EUROPA

“La telecamera è un’arma che può scardinare i muri”. Intervista al regista di Iuventa

Michele Cinque è il regista del documentario sulla nave di salvataggio Iuventa. Il film è uscito pochi giorni fa nelle sale italiane e sarà proiettato questa sera alle 20.30, alla presenza del regista, all’Università La Sapienza. Un’occasione per parlare anche di Mediterranea, la prima nave italiana impegnata nelle acque internazionali che i migranti provano ad attraversare

Il tuo film, Iuventa, racconta l’esperienza della ONG Jugend rettet dalla prima missione fino al sequestro della nave. Ci hai detto che hai selezionato più di 500 ore di girato. Qual è il filo narrativo che hai trovato? Il sequestro e i suoi sviluppi hanno influito sulle scelte di montaggio?

Questo film non è stato scritto e in questo senso per me è quasi un’opera prima. Ho dovuto rivoluzionare tutto il processo creativo che normalmente è alla base di un film, nel senso che la storia stava già succedendo. Era la tarda primavera del 2016 e la Iuventa era già partita da Emden, a nord della Germania, verso Malta. Da lì a dieci giorni sarebbero partite le missioni di salvataggio. Quindi, non ero in ritardo sulla storia, ero in ritardissimo. Tant’è che il momento eureka è stato immediato: produrre un documentario è un processo lungo, quindi ci vuole un vero e proprio innamoramento per la storia e perciò ne stavo cercando una che mi motivasse davvero. Quando ho deciso di fare questo film ho dovuto lottare per salire sulla Iuventa e ci sono riuscito per una serie di casualità. Imbarcarmi con la prima missione per me era conditio sino qua non per fare il film, perché quello sarebbe stato il primo momento in cui loro avrebbero toccato con mano la realtà di un progetto che durava già da un anno. Inoltre, quella è stata l’unica missione a cui ha partecipato il fondatore, Jacob, che all’epoca aveva 20 anni e solo 19 quando ha fondato la ONG. Diciamo che il filo narrativo si è dipanato in questi due anni di lavoro, ieri parlando con il montatore dicevamo questo è un film girato alle spalle perché io ho avuto accesso alla storia ma non alle vite private dei protagonisti. Quindi ho dovuto fare un grandissimo sforzo per stargli dietro, per non perdermi gli snodi cruciali di una storia durata un anno e 8 mesi. Prima del sequestro della Iuventa stavamo pensando di finire il film prima che cominciasse il secondo anno di missioni, perché lo scontro con la realtà si era manifestato. I protagonisti, ragazzi bianchi europei che, andando di persona ad operare missioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale, con la loro provocazione volevano dare un esempio all’Europa, non solo si sono dovuti confrontare con un’Europa che non reagiva al loro messaggio, ma si sono anche trovati a doversi sostituire all’Unione lungo i suoi confini. Il fermo, però, ha determinato la riapertura del film, influendo sulla sua struttura e facendolo esplodere dal punto di vista narrativo. Infatti, il terzo atto parte più o meno dal sequestro. Non volevo fermarmi alla sconfitta, volevo raccontare come rialzassero la testa, volevo un film che parlasse di speranza. Per me Iuventa è un film di formazione che parla del passaggio all’età adulta, quando si fanno i conti con i propri sogni e con la possibilità di cambiare il mondo, rendendosi conto che non è una cosa semplice. Penso che il film stia avendo un certo impatto anche perché parla direttamente dei ragazzi europei, parla dell’Europa e della nostra generazione.

 

Il tuo film parla della nostra generazione. Pensi anche che parli alla nostra generazione? Secondo te che ruolo può giocare il film in questo momento?

Io penso che l’arte, in un momento in cui sembra dilaghino xenofobia e razzismo, in cui sembrano esserci muri tra le persone, abbia un ruolo politico fondamentale. Questo film insegna che se ci uniamo, anche solo in dieci, abbiamo una potenza e una forza che non siamo più in grado di immaginare. Il sistema economico ultra-liberista in cui viviamo, ci divide e ci rende infelici per farci consumare di più. Perciò credo che il discorso del film sia strettamente legato a tutti gli ambiti della nostra vita sociale. Sono felicissimo dell’impatto che sta avendo: in Germania è già stato proiettato in molte sale ed è uno dei documentari più visti dell’anno. Alcuni parlamentari europei lo stanno addirittura portando in parlamento. È diventato un manifesto, perché mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto, ma anche perché ho tentato di girare un film onesto. Ne conosco bene i limiti, ma so anche che il suo pregio è che, nonostante uno sguardo amorevole, non vuole dimostrare una tesi, ma far ragionare lo spettatore. C’è molta ignoranza: non si sa chi siano questi delle ONG che vanno a salvare vite nel Mediterraneo e ormai c’è il sospetto che siano mossi da interessi privati. Iuventa mostra che questa giovane ONG è formata da ragazzi animati da un senso di comunità e dal desiderio di un’Europa che rispetti i diritti umani. Noi siamo una generazione europea e io mi sento più europeo che italiano, ma vorrei un’Europa in cui rispecchiarmi e penso che sia un sentimento molto comune alla nostra generazione, che vuole un’Europa che non calpesti i diritti umani, l’ambiente, che metta al centro l’uomo e non il profitto. L’ultraliberismo crea divisioni, non soltanto tra bianchi e neri, e finché non troviamo il modo di invertire la rotta sarà sempre il profitto a decidere le sorti degli uomini. Insomma, in un momento del genere l’arte può essere un’arma. Io considero la telecamera un’arma perché ha la capacità di creare empatia e l’empatia può scardinare i muri.

 

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