenziato da questa definizione in evoluzione del terrorismo, la “sicurezza” ruota intorno alla conservazione del ruolo globale delle Filippine come fornitore di infrastrutture critiche per il capitalismo globale. Ma la violenza che lo stato filippino infligge al suo stesso popolo in nome della sicurezza va oltre quel significato-funzione tipica della guerra fredda quando era “solo” repressione ideologico-politica. La brutale “guerra alla droga” della polizia di Duterte ha infatti lo scopo e l’effetto non solo di rafforzare, attraverso la forte esibizione del suo monopolio sulla violenza, il potere sovrano dello stato filippino.

Adottando le strategie violente delle imprese illecite, decentralizzate e deregolamentate, che hanno proliferato grazie a decenni di contro-insurrezione della Guerra Fredda e post-Guerra Fredda, la “guerra alla droga” ha anche avuto lo scopo e l’effetto di espandere e rendere sicura la vita a disposizione delle piattaforme capitaliste. Ciò significa che la violenza compiuta nelle uccisioni extra-giudiziali crea le condizioni stesse di spendibilità della “vita asservita e sfruttata”, è la dispensa o il fondo da cui la vita utile può essere temporaneamente (e a buon mercato) riscattata e scambiata.

È sia una misura repressiva per addomesticare la vita, sia uno strumento finanziario che rende tale vita un bene liquido, da monetizzare, commerciare, offrire come garanzia per il capitale speculativo, futures da tenere da parte o da spendere, materia prima per una crescente e lucrativa industria della sicurezza globale.

Tutto il dramma machista psico-geopolitico messo in scena da Duterte e rimbalzato dai media non è quindi né mera retorica né semplice metafora, perché come tutte le politiche sessiste e di genere dominanti, ha conseguenze terribilmente reali, dolorose e mortali; questo stesso dramma psico-geopolitico maschilista, però, è allo stesso tempo uno spettacolo che fa apparire le sue conseguenze come secondarie e persino irrilevanti.

Forse non c’è ricordo più raccapricciante e cupo delle terribili rappresentazioni sessiste e di genere tra gli stati che la grazia concessa da Duterte nel 2020 a John Pemberton, il “bravo ragazzo” diciannovenne, un marine bianco americano di stanza nella base militare di Olongapo, condannato nel 2015 per “omicidio” (declassato a colposo) per il brutale strangolamento e annegamento di Jennifer Laude, una donna transgender di 26 anni che aveva incontrato e portato in un albergo vicino l’anno prima. Il sostegno espresso da Duterte alla famiglia di Laude in nome della sovranità filippina, dopo la condanna di Pemberton, si è improvvisamente trasformato in un perdono assoluto e nel rilascio di Pemberton l’anno scorso (per buona condotta), un perdono dato senza dubbio come merce di scambio negli incerti negoziati bilaterali tra gli Usa e le Filippine sull’Accordo per le Visiting Forces nel contesto dell’inarrestabile presenza della Cina nelle Filippine occidentali e nel Mare del Sud.

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Come per Pemberton, il cui improvviso passaggio dalla condanna “calda” per omicidio a “fredda” liberazione è stato giustificato dalla sua difesa legale grazie al panico verso la transessualità, il facile cambiamento di atteggiamento di Duterte è coperto dal suo uso politico, una mossa prevedibile per un paese stretto tra due stati-nazione che sono potenze imperiali in competizione non solo per il dominio politico-territoriale del mondo ma anche per la supremazia globale della piattaforma capitalista.

Tale idea maschilista della realpolitik, tuttavia, rafforza solo questi poteri e, inoltre, esacerba la forte diminuzione e il dispendio di vita e della capacità di creare vita, da cui dipendono tali poteri sovrani, così come le piattaforme che cercano di controllare.

In effetti, ciò che le Filippine dimostrano è che la moneta durevole per queste manovre geopolitiche, sia con la Cina che con gli Stati Uniti, è la vita addomesticata che tutti gli stati capitalisti considerano come propria disponibilità, sia quando si tratta di alleanze fra stati sia quando si tratta di guerra fra stati, calda o fredda che sia.

Solo altri poteri, quelli della sopravvivenza e della resistenza del dissenso, porteranno alla fine di questa guerra permanente.

Neferti Xina M. Tadiar è professoressa di Women’s, Gender, and Sexuality Studies presso il Barnard College e direttrice del Center for the Study of Race and Ethnicity presso la Columbia University. I suoi studi si occupano di lavoro, Filippine e capitalismo globale.

Articolo apparso originariamente su Position Politics

Traduzione di GioGo per una collaborazione tra Dinamopress e Sinosfere per la pubblicazione di quattro articoli sul tema

Immagine di copertina per gentile concessione di Concerned Artists of the Philippines. In foto, le proteste contro la legge Anti-Terrorismo del 29 gennaio 2021. L’installazione a forma di labbra rosse di Leeroy New, che simboleggia il bacio di solidarietà dato agli avvocati del popolo impegnati nella difesa presso la Corte Suprema contro 37 denunce relative alla legge Anti-Terrorismo, è stata utilizzata anche da manifestanti in mobilitazione contro i fatali “red-tagging” di Duterte.