editoriale

La rivoluzione non sarà twittata

Che tipo di ruolo possono giocare i social network all’interno dei movimenti? Una riflessione controcorrente a partire dai dati sul digital divide.

La rivoluzione non sarà twittata. Forse vi è capitato di pensare il contrario, colti dallo stesso tecno-entusiasmo che infiammò un famoso reportage dell’Atlantic sulla nascente Primavera Araba nel 2009. E invece non sarà così, per giunta per un motivo banale: Twitter non è una piattaforma della gente per la gente (nonostante possa talvolta facilitare azioni di resistenza politica) ma un ente a fine di lucro che risponde esclusivamente alla logica del profitto (così come gli altri social, del resto). A tale proposito, voglio offrire degli spunti per mettere in discussione il ruolo dei social media nell’azione dei movimenti politici, femministi o meno.

Il ruolo dei social media per i movimenti va ridimensionato per una mera questione di numeri. Secondo il report della fondazione We Are Social, solo il 66% della popolazione italiana usa internet con regolarità. Non abbiamo nemmeno ancora fatto il login sui social, e già un italiana/o su tre è esclusa/o. Dati alla mano, il famoso “digital divide” (la disuguaglianza nella distribuzione dell’opportunità di accedere alla rete) è vivo e vegeto. Aggiungo anche che solo un utente internet su due ha un profilo Facebook (55%), e solo un utente su quattro ha un profilo Twitter (25%). Un movimento che si prefigge di raggiungere una certa massa critica non può quindi pensare di mettere da parte le iniziative “analogiche” (quelle nel così detto “mondo reale”).

Una volta fatto il login sui social, il digital divide colpisce ancora, questa volta manifestandosi in una iniqua distribuzione della visibilità. Semplificando, chi ha più risorse nel mondo analogico – tempo, reputazione e, soprattutto, soldi – ottiene visibilità sui social con estrema facilità. Spesso, banalmente, la compra. Tutti gli altri rimangono nelle retrovie. Per esempio, un movimento capace di portare in piazza 200mila persone come Non Una di Meno ha poco più di 7mila followers su Twitter. In confronto, una figura istituzionale relativamente attiva su questioni di genere come la Presidente della Camera Laura Boldrini è seguita da 758mila utenti. E un’icona del femminismo pop (a torto o a ragione) come Beyoncé di followers ne ha più di 15 milioni. Le proporzioni sono chiare. I social non annullano i rapporti di potere, li rispecchiano.

Questo non vuol dire che i movimenti non possano utilizzare i social per complementare le loro azioni. Come è immediatamente chiaro se si guarda un telegiornale qualsiasi, l’analogico e il virtuale non sono separati, ma sono in costante conversazione e si influenzano a vicenda. Prendendo ancora ad esempio Non una di meno, l’inquinamento (virtuale) dell’hashtag #sanvalentino2017 ha contribuito con un certo successo al lancio dello sciopero (analogico) delle donne organizzato per l’8 marzo (Teknopolitica ne fa un’analisi dettagliata). Procedendo nell’altro verso, la risposta social (virtuale) all’ultima messa in onda del programma Parliamone Sabato su RAI Uno ha preceduto e senz’altro influenzato l’azione (analogica) del presidio Non una di meno presso la sede della RAI.

Riassumendo: si può fare attivismo sui social, nonostante i suoi chiari limiti. Per contro non si può fare attivismo solo sui social per via del loro carattere escludente. Per raggiungere tutte e tutti, è necessario lavorare nell’analogico cosi come nel virtuale. Questo lo sanno bene i collettivi aderenti a Non una di meno, che mescolano con maestria buone pratiche sul territorio con azioni mirate sui social di grande impatto perché sapientemente coreografate.