EUROPA

La Spagna nel vortice del contagio

Il governo Sánchez accentra i poteri per gestire l’emergenza, ma le misure economiche e sociali non sembrano essere sufficienti. Nel frattempo, reti di solidarietà nascono nei quartieri per rispondere all’isolamento della quarantena e rimettere la cura al centro

La Spagna è, dopo l’Italia, il paese europeo più colpito dal Covid-19. La comunità di Madrid è quella che più sta soffrendo la pandemia, seguita da Catalogna e Paesi Baschi. I contagi superano i duemila al giorno, una crescita in proporzione maggiore a quella italiana nello stesso arco di tempo, se si considera che l’emergenza in Spagna è iniziata più tardi. Al problema sanitario va aggiunto quello sociale, che rischia di scoppiare a breve in termini altrettanto drammatici, per le mancanze di tutele per chi non lavora, è precario, autonomo, intermittente, stagionale e in nero

La pandemia arriva in Spagna esattamente due mesi dopo la formazione del nuovo governo di Pedro Sánchez, il primo di coalizione nella storia della recente democrazia. Condiviso tra i socialisti del PSOE e Unidas Podemos, non ha una maggioranza parlamentare stabile. L’emergenza in corso ne costituisce dunque un test molto importante, per la tenuta della coalizione e per le aspettative riposte in Podemos da una grossa fetta dei movimenti sociali.

 

All’interno dell’esecutivo si sono già registrate le prime fratture, precisamente rispetto alla possibilità di gestire la crisi secondo una logica alternativa all’austerità.

 

È la direzione verso la quale spingono i quattro ministri di Podemos, insieme al vicepresidente Pablo Iglesias, disposti a cedere sul rapporto debito-PIL (attualmente pari al 97.6%, ben al di sotto del 134.8% italiano) pur di effettuare investimenti a favore di sanità e servizi sociali (che richiederebbero tra i cinque e dieci punti di PIL). Una linea, però, che trova l’opposizione irremovibile dell’ala liberista del PSOE, intransigente su qualsiasi incremento del deficit.

L’azione di governo, figlia di queste tensioni, si è concentrata su due operazioni principali: la dichiarazione dello stato d’allarme il 14 marzo e le misure economiche straordinarie (il plan de choque) del 17 marzo.

Lo stato d’allarme ricalca in buona parte la strategia italiana: militarizzazione del territorio e divieto di uscire se non in caso di estrema necessità, in applicazione della dottrina dello shock; obbligo di chiusura per gli esercizi commerciali a eccezione di quelli legati a bisogni primari. L’organizzazione autonoma del territorio è di fatto sospesa e competenze come la sicurezza e la sanità, prima gestite dalle singole comunità, sono ora nelle mani nel governo centrale. Una decisione che torna a infiammare la “questione catalana”. Guardando i lati positivi, è da sottolineare la possibilità che lo Stato possa intervenire sulla sanità privata, in modo da metterne le strutture a disposizione del pubblico, ma non è chiaro se e come questo verrà fatto.

 

Il generale dell’aeronautica spagnola Miguel Ángel Villarroya, capo di stato maggiore della Difesa

 

Il plan de choque mira a far fronte all’impatto economico e sociale della pandemia.

Si tratta di un provvedimento che mobilita fino a 300 miliardi, di cui 117 provenienti dal pubblico: una cifra altissima, intorno al 20% del PIL, uno degli investimenti più dispendiosi della storia del paese.

Tra le misure previste ve ne sono di positive, come la sospensione del pagamento delle ipoteche ed il divieto di tagliare acqua ed energia elettrica. Entrambe le iniziative, però, si scontrano con forti limitazioni: durano poco più di un mese e i destinatari (genericamente indicati nel testo come «vulnerabili») non sono definiti in modo chiaro.

Molto blanda anche la parte riguardante la possibilità di ridurre o adattare la giornata di lavoro in base ai lavori di cura, come assistere anziani o bambini, data la chiusura delle scuole. La riduzione, infatti, è vincolata a una diminuzione proporzionale del salario e le condizioni per la sua applicazione sono comunque estremamente strette. Il governo, inoltre, predispone una serie di garanzie, come un sussidio di disoccupazione e l’estensione della ERTE (la cassa integrazione). Non ci sono però misure di sostegno universali. Troppo poco se si pensa che grossa parte dei soldi messi a disposizione dal decreto (100 miliardi) sono destinati a sostenere le imprese private, ad appoggiare la richiesta di prestiti a banche e istituti finanziari. La tendenza, in linea con la gestione dell’ultima crisi finanziaria, sembra quella di reiterare i finanziamenti pubblici al settore privato.

 

Le ambiguità e l’alto tasso di discrezionalità nell’applicazione delle misure hanno già causato dure risposte dei lavoratori.

 

Se molte fabbriche rimangono aperte, a testimonianza della debolezza del governo di fronte alle organizzazioni patronali, lunedì 16 alla Mercedes di Vitoria, tra le industrie più grandi del paese, gli operai hanno incrociato le braccia per la mancanza di protocolli anti-contagio, costringendo lo stabilimento a chiudere.

Nonostante gli appelli di Sánchez, è enorme il numero di licenziamenti, sospensioni di contratto, obbligo di ferie e irregolarità di vario tipo. Un’ondata che coinvolge la quasi totalità degli ambiti di produzione, nella piccola come nella grande impresa: Burger King, ad esempio, ha sospeso il personale di tutto il paese, 14.000 dipendenti.

Il turismo è tra i settori più colpiti. Emblematico il caso della Melia International Hotels, che ha licenziato 230 persone e ad altrettante ha ridotto il salario.

La situazione del turismo è di particolare interesse per la centralità che riveste nel tessuto economico spagnolo. L’insistenza nella cosiddetta “via turistica”, infatti, fu il mezzo con cui si realizzò l’uscita dalla crisi del 2008. La sua fragilità, pertanto, pesa in modo notevole sugli equilibri economici e dà un’idea della dimensione della recessione alla quale va incontro il paese.

Nel pacchetto di provvedimenti c’è un altro grande assente: la sospensione del pagamento degli affitti. Una mancanza drammatica, se si considera la bolla immobiliare causata da turismo selvaggio, gentrificazione e speculazione immobiliare. Su questa vertenza, dietro l’hashtag #PlanDeChoqueSocial, si sta focalizzando per ora l’agenda dei movimenti sociali.

 

 

Sono in mobilitazione le vecchie P.A.H. (plactaformas de afectados por la hipoteca), nate nella fase 15M e ormai diffuse in tutto lo Stato, le organizzazioni di quartiere – di cui sono costellate le capitali come Madrid e Barcellona – e infine i sindacati degli inquilini. Tali soggetti, che godono di un forte supporto popolare, hanno messo a punto durante gli ultimi anni uno stile militante che intreccia le pratiche dell’occupazione e il blocco degli sfratti con l’assistenza legale e la pressione sulle istituzioni. Questo ha permesso di accumulare una forza notevole e di far sì che la sensibilità verso il diritto alla casa, in Spagna più che in altri paesi, si facesse senso comune generale. Si parla tra le altre cose di sciopero degli affitti.

 

Ma la caratteristica davvero nuova che emerge dello stato di quarantena è la ridefinizione delle relazioni umane che rompe l’isolamento domestico.

 

Si rafforzano le vecchie reti di quartiere e di condominio e ne nascono di nuove in tutte le città. I canali e gruppi Telegram e WhatsApp sono lo strumento dove queste reti si coordinano. Si condividono le storie di coloro che sono stati licenziati o hanno subito ingiustizie al lavoro, spesso si cerca un’assistenza legale tra i conoscenti.

Così le reti di quartiere sono la prima risposta vitale ai messaggi belligeranti e di morte, alla stucchevole retorica patriottica. Le forme di vita che la pandemia ci induce ad assumere sono un terreno di battaglia. Si pongono in opposizione totale alla retorica della “guerra” al virus, che acquista connotati oltre la semplice metafora. Nei media nazionali, nei discorsi del Re e di Pedro Sánchez, si fa appello alla unità e al senso dello stato, all’uguaglianza in questa guerra contro il “nemico invisibile”. «In questa guerra irregolare e straordinaria che ci tocca combattere, siamo tutti soldati» – diceva il capo di stato maggiore della Difesa lo scorso 20 marzo. Ma in realtà, proprio come in ogni guerra, come sempre, non si è mai tutti soldati, e non si è mai tutt* uguali.

Con il confinamento ritorna il contatto con il vicino del balcone di fronte o della terrazza a fianco. L’arrivo del virus evidenzia in modo chiaro una crisi strutturale del lavoro di cura: chi si incarica degli anziani se i parenti non possono raggiungerli? Chi si occupa dei bambini se le scuole sono chiuse ed i genitori obbligati a lavorare? Le reti di quartiere nascono anche come risposta spontanea a queste necessità, in un momento in cui il lavoro di cura non può più essere svolto dalla marea di lavoratrici domestiche in nero, costrette ora a chiudersi in casa. Una casa in cui si possono nascondere casi di violenza domestiche, un rischio che aumenta con il confinamento.

Tutte le sere, alle otto, si esce fuori dai balconi per applaudire medici e lavoratori della sanità pubblica: l’empatia che si sta creando verso queste figure e la consapevolezza della loro importanza non andrà via facilmente. Chi porta una chitarra, chi monta le casse. L’applauso delle otto si trasforma in una festa: c’è chi canta, chi chiacchiera, chi fa cori. Tanto la rabbia come la festa collettiva, anche se forse un po’ malinconica, cancellano la paura e l’insicurezza.