LIBRI

La politica estera dello zarismo russo

Friederich Engels

Scritto dal dicembre 1889 al febbraio 1890. “Die Neue Zeit”, n. 5, volume 8, maggio 1890.

I

Non solo i socialisti, ma ogni partito progressista in ogni paese dell’Europa occidentale, ha un duplice interesse nella vittoria del Partito Rivoluzionario Russo.

Primo, perché l’Impero dello Zar è il cardine della reazione europea, la sua ultima posizione fortificata e insieme il suo grande esercito di riserva; perché anche la sua mera esistenza passiva è una minaccia permanente e un pericolo per noi.

In secondo luogo – e questo punto non viene a oggi sufficientemente ribadito – perché, con la sua incessante ingerenza negli affari dell’Occidente, paralizza e disturba il nostro normale sviluppo, e questo allo scopo di conquistare posizioni geografiche, che assicurerebbero alla Russia il dominio sull’Europa, schiacciando conseguentemente ogni possibilità di progresso sotto il tallone di ferro dello zar.

È impossibile, in Inghilterra, scrivere di politica estera russa senza ricordare subito il nome di David Urquhart. Per cinquant’anni ha lavorato instancabilmente per diffondere tra i suoi connazionali la conoscenza degli scopi e dei metodi della diplomazia russa, materia che comprendeva a fondo; e tuttavia, tutto ciò che ottenne per le sue pene fu scherno e la reputazione di una persona assolutamente noiosa. Ora, a dire il vero, i filistei ordinari classificano sotto questa voce chiunque insista su argomenti sgradevoli, specialmente se così importanti. Ma dunque Urquhart, che odiava i filistei senza comprenderne né la natura né la loro attuale inevitabilità storica, era destinato a fallire. Un Tory della vecchia scuola, vedendo di fronte ai suoi occhi che in Inghilterra solo i Tory avevano fino a quel momento offerto un’efficace resistenza alla Russia, e che l’azione dei liberali inglesi e stranieri, compreso l’intero movimento rivoluzionario nel Continente, aveva generalmente portato solo vantaggi e guadagni per quel potere, egli riteneva che, per resistere davvero all’avanzata russa, bisognasse essere un Tory (oppure un turco), e che ogni liberale e rivoluzionario fosse, consapevolmente o no, uno strumento russo. La sua costante occupazione con la diplomazia russa lo aveva portato a considerarla qualcosa di onnipotente, come in effetti l’unico agente attivo nella storia moderna, nelle cui mani tutti gli altri governi erano solo strumenti passivi; così che, se non per la sua stima altrettanto esagerata della forza della Turchia, non si potrebbe capire perché questa onnipotente diplomazia russa non si fosse impadronita di Costantinopoli molto tempo fa.

Per ridurre dunque tutta la storia moderna dalla Rivoluzione francese in poi ad una partita diplomatica di scacchi tra Russia e Turchia, con gli altri Stati europei pedine della Russia, Urquhart dovette porsi come una sorta di profeta orientale che insegnava, invece di semplici fatti storici, una segreta dottrina esoterica in un misterioso linguaggio iperdiplomatico, ricco di allusioni a fatti generalmente non conosciuti, ma raramente enunciati con chiarezza; ed egli, come infallibile panacea contro la supremazia della diplomazia russa su quella inglese, proponeva il rinnovato impeachment dei Ministri e la sostituzione, al Gabinetto, del Privy Council. Urquhart era un uomo di grande merito, ed oltretutto un ottimo inglese della vecchia scuola; ma i diplomatici russi potrebbero ben dire: “Si M. Urquhart n’existait pas, il faudrait l’inventer” (se il Sig. Urquhart non esistesse, bisognerebbe inventarlo).

Persino tra i rivoluzionari russi del resto esiste ancora un’ignoranza relativamente grande di questo lato della storia russa. Da un lato, perché nella stessa Russia è tollerata solo la vulgata ufficiale; dall’altro, così come moltissimi altri, perché disprezzano troppo il governo dello Zar, credendolo incapace di nulla che sia razionale. Incapace, un po’ per stupidità, un po’ per corruzione. E per quanto riguarda la politica interna russa ciò è abbastanza corretto; lì l’impotenza dello zarismo è chiara come il giorno. Tuttavia dobbiamo conoscere non solo la debolezza, ma anche la forza del nemico. E la politica estera è senza dubbio l’aspetto su cui lo zarismo è forte, molto forte. La diplomazia russa forma, in una certa misura, un moderno Ordine dei Gesuiti, abbastanza potente, se necessario, da superare anche i capricci di uno zar e schiacciare la corruzione nel suo stesso corpo solo per diffonderla più copiosamente all’estero; un Ordine dei Gesuiti originariamente preferibilmente reclutato tra stranieri, Corsi come Pozzo di Borgo, Tedeschi come Nesselrode, Russo-Tedeschi come Lieven, esattamente come la sua fondatrice, Caterina II, era lei stessa una straniera.

L’antica aristocrazia russa aveva del resto ancora troppi interessi mondani, privati e familiari; non aveva l’assoluta affidabilità che il servizio di questo nuovo ordine richiedeva. E poiché la povertà personale e il celibato del sacerdote gesuita cattolico non potevano essere loro imposti, dovettero, per il momento, essere relegati ad incarichi secondari o a posizioni di rappresentanza, ambasciate, ecc. Così, gradualmente, si costruì una scuola di diplomatici autoctoni. Finora solamente un russo purosangue, Gortschakoff, ha ricoperto la carica più alta in questo ordine, e il suo successore, Von Giers, ha nuovamente un cognome straniero.

È stato questo ordine segreto, originariamente reclutato tra avventurieri stranieri, che ha innalzato l’Impero russo alla sua attuale potenza. Con ferrea perseveranza, lo sguardo fisso risolutamente sull’obiettivo, non rifuggendo da alcuna violazione della fede, nessun tradimento, nessun assassinio, nessun servilismo, prodigando mazzette in tutte le direzioni, mai resa arrogante da alcuna vittoria né scoraggiato da nessuna sconfitta, camminando sui cadaveri di milioni  di soldati e di almeno uno zar, questa banda, tanto senza scrupoli quanto talentuosa, ha fatto più di tutti gli eserciti russi per estendere le frontiere della Russia dal Dnepr e dalla Dvina, fin oltre la Vistola, al Prut, al Danubio e il Mare Nero; dal Don e dal Volga, oltre il Caucaso e fino alle sorgenti dell’Oxus e dello Jaxartes; per rendere la Russia grande, potente e temuta e per aprirle la strada verso la sovranità sul mondo. Ma così facendo ha anche rafforzato il potere dello zarismo in patria. Per il pubblico sciovinista la gloria della vittoria, le conquiste che seguono altre conquiste, la potenza e il fascino dello zarismo, superano di gran lunga tutti i peccati, tutto il dispotismo, tutta l’ingiustizia e tutta la sfrenata oppressione. Le roboanti chiacchiere dello sciovinismo compensano pienamente tutte le umiliazioni domestiche. E questo tanto più quanto meno le reali cause e i dettagli di questi successi sono conosciuti in Russia, e vengono sostituiti da una mitologia ufficiale, esattamente tale a quella che governi caritatevoli un po’ ovunque (in Prussia e in Francia per esempio) inventano per il bene dei propri sudditi e per un maggiore incoraggiamento al patriottismo. Così un russo che sia sciovinista, prima o poi cadrà in ginocchio davanti allo zar, come abbiamo visto nel caso di Tichomiroff.

Ma come ha potuto una tale banda di avventurieri riuscire ad acquisire questa enorme influenza nella storia europea? Molto semplicemente. Non hanno creato qualcosa di nuovo dal nulla, non hanno fatto altro che fare il giusto uso di una situazione esistente. La diplomazia russa aveva avuto una base materiale molto ovvia per tutti i suoi risultati.

Guardiamo alla Russia alla metà del secolo scorso: un territorio colossale anche a quel tempo, popolato da un’etnia particolarmente omogenea. Una popolazione tutto sommato non numerosa, ma in rapida crescita; e dunque una crescita garantita di potenza con il semplice trascorrere del tempo. Questa popolazione, intellettualmente stagnante, priva di ogni iniziativa, ma, nei limiti del suo modo tradizionale di esistere, adatta ad essere usata e modellata in qualsiasi cosa; tenace, valorosa, obbediente, sprezzante delle fatiche e dei parimenti, un materiale insuperabile per i soldati nelle guerre di quel tempo dove lo scontro di masse compatte era decisivo. Il paese stesso con un solo lato – il suo lato occidentale – rivolto verso l’Europa, e quindi attaccabile solo da quel lato; senza alcun centro, la conquista del quale avrebbe potuto imporre una pace; salvaguardato quasi assolutamente dalla conquista per la sua assenza di strade, dall’immensità della sua superficie e dalla povertà delle risorse. Qui stava una posizione di forza inespugnabile, pronta per chiunque avesse saputo usarla, laddove ciò potesse essere fatto con impunità, che avrebbe portato guerra dopo guerra su qualsiasi altro governo in Europa.

Forte dell’imprendibilità sul lato difensivo, la Russia era però corrispondentemente debole sul piano dell’offensiva. Il raduno, l’organizzazione, l’equipaggiamento ed i movimenti dei suoi eserciti al suo interno incontrarono enormi ostacoli, e a tutte le difficoltà materiali si aggiunse la sconfinata corruzione degli ufficiali e dei generali. Tutti i tentativi di rendere la Russia capace di attacchi su larga scala sono finora falliti e probabilmente gli ultimi tentativi attuali di introdurre la coscrizione obbligatoria universale, falliranno altrettanto completamente. Si potrebbe dire che le difficoltà crescono col quadrato delle masse da organizzare, a prescindere dall’impossibilità o meno di trovare, con una popolazione cittadina così piccola, l’enorme numero di ufficiali attualmente richiesti. Questa debolezza non mai è stata un segreto per la diplomazia russa. Di conseguenza essa ha, quando possibile, evitato la guerra, l’ha accettata solo come ultima risorsa, e quindi solo alle condizioni a lei più favorevoli. Le si confanno solo quelle guerre in cui gli alleati della Russia devono sopportare il peso dello sforzo bellico, esponendo il proprio territorio alla devastazione come luogo di conflitto, e rifornendo la grande massa di combattenti, e in cui, alle truppe russe, rimane solo il ruolo di forze di riserva. E proprio in quel ruolo sono generalmente risparmiati in battaglia, ma negli scontri decisivi, con sacrifici relativamente piccoli, raccolgono la gloria di spostare l’equilibrio della vittoria; tale fu la loro parte nella guerra del 1813-1815. Ma una guerra condotta in condizioni così favorevoli non è sempre possibile. Perciò la diplomazia russa preferisce usare gli interessi e i desideri antagonistici delle altre potenze ai propri fini, per prendere questi poteri per le orecchie e sfruttare le loro inimicizie a beneficio della propria politica di conquista. Solo contro coloro che sono chiaramente più deboli – Svezia, Turchia, Persia – l’impero zarista combatte per conto proprio, e in questi casi non deve dividere il bottino con nessuno.

Ma torniamo alla Russia del 1760. Questo paese omogeneo e inattaccabile aveva per vicini solo paesi che erano effettivamente o apparentemente deboli, prossimi alla disintegrazione, e quindi pura matière à conquêtes (materia di conquista?). Al nord, la Svezia, il cui potere e prestigio erano andati perduti proprio a causa di Carlo XII che aveva tentato di invadere la Russia, e così facendo aveva rovinato il suo paese e reso evidente l’inattaccabilità della Russia. A sud, i Turchi e i loro tributari, i Tartari di Crimea, relitti di un’antica grandezza. Il potere offensivo dei Turchi era stato spezzato negli ultimi 100 anni, e il loro potere di difesa era ancora notevole, eppure anch’esso in declino. E come migliore prova di questa crescente debolezza, c’erano movimenti ribelli tra i sudditi cristiani, gli Slavi, i Rumeni ed i Greci, che formavano la maggioranza della popolazione nella Penisola Balcanica. Questi cristiani, appartenenti quasi esclusivamente alla Chiesa greca, erano quindi affini ai russi per fede, e gli slavi tra loro, i serbi ed i bulgari, erano inoltre legati ad essi etnicamente. La Russia doveva quindi solo proclamare il suo dovere di proteggere l’oppressa Chiesa greca e gli slavi calpestati, e il campo per la conquista – nel nome della “liberazione degli oppressi” – sarebbe stata a portata di mano.  Allo stesso modo c’erano a sud del Caucaso piccoli Stati cristiani e cristiani armeni sotto sovranità della Turchia, per i quali l’impero zarista poteva posare da “salvatore”. E poi, proprio in questo sud, un premio, superiore a qualsiasi altro che l’Europa potesse offrire, allettava più di tutti il bramoso conquistatore: l’antica capitale dell’Impero Romano d’Oriente, la metropoli dell’intero mondo greco-ortodosso, la città il cui nome russo già esprime il primato sull’oriente e il prestigio che investe il suo possessore agli occhi della cristianità orientale — Costantinopoli-Zargrad.

Zargrad come terza capitale russa insieme a Mosca e Pietroburgo: questo significava non solo supremazia morale sulla cristianità orientale, ma anche il passo decisivo verso la supremazia sull’Europa. Significava il comando esclusivo del Mar Nero, dell’Asia Minore, della penisola balcanica. Avrebbe dato possibilità, ogni volta che lo zar avesse voluto, la chiusura del Mar Nero a tutte le navi mercantili e a tutti gli eserciti tranne quelli russi, la sua trasformazione in un polo navale russo e un luogo di manovra esclusivo per la flotta russa, che da questo sicuro rifugio poteva passare attraverso il Bosforo fortificato e ivi tornare tutte le volte che voleva. Allora la Russia avrebbe avuto solo bisogno di ottenere sotto il medesimo comando, diretto o indiretto, dell’Øresund e degli stretti danesi, per diventare inattaccabile anche sul mare.

Il comando della penisola balcanica porterebbe la Russia fino all’Adriatico. E questa frontiera a sud-ovest sarebbe stata indifendibile, a meno che la frontiera russa non fosse corrispondentemente avanzata lungo tutto l’ovest, e la sfera del suo potere si fosse estesa considerevolmente. Ma in questo caso le condizioni erano, se possibile, ancora più favorevoli.

Innanzitutto, la Polonia, completamente disorganizzata, una repubblica di nobili, fondata sulla spoliazione e sull’oppressione dei contadini, con una costituzione che rendeva impossibile ogni azione nazionale, e che dunque rendeva il paese una facile preda per i suoi vicini. Dall’inizio del secolo era esistita solo, come dicevano gli stessi polacchi, in mezzo al caos (Polska nierzadem stoi); l’intero paese era costantemente occupato e attraversato da truppe straniere, che lo usavano come un’osteria (karczma zajezdna, dicevano i polacchi), a cui di solito si dimenticavano di pagare il conto. Già Pietro il Grande aveva sistematicamente rovinato la Polonia – i suoi successori dovevano solo stendere la mano per prenderla. E per farlo avevano un altro pretesto: il “Principio di nazionalità”. La Polonia, infatti, non era un paese omogeneo. Nel momento in cui la Grande Russia cadde sotto il giogo mongolo, la Russia Bianca e la Piccola Russia (nome ottocentesco dell’Ucraina – nota del traduttore) trovarono protezione contro l’invasione asiatica, unendosi nel cosiddetto Principato lituano. Questo Principato in seguito si unì volontariamente alla Polonia. Successivamente, come conseguenza della maggiore civilizzazione dei polacchi, le nobiltà della Russia Bianca e Piccola diventarono in gran parte polacche; e al tempo della supremazia dei Gesuiti in Polonia, nel XVI secolo, i polacchi greco-ortodossi erano stati costretti alla conversione al Cattolicesimo della Chiesa romana. Ciò diede agli Zar della Grande Russia il tanto atteso pretesto per rivendicare l’ex territorio lituano come un territorio russo di nazionalità ora oppressa dalla Polonia cattolica, sebbene almeno i Piccoli Russi, secondo la più grande autorità vivente sulle lingue slave, Mikiosic, non parlava neanche più un semplice dialetto russo, ma proprio una lingua autonoma. Un ulteriore pretesto per rivendicare il diritto alla propria ingerenza fu quello di definirsi protettori della fede greca, a beneficio degli uniati greco-ortodossi, sebbene si fossero da tempo riconciliati nei confronti della Chiesa romana.

Oltre la Polonia, poi, c’era un altro paese che sembrava essere caduto in una rovina irrimediabile: la Germania. Dalla Guerra dei Trent’anni, il Sacro Romano Impero era uno Stato solo nominalmente. La posizione dei principi all’interno dell’Impero si avvicinava sempre più alla completa sovranità ed il loro potere di sfidare l’imperatore, che in Germania aveva sostituito il liberum veto polacco, era stato, dalla pace di Westfalia, espressamente posto sotto la garanzia della Francia e della Svezia. Un rafforzamento eventuale del potere centrale era quindi subordinato all’assenso dello straniero, il cui diretto interesse era quello di impedire qualsiasi cosa che gli somigliasse. Oltre a questo, la Svezia, grazie alle sue conquiste tedesche, era diventato un membro dell’Impero tedesco, con seggio e voto nelle Diete Imperiali. In ogni guerra l’Imperatore incontrava dei Principi dell’Impero tedesco tra gli alleati dei suoi nemici stranieri; ogni guerra era quindi una guerra civile. Quasi tutti i principi più grandi o quelli secondari dell’Impero erano stati in qualche modo comprati da Luigi XIV, e il paese era così rovinato economicamente che, senza l’afflusso annuale di tangenti francesi, sarebbe stato impossibile mantenere del denaro circolante da utilizzare. [Vedi Gulich, Geschichtliche Darstellung des Handels u. Jena 1830, 2. Banda, S. 201-206. — Nota di Engels] L’imperatore aveva dunque da tempo cercato la sua forza non nel suo impero, che gli costava solo denaro e non gli procurava altro che preoccupazione e vessazioni, ma nei suoi domini austriaci, tedeschi ed extratedeschi. E fianco a fianco con la potenza austriaca, distinta dalla Germania, la potenza prussiana si stava già affermando come una rivale.

Tale era lo stato delle cose in Germania al tempo di Pietro il Grande. Quest’uomo davvero grande, grande in un modo del tutto diverso da Federico “il Grande”, il servitore obbediente della succeditrice di Pietro, Caterina II — fu il primo a cogliere a fondo la condizione meravigliosamente favorevole dell’Europa ai fini della Russia. Non solo rispetto a Svezia, Turchia, Persia, Polonia gli apparvero chiari — molto più chiaramente di quanto non apparisse nel suo cosiddetto Testamento, che sembra opera di un epigono — i punti principali della politica russa. Egli la stabilì fermamente e iniziò a metterla in atto. Fece lo stesso nei confronti della Germania. Si preoccupava anzi molto più della Germania che di qualsiasi altro paese eccetto la Svezia. La Svezia egli doveva spezzare. La Polonia l’avrebbe potuta ottenere non appena avesse deciso di tendere la mano. La Turchia invece era ancora troppo lontana per lui. Ma, mettere un piede in pianta stabile in Germania, per ottenere una posizione che la Francia usava così fruttuosamente e che la Svezia era troppo debole per usare, divenne il suo compito principale. Fece ogni sforzo per diventare un principe tedesco dell’Impero con l’acquisizione di territorio tedesco, ma invano; poté solo avviare il sistema dei matrimoni misti con i principi tedeschi e lo sfruttamento diplomatico dei dissensi interni alla Germania.

Dai tempi di Pietro la situazione era diventata ancora più favorevole alla Russia con l’ascesa della Prussia. Questa diede all’imperatore tedesco, all’interno dell’Impero stesso, un antagonista quasi suo pari, che perpetuò le divisioni della Germania e le portò all’estremo. E nello stesso tempo questo antagonista era ancora abbastanza debole da dipendere dall’aiuto della Francia o della Russia, specialmente della Russia, così che più si emancipava dal suo vassallaggio nei confronti dell’Impero, più inevitabilmente affondava nel vassallaggio della Russia.

Rimanevano così in Europa solo tre Potenze da considerare: Austria, Francia, Inghilterra. E afferrarle per le orecchie, o corromperle con l’esca di un nuovo territorio, non era cosa difficile. Inghilterra e Francia erano ancora, come sempre, rivali sul mare. La Francia doveva essere allettata dalla prospettiva dell’acquisizione di territori in Belgio e Germania. L’Austria poteva essere corrotta facendo penzolare davanti ai suoi occhi vantaggi da guadagnarsi a spese della Francia, della Prussia e, dal tempo di Giuseppe II, della Baviera. Ecco che, con l’abile utilizzo di interessi contrastanti, si crearono alleati forti, preponderantemente forti, pronti all’uso per qualsiasi mossa diplomatica della Russia. E ora, faccia a faccia con queste terre di frontiera in piena disgregazione, faccia a faccia con tre grandi Potenze, le cui tradizioni, condizioni economiche, i cui interessi politici o dinastici e la cui brama di conquista li coinvolgevano in infinite dispute e le teneva occupate a ingannarsi l’un l’altra, di fronte a costoro ecco la Russia, una, omogenea, giovane, in rapida crescita, difficilmente attaccabile e assolutamente inconquistabile, e allo stesso tempo non lavorata, quasi irresistibile, plastica materia grezza. Che opportunità per le persone di talento e ambizione, per le persone che aspirano al potere, non importa come o dove, finché il potere sia reale, finché fornisca un’arena reale per il loro talento e ambizione! E il XVIII secolo “illuminato” produsse tali persone in gran numero: persone che al servizio dell’“Umanità” attraversavano tutta l’Europa, visitavano le Corti di tutti i Principi illuminati – e quale Principe allora non desiderava altro che essere “illuminato”, – che si stabilivano dovunque trovassero un posto favorevole, semi-aristocratico, semi-borghese, in un’Internazionale denazionalizzata dell’Illuminismo. Questa Internazionale cadde in ginocchio davanti alla Semiramide del Nord, una altrettanto denazionalizzata, Sofia Augusta di Anhalt, chiamata Caterina II di Russia, e fu dai ranghi di questa Internazionale che questa stessa Caterina trasse gli elementi per il proprio ordine gesuita della diplomazia russa.

Vediamo ora come funziona questo ordine di gesuiti, come utilizza gli scopi in continua evoluzione delle potenze rivali come mezzo per ottenere il suo proprio scopo – mai mutevole, mai perso di vista – la supremazia mondiale della Russia.

II

Mai le cose furono più favorevoli ai piani per l’espansione dell’impero zarista come nel 1762, quando, dopo aver ucciso il marito, la “grande meretrice” Caterina salì al trono. Tutta l’Europa fu divisa in due campi dalla Guerra dei Sette Anni. L’Inghilterra aveva spezzato la potenza della Francia sui mari, in America, in India, e ormai aveva lasciato il suo alleato continentale, Federico II di Prussia, a badare a se stesso. Quest’ultimo, nel 1762, era sull’orlo della rovina, quando improvvisamente Pietro III di Russia si ritirò dalla guerra contro la Prussia. Abbandonato dal suo ultima alleato, l’Inghilterra, con Austria e Francia permanentemente ostili, stremato da sette anni di lotta per l’esistenza, Federico non ebbe altra scelta che gettarsi ai piedi della neo-incoronata Zarina. Questo gli assicurò non solo una potente protezione, ma la promessa di quella parte della Polonia che divideva la Prussia Orientale dal corpo principale del suo regno, la conquista della quale divenne ora lo scopo principale della sua vita.

Il 31 marzo (11 aprile) 1764, Caterina e Federico firmarono un trattato di alleanza a Pietroburgo, il cui articolo segreto obbligava entrambi a mantenere, se necessario con la forza delle armi, l’attuale costituzione polacca, il miglior modo possibile per rovinare Polonia — contro ogni tentativo di riforma. Con questo accordo fu infatti suggellata la futura spartizione della stessa Polonia. Una porzione di Polonia fu l’osso che la zarina gettò al cane prussiano, così che questi potesse sommessamente sottomettersi a rimanere incatenato alla Russia per un secolo.

Non entrerò nei dettagli della prima spartizione della Polonia. Ma è caratteristico che essa venisse realizzata, contro il volere dell’antiquata Maria Teresa, dai tre grandi pilastri dell’“Illuminismo” europeo, Caterina, Federico e Giuseppe. I due ultimi, orgogliosi della propria arte di governo con cui calpestavano la superstizione di un tradizionale diritto delle genti, furono tuttavia abbastanza stupidi da non accorgersi di come, partecipando al sacco polacco, si fossero arresi, anima e corpo, allo zarismo russo.

Niente avrebbe potuto essere più utile a Caterina di questi suoi vicini principi “illuminati”. “Progresso” e “illuminismo” erano il verso di pappagallo dello zarismo russo in Europa durante il diciottesimo secolo, proprio come lo era la liberazione delle nazioni oppresse nel diciannovesimo.

Nessuna spoliazione, nessuna violenza, nessuna oppressione da parte dello zarismo, ma tutto è stato perpetrato in nome del “progresso”, “illuminismo”, “liberalismo”, “la liberazione degli oppressi”. E gli infantili liberali dell’Europa occidentale – fino a Mr. Gladstone – ancor’oggi ci credono, mentre gli egualmente stupidi conservatori credono altrettanto fermamente nelle stupidaggini sulla difesa della legittimità, sovranità, del mantenimento dell’ordine, della religione, dell’equilibrio del potere e della sacralità dei trattati – che sono tutti concessi contemporaneamente enunciati dalla dottrina ufficiale della Russia. La diplomazia russa era cioè riuscita ad ammorbidire i due grandi partiti borghesi d’Europa. Essere legittimisti e rivoluzionari, conservatori e liberali, ortodossi e “progressisti”, tutto insieme contemporaneamente, è permesso alla Russia, e solo alla Russia. È facile immaginare il disprezzo con cui la diplomazia russa guardi dall’alto in basso l’”acculturato” occidente.

Dopo la Polonia fu la volta della Germania. Austria e Prussia vennero ai ferri corti nella guerra di successione bavarese del 1778, e di nuovo a vantaggio di nessun altro che di Caterina. La Russia era diventata troppo grande per speculare ancora, come aveva fatto Pietro, sull’ingresso nell’Impero tedesco acquisendo qualche piccolo principato tedesco. Essa ora puntava ad ottenere la posizione che già manteneva in Polonia, e che la Francia possedeva nell’Impero tedesco – quella di garante dell’anarchia tedesca contro ogni tentativo di riforma. E questa posizione essa raggiunse. Alla pace di Teschen, del 1779, la Russia, insieme alla Francia, assunse il ruolo di garante del Trattato, e di tutti i precedenti trattati di pace ivi confermati, e specialmente la pace di Westfalia del 1648. Con questo fu certificata e sottoscritta l’impotenza della Germania, ed essa fu marchiata per la futura spartizione tra Francia e Russia.

La Turchia non era stata certo dimenticata. Le guerre russe con la Turchia si verificano sempre in quei periodi in cui c’è pace sulla frontiera occidentale della Russia e, se possibile, quando l’Europa è occupata altrove. Caterina condusse due di tali guerre. La prima portò alle conquiste intorno al Mar d’Azov e all’indipendenza della Crimea; quattro anni dopo, quella regione venne trasformata in una provincia russa. Il secondo conflitto, invece, estese la frontiera russa dal Bug al Dniester. Durante queste guerre gli agenti russi incitarono i greci a ribellarsi contro la Turchia. Naturalmente, i ribelli alla fine furono mollati in asso dal governo russo.

Durante la Guerra d’Indipendenza americana, inoltre, Caterina formulò per la prima volta, per sé e per i suoi alleati, quella che fu chiamata la “neutralità armata” del Nord (1780), cioè la richiesta di limitare i diritti rivendicati dall’Inghilterra in tempo di guerra per la propria Marina in alto mare. Queste richieste rimasero l’obiettivo fisso della politica russa e furono, in sostanza, concesse dall’Europa, e acconsentite dalla stessa Inghilterra, nella pace di Parigi del 1856. I soli Stati Uniti d’America non assecondarono le richieste.

Lo scoppio della Rivoluzione francese fu un altro colpo di fortuna inaspettato per Caterina. Lungi dal temere che le idee rivoluzionarie potessero diffondersi in Russia, vedeva nella Rivoluzione solo una nuova opportunità per afferrare per le orecchie gli altri Stati europei così che la Russia avesse mano libera. Dopo la morte dei suoi due amici e vicini di casa “illuminati”, Federico Guglielmo II in Prussia e Leopoldo in Austria avevano tentato una politica più autonoma. La Rivoluzione diede a Caterina la migliore opportunità possibile – con il pretesto di combattere la Francia repubblicana – di incatenarli di nuovo entrambi alla Russia e, allo stesso tempo, mentre erano impegnati alla frontiera francese, di fare nuove incursioni in Polonia. Sia l’Austria che la Prussia caddero nella trappola. E sebbene la Prussia dal 1787 al 1791 avesse recitato la parte di alleato della Polonia contro Caterina, appena in tempo ci ripensò, e in questa occasione rivendicò addirittura una quota maggiore del bottino polacco. E malgrado anche l’Austria dovesse essere compensata con una fetta di Polonia, ciononostante Caterina riuscì comunque di nuovo a mettere le mani sulla maggior parte del malloppo. Quasi tutta la Russia Bianca e la Piccola Russia erano così riunite alla Grande Russia.

Ma questa volta ci fu un rovescio della medaglia. Mentre il saccheggio della Polonia impegnava, nel 1792-94, una parte importante delle forze della Coalizione, esso indebolì il suo potere di attaccare la Francia, fino al punto che la Francia non divenne abbastanza forte da ottenere la vittoria da sola.

La Polonia cadde, ma la sua resistenza aveva salvato la Rivoluzione francese, e la Rivoluzione francese diede inizio a un movimento contro il quale anche l’impero zarista è impotente. E per questo noi, in Occidente, non dimenticheremo mai la Polonia. Né fu questa – come vedremo – l’unica occasione in cui i polacchi salvarono la rivoluzione europea.

Nella politica di Caterina troviamo tutti gli elementi salienti dell’odierna politica russa, nettamente definiti: l’annessione della Polonia, anche se per il momento una parte del bottino dovette essere consegnata ai suoi vicini; la marchiatura della Germania per la prossima spartizione; Costantinopoli, il grande, mai dimenticato, lento da ottenere, traguardo finale; la conquista della Finlandia a protezione di Pietroburgo; la Svezia da indennizzare dalla Norvegia, che Caterina offrì a Gustavo III, a Fredrikshamn; l’indebolimento della supremazia britannica sui mari, con limitazioni da imporre tramite trattati internazionali; l’incitamento di rivolte tra i cristiani e i Rayah in Turchia; infine, l’ampia provvista fatta di una fraseologia sia liberale che legittimista da usare a seconda dell’occasione come polvere negli occhi di coloro che credevano agli slogan, gli “acculturati” filistei occidentali e la loro cosiddetta opinione pubblica.

Alla morte di Caterina, la Russia possedeva già più di quanto il più selvaggio sciovinismo nazionale avrebbe mai osato chiedere. Tutti coloro che portavano un nome russo, esclusi solo i pochi Piccoli Russi austriaci, si trovarono sotto lo scettro del suo successore, che aveva ormai il pieno diritto di chiamarsi Autocrate di tutti i Russi.

Non solo era stato guadagnato, infatti, l’accesso al mare; sul Baltico come sul Mar Nero ora possedeva un ampio litorale e porti numerosi. Non solo finlandesi, tartari e mongoli, ma pure lituani, svedesi, polacchi e tedeschi erano sotto il dominio russo. Cosa desiderare di più?

Per qualsiasi altra nazione questo sarebbe bastato. Per la diplomazia russa – la nazione non venne consultata – questo era stato solo il trampolino di lancio per altre conquiste.

La Rivoluzione francese si era esaurita e aveva portato alla luce il suo stesso dittatore: un Napoleone. In tal modo si poté persino giustificare secondo ogni punto di vista la superiore saggezza della diplomazia russa, che non si era lasciata intimidire dall’enorme rivolta. L’ascesa di Napoleone, anzi, le diede ancora l’opportunità di nuovi successi.

Per la Germania si stava avvicinando il destino della Polonia. Ma il successore di Caterina, Paolo, era ostinato, capriccioso, inaffidabile; contrastava costantemente l’azione della diplomazia russa. Era diventato insostenibile, bisognava sbarazzarsi di lui. Fu abbastanza facile trovare gli ufficiali della Guardia necessari per farlo: l’erede della Corona, Alessandro, era egli stesso nel complotto e fungeva da copertura. Paolo fu strangolato, e subito si diede inizio ad una nuova campagna per l’onore e la gloria superiori del nuovo Zar, che per le modalità della sua ascesa al trono era diventato lo schiavo a vita della banda diplomatica dei Gesuiti.

Lasciarono a Napoleone il compito di smantellare completamente l’Impero tedesco e di mettere definitivamente in crisi la confusione ivi già esistente. Ma quando si trattò di regolare i conti, la Russia di nuovo intervenne.

La pace di Luneville (1801) aveva concesso alla Francia l’intera riva sinistra del Reno, a condizione che i principi tedeschi così espropriati fossero indennizzati sulla riva destra dai possedimenti dei membri spirituali dell’Impero, dei Vescovi, Abbazie, ecc.

Qui la Russia insistette sulla sua posizione di garante, ottenuta alla pace di Teschen del 1779. Nella suddivisione di queste indennità territoriale essa e la Francia, i due garanti della divisione e della decadenza dell’Impero tedesco, ebbero chiaramente un’opinione di peso. E il dissenso, l’avidità e l’infamia generale dei Principi tedeschi ebbero cura che quest’opinione di Russia e Francia fosse quella decisiva. Così accadde che Russia e Francia elaborarono un piano per la divisione delle terre dei principi spirituali tra i potentati espropriati, e che questo piano, redatto da stranieri, nell’interesse degli stranieri, divenisse, in tutte le parti essenziali, componente integrante di una nuova costituzione imperiale tedesca dalla Relazione conclusiva della Deputazione imperiale (Reichs-Deputations-Hauptschluss) del 1803.

L’impero tedesco venne di fatto dissolto; l’Austria e la Prussia agivano come stati europei indipendenti e, come la Russia e la Francia, guardarono ora i piccoli stati tedeschi semplicemente un terreno di conquista. Cosa ne sarebbe stato di questi piccoli Stati? La Prussia era ancora troppo piccola e troppo giovane per reclamare la supremazia su di loro, e l’Austria aveva appena perso l’ultima traccia di tale supremazia. Ma sia la Russia che la Francia rivendicavano l’eredità dell’Impero tedesco. La Francia aveva distrutto il vecchio Impero con la forza delle armi e premeva sui piccoli Stati nelle immediate vicinanze lungo tutto il Reno. La fama delle vittorie di Napoleone e degli eserciti francesi fece il resto per gettare ai suoi piedi i piccoli principi tedeschi. E la Russia? Ora che la meta per la quale aveva lottato per appena cento anni era quasi a portata di mano, ora che la Germania giaceva completamente disintegrata, esausta fino alla morte, indifesa, impotente, doveva forse la Russia, in questo esatto momento, lasciarsi fregare la preda proprio da sotto il naso dal parvenu corso?

La diplomazia russa iniziò immediatamente una campagna per la conquista della supremazia sui piccoli stati tedeschi. Che ciò fosse impossibile senza una vittoria su Napoleone era auto-evidente. Era quindi necessario conquistare i principi tedeschi e la cosiddetta opinione pubblica tedesca, per quanto allora si potesse dire che questa esistesse. I principi furono trattati con mezzi diplomatici, i filistei con mezzi letterari. Mentre alle Corti vennero presto trasmesse lusinghe, minacce, bugie e corruzione, il pubblico venne inondato di opuscoli misteriosi, in cui la Russia veniva acclamata come l’unica Potenza che poteva salvare la Germania e fornirle un’effettiva protezione, e il cui diritto e dovere per di più era proprio di fare ciò, in virtù del Trattato di Teschen del 1779. E quando scoppiò la guerra del 1805, avrebbe dovuto essere chiaro a chiunque avesse gli occhi aperti, che l’unica questione era se i piccoli stati tedeschi avrebbero formato una Confederazione del Reno russa o francese.

Il fato sorrise alla Germania. I russi e gli austriaci furono sconfitti ad Austerlitz e la nuova Confederazione del Reno fu formata, ma comunque non fu un avamposto dello zarismo. Il giogo francese, almeno, era moderno; come minimo costrinse gli scandalosi principi tedeschi a farla finita con le infamie più stridenti del loro precedente sistema politico.

Dopo Austerlitz si creò l’alleanza prusso-russa, con Jena, Eylau, Friedland e la pace di Tilsit nel 1807. Anche qui si mostrò che immenso vantaggio la Russia avesse nella sua posizione strategicamente sicura. Sconfitta in due campagne, ottenne nuovi territori a spese del suo ex alleato e dall’alleanza con Napoleone per la spartizione del mondo: per Napoleone l’Occidente, per Alessandro l’Oriente!

Il primo frutto di questa alleanza fu la conquista della Finlandia. Senza alcuna dichiarazione di guerra, ma con l’assenso di Napoleone, i Russi avanzarono. L’incapacità, discordia e corruzione dei Generali Svedesi assicurò una facile vittoria e l’audace marcia delle truppe russe attraverso il gelido Baltico forzò un violento cambio di dinastia a Stoccolma e la cessione della Finlandia alla Russia.

Ma quando tre anni dopo divenne imminente la rottura tra Alessandro e Napoleone, lo zar convocò ad Abo il maresciallo Bernadotte, il neoeletto principe ereditario di Svezia, e gli promise la Norvegia se si fosse unito alla Lega d’Inghilterra e fu, come sempre, per Costantinopoli. A Tilsit ea Erfurt, la Moldavia e la Valacchia gli erano state incondizionatamente promesse da Napoleone, con la prospettiva di una spartizione della Turchia, dalla quale, tuttavia, doveva essere esclusa Costantinopoli. Dal 1806 la Russia era in guerra con la Turchia, e questa volta non solo i Greci, ma anche i Serbi si erano ribellati. Ma ciò che era stato detto erroneamente riguardo alla Polonia, era vero invece per la Turchia.

La disorganizzazione la salvò. Il robusto soldato semplice, il figlio del robusto contadino turco, trovò proprio in questa disorganizzazione un mezzo per rimediare al male compiuto dai corrotti Pascià. I turchi potevano essere sconfitti ma non sottomessi e l’esercito russo avanzò ma lentamente verso il Bosforo.

Il prezzo, tuttavia, per questa “mano libera” in Oriente fu l’accettazione del Sistema Continentale di Napoleone, e la sospensione di ogni commercio con l’Inghilterra. E questo significò, per la Russia di allora, una rovina commerciale. Questo fu il preciso momento in cui Eugenio Onegin (nell’epopea di Pushkin) apprese da Adam Smith come una nazione si arricchisca e come non abbia bisogno di denaro finché possiede abbondanza di prodotti del lavoro. Mentre, d’altra parte, suo padre non poteva comprenderlo, e dovette ipotecare un patrimonio dopo l’altro.

La Russia poteva ottenere denaro solo dal commercio marittimo e dall’esportazione dei suoi prodotti nazionali in Inghilterra, all’epoca il mercato principale. E la Russia era ormai troppo occidentalizzata per fare a meno dei soldi. Il blocco commerciale diventò così insopportabile. L’economia politica si rivelò più potente della diplomazia e dello zar messi insieme. I rapporti con l’Inghilterra furono ripresi sommessamente, i termini del Trattato di Tilsit furono infranti e la guerra scoppiò nel 1812.

Napoleone, con gli eserciti combinati di tutto l’Occidente, varcò la frontiera russa. I polacchi, che avevano una conoscenza storica concreta, gli consigliarono di fermarsi presso il Dwina e il Dnepr, per riorganizzare la Polonia, e lì attendere l’attacco russo. Un generale del calibro di Napoleone doveva sapere che questo sarebbe stato il piano migliore. Ma Napoleone, in piedi su quell’altura vertiginosa con le sue fondamenta molto insicure, non poteva più avventurarsi in una lunga campagna. Successi immediati, vittorie abbaglianti e trattati di pace presi d’assalto gli erano indispensabili. Così gettò al vento il consiglio polacco, andò a Mosca e così portò i russi a Parigi.

La distruzione dei grandi eserciti di Napoleone, in ritirata da Mosca, diede il segnale di una rivolta universale contro la supremazia francese in Occidente. In Prussia l’intera nazione si sollevò e costrinse il codardo Federico Guglielmo III alla guerra con Napoleone. Non appena l’Austria ebbe completato i suoi armamenti, si unì alla Russia e alla Prussia. Dopo la battaglia di Lipsia, la Confederazione renana abbandonò Napoleone e, appena diciotto mesi dopo l’ingresso di Napoleone a Mosca, Alessandro entrò a Parigi, signore e padrone d’Europa.

La Turchia, tradita dalla Francia, aveva firmato la pace a Bucarest nel 1812 e aveva sacrificato la Bessarabia alla Russia. Il Congresso di Vienna diede alla Russia il regno di Polonia, così che a questo punto quasi nove decimi di ciò che era stato il territorio polacco era annesso alla Russia. Ma più importante di tutto questo fu la posizione che lo Zar occupò a quel punto in Europa. Egli non aveva più rivali nel continente. Aveva Austria e Prussia a rimorchio. La dinastia borbonica francese era stata da lui reinsediata, ed era quindi ugualmente obbediente. La Svezia aveva ricevuto da lui la Norvegia come ricompensa per la sua politica amichevole. Anche la dinastia spagnola doveva la sua restaurazione molto più alle vittorie di russi, prussiani e austriaci, che a quelle di Wellington, che, dopotutto, non avrebbe mai potuto rovesciare l’impero francese. Mai prima d’ora la Russia aveva ricoperto una posizione così dominante. Ma aveva mosso un altro passo oltre i suoi confini naturali. Se lo sciovinismo russo ha una qualche – non dirò giustificazione – ma una sorta di scusa per le conquiste di Caterina, non può esserci nulla del genere riguardo a quelle di Alessandro. La Finlandia è finlandese e svedese, la Bessarabia rumena, il regno di Polonia polacco. Qui non si trattava più dell’unione di etnie sparse e affini, tutte chiamate russe. Qui non osserviamo nient’altro che la conquista sfacciata di territorio straniero con la forza bruta, nient’altro che un semplice furto.

III

La caduta di Napoleone significò la vittoria delle monarchie europee sulla Rivoluzione francese, la cui ultima fase era stata l’impero napoleonico.

Questa vittoria venne celebrata dalla restaurazione della “Legittimità”. Talleyrand si illuse di imbrogliare lo zar Alessandro con questa espressione, coniata espressamente allo scopo. Ma in realtà fu la diplomazia russa che per mezzo di essa menò tutta l’Europa per il naso. Con il pretesto di difendere la “legittimità”, la diplomazia russa fondò la Santa Alleanza, quell’espansione della Lega Russo-Austro-Prussiana in una cospirazione di tutti i sovrani europei contro i loro stessi popoli, sotto la presidenza della Russia. Gli altri principi credettero in essa; cosa ne pensassero lo zar ed i suoi diplomatici lo vedremo direttamente.

La loro mossa successiva fu quella di trarre vantaggio della loro supremazia appena acquisita, avanzando di un passo verso Costantinopoli. A tal fine potevano impiegare tre leve; i rumeni, i serbi ed i greci. I greci erano l’elemento più promettente. Erano un popolo di commercio, ed i mercanti soffrivano più di tutti dell’oppressione dei pascià turchi. I contadini cristiani sotto il dominio turco stavano materialmente meglio che da qualsiasi altra parte. Essi avevano mantenuto le loro istituzioni pre-turche e il completo autogoverno. Fintanto che pagavano le tasse, il Turco, di regola, non si curava di loro. Furono solo raramente esposto ad atti di violenza, come quelli che i contadini dell’Europa occidentale avevano dovuto sopportare nel Medioevo per mano dei nobili. Era un tipo di esistenza degradata, una vita di sofferenza, ma materialmente tutt’altro che miserabile, e, nel complesso, non inadatta allo stato di civiltà di questi popoli. Ci volle quindi molto tempo prima che questi Rajah slavi scoprissero che questa esistenza era in realtà intollerabile. D’altra parte, il commercio dei greci, poiché il dominio turco li aveva liberati dalla schiacciante concorrenza di veneziani e genovesi, aveva rapidamente prosperato ed era diventato considerevole al punto da non poter più sopportare il dominio turco. In effetti, il dominio turco, come tutti i domini orientale, è incompatibile con la società capitalista. Il plusvalore appropriato non è al sicuro dalle mani dei rapaci Satrapi e Pascià. La prima condizione fondamentale per un commercio redditizio è assente: la sicurezza per la persona e la proprietà del commerciante. Non c’era da stupirsi, quindi, che i Greci, che si erano già ribellati due volte dal 1774, anche in quel momento avrebbero dovuto insorgere.

La ribellione greca poi fornì un grimaldello. Ma per consentire alla diplomazia russa di esercitare la pressione necessaria, all’Occidente doveva essere impedito di interferire, e doveva quindi essergli fornito altro lavoro in casa. E qui il concetto di “Legittimità” aveva preparato brillantemente la strada. I governanti “legittimi” si erano fatti odiare di cuore dappertutto. I loro tentativi di ripristinare le condizioni prerivoluzionarie avevano esasperato la borghesia in tutto l’Occidente; in Francia e in Germania la situazione era in fermento; in Spagna e in Italia scoppiò un’aperta ribellione. La diplomazia russa aveva le mani in pasta in tutte queste cospirazioni e ribellioni. Non che le avesse create, o addirittura aiutate materialmente nei loro momentanei successi. Ma fece semplicemente ciò che poteva fare, tramite i suoi agenti ufficiali, per seminare scontento e disaffezione tra i sudditi dei suoi alleati legittimisti.

Lo zar proteggeva apertamente gli elementi ribelli in Occidente, ogni volta e dovunque questi apparissero sotto la maschera della simpatia per la Grecia. I filelleni che raccoglievano fondi inviavano volontari e corpi armati in Grecia, che cosa erano se non i carbonari e gli altri liberali dell’Occidente?

Tutto ciò non impedì all’illuminato zar Alessandro, ai Congressi di Aix-la-Chapelle, Troppau, Laibach e Verona, di esortare i suoi alleati legittimisti ad agire energicamente contro i propri sudditi ribelli, e dall’inviare gli austriaci nel 1821 in Italia, e i francesi nel 1823 in Spagna, a sopprimere la rivoluzione. Né gli impedì persino di condannare apparentemente anche la ribellione greca, mentre allo stesso tempo continuava a fomentarla, e incoraggiando i Filelleni d’Occidente a raddoppiarne gli sforzi. Ancora una volta la stupida Europa era stata ingannata in modo incredibile. Ai principi e ai reazionari, lo zarismo predicava la legittimità ed il mantenimento dello status quo e al filisteo liberale, la liberazione delle nazioni oppresse – ed entrambi ci credettero.

Il ministro francese a Verona, il romantico Chateaubriand, fu completamente rapito dallo zar, che sedusse la Francia con la prospettiva di recuperare la riva sinistra del Reno, se solo fossero stati obbedienti e si fossero legati alla Russia. Con questa speranza, rafforzata successivamente da impegni vincolanti sotto Carlo X, la diplomazia russa mantenne la Francia ai lacci, e con poche interruzioni diresse la sua politica orientale fino al 1830.

Nonostante tutto ciò, il mondo guardava con diffidenza, o al massimo con indifferenza, alla politica umanitaria dello Zar, che con il pretesto di liberare i greci ortodossi dal giogo maomettano, si sforzava di mettersi al posto del maomettano stesso. Perché, come disse l’ambasciatore russo a Londra, il principe Lieven, (Dispaccio del 18-30 ottobre 1825):

“Tutta l’Europa guarda con terrore al colosso russo, la cui gigantesca forza attende solo che un segno venga diretto contro di lei. Il suo interesse è, quindi, sostenere la Turchia, il nemico naturale del nostro Impero”.

Di qui il fallimento di tutti i tentativi russi di invadere le province danubiane con il tacito consenso dell’Europa, e quindi di costringere la Turchia a capitolare. Proprio in quel momento, nel 1825, giunsero aiuti alla Turchia dall’Egitto. I Greci furono sconfitti ovunque e la rivolta quasi totalmente repressa. La politica russa doveva a quel punto affrontare una sconfitta o un audace rilancio.

Il Cancelliere, Nesselrode, si consultò con i suoi ambasciatori. Pozzo di Borgo a Parigi (Dispaccio del 4-16 ottobre 1825), e Lieven a Londra (Dispaccio del 18-30 ottobre 1825) si dichiararono senza riserve per la mossa audace. Le province danubiane dovevano essere occupate subito, senza alcun riguardo per l’Europa, anche a rischio di una guerra europea. Questa era evidentemente l’opinione universale della diplomazia russa. Ma Alessandro era debole, capriccioso, blasé, mistico-romantico. Egli aveva del tardo impero greco (come lo chiamava Napoleone) non solo l’astuzia e l’inganno, ma anche l’irresolutezza e la mancanza di energia. Cominciò a prendere sul serio la Legittimità e sembrava averne avuto abbastanza della ribellione greca. In questo periodo critico viaggiò per il Sud, vicino a Taganrog, inattiva ed a quel tempo, prima delle ferrovie, quasi inaccessibile. Improvvisamente giunse la notizia che era morto. C’erano sussurri di veleno. La diplomazia si era sbarazzata del figlio come aveva fatto del padre? In ogni caso, non avrebbe potuto morire in un momento più opportuno.

Con Nicola salì al trono uno Zar, di cui la diplomazia non avrebbe potuto desiderare niente di meglio: una mediocrità presuntuosa, il cui orizzonte non superava mai quello di un ufficiale di compagnia, un uomo che scambiava la brutalità per energia e l’ostinazione nel capriccio per forza di volontà, che apprezzava oltre ogni cosa la mera dimostrazione di potenza, e che, quindi, per la semplice ostentazione di essa, poteva essere indotto a fare qualsiasi cosa. A questo punto si ricorse a misure più energiche e si scatenò la guerra contro la Turchia. L’Europa non interferì. L’Inghilterra, per mezzo di discorsi liberali, la Francia, per mezzo delle promesse già menzionate, erano state indotte ad unire le flotte mediterranee con quella russa, e, il 20 ottobre 1827, in piena pace, ad attaccare e distruggere la flotta turco-egiziana, a Navarino. E se l’Inghilterra si ritirò quasi subito, la Francia borbonica rimase fedele. Mentre lo Zar dichiarava guerra alla Turchia e le sue truppe attraversavano il Prut il 6 maggio 1828, 15.000 soldati francesi si preparavano a imbarcarsi per la Grecia, dove sbarcarono in agosto e settembre. Questo fu un avvertimento sufficiente per l’Austria, per non attaccare il fianco dell’avanzata russa su Costantinopoli: ne sarebbe risultata una guerra con la Francia, e il legame russo-francese – Costantinopoli per lo zar, la riva sinistra del Reno per la Francia — sarebbe allora finalmente entrato in vigore.

Alla testa dell’esercito russo, Diebitsch avanzò fino ad Adrianopoli, ma lì si trovò in una posizione tale che avrebbe dovuto riattraversare i Balcani se i turchi fossero riusciti a resistere ancora quindici giorni. Aveva solo 20.000 uomini, di cui un quarto era stato colpito dalla peste. Quindi l’ambasciata prussiana a Costantinopoli riuscì a negoziare una pace mentendo con rapporti su un’avanzata russa minacciosa, ma in realtà decisamente impossibile. Il generale russo era, nelle parole di Moltke:

“salvato da una posizione che forse richiedeva di essere prolungata solo per pochi giorni per scagliarlo dal culmine della vittoria nell’abisso della distruzione”. (Moltke, Der Russisch-Turkische Feldzug, p. 390.)

Comunque, la pace diede alla Russia le foci del Danubio, una fetta di territorio in Armenia, e ancora nuovi pretesti per intromettersi negli affari delle province danubiane. Queste divennero ora, e fino alla guerra di Crimea, il karczma zajezdna (la mangiatoia) per le truppe russe, dalle quali, durante questo periodo, non furono quasi mai libere.

Prima che questi vantaggi potessero essere ulteriormente sfruttati, scoppiò la Rivoluzione di luglio. Ora il dispiegamento di slogan liberali degli agenti russi fu, per un po’, silenziato. Si trattava, ora, solamente di salvaguardare la “Legittimità”. Una campagna della Santa Alleanza contro la Francia era in preparazione quando quando scoppiò l’insurrezione polacca, che per un anno tenne impegnata la Russia. Così, per la seconda volta, la Polonia, con la propria auto-immolazione, salvò la Rivoluzione Europea.

Tralascio i rapporti russo-turchi negli anni 1830-1848. Furono importanti, nella misura in cui consentirono alla Russia, per una volta, di apparire nella parte del difensore della Turchia contro il suo vassallo ribelle, Mehemet Ali d’Egitto, e di inviare 30.000 uomini sul Bosforo per la difesa di Costantinopoli, e, per mezzo del Trattato di Hunkiar Iskeless, di porre la Turchia per alcuni anni praticamente sotto la supremazia russa. E nella misura in cui la Russia riuscì nel 1840, attraverso il tradimento di Palmerston, a trasformare, in una notte, una coalizione europea che minacciava la Russia, in una coalizione contro la Francia. E, infine, nella misura in cui essa poteva prepararsi ad annetttere i Principati tramite la loro occupazione continua, acquartierando i suoi soldati tra i contadini e corrompendo i boiari con il “Règlement organique” [Un codice rurale che metteva a disposizione dei boiari – l’aristocrazia fondiaria del paese – la maggior parte dell’orario di lavoro dei contadini, e questo senza alcun compenso. Per ulteriori dettagli si veda Karl Marx, “Capitale”, cap. X., pp. 218-222 dell’edizione inglese — Nota di Engels]

Per lo più, però, questo periodo fu dedicato alla conquista e alla russificazione del Caucaso, impresa compiuta solo dopo una lotta di vent’anni.

Un grave incidente, tuttavia, accadde alla diplomazia dell’impero zarista. Quando il Granduca Costantino, il 29 novembre 1830, dovette fuggire da Varsavia prima dell’arrivo degli insorti polacchi, tutto il suo archivio diplomatico cadde nelle loro mani. I dispacci del Ministro degli Esteri e le copie ufficiali di tutti i dispacci importanti degli ambasciatori. L’intera macchina della diplomazia russa, e tutti gli intrighi intessuti da essa dal 1825 al 1830, furono messi a nudo. Il governo polacco inviò il conte Zamoyski con questi dispacci in Inghilterra e Francia nel 1835. Su istigazione di Guglielmo IV, vennero pubblicati da David Urquhart nel “Portfolio”. Questo “Portfolio” è ancora una delle fonti principali, e certamente la più incontestabile, sul la storia degli intrighi con cui la diplomazia zarista tenta di suscitare liti tra le nazioni dell’Occidente, e per mezzo di questi dissensi di sfruttarli ai propri fini.

La diplomazia russa aveva ormai resistito a così tante rivoluzioni dell’Europa occidentale, non solo senza perdite, ma con un guadagno effettivo, che si trovò nella posizione di accogliere lo scoppio della Rivoluzione del febbraio 1848, come un nuovo colpo di buona fortuna. Perché la rivoluzione si estese a Vienna, e così non solo rimosse il principale avversario della Russia, Metternich, ma risvegliò anche dal loro torpore gli slavi austriaci, presunti alleati dello zarismo; si impadronì di Berlino, e così guarì il debole impotente, Federico Guglielmo IV, dalla sua brama di indipendenza dalla Russia – cosa poteva esserci di più gradito? La Russia era al sicuro da ogni infezione e la Polonia era presidiata così saldamente che non poteva muoversi. Persino quando la rivoluzione si estese davvero fino ai Principati danubiani. La diplomazia russa ebbe un benvenuto pretesto per una nuova invasione della Moldavia e della Valacchia, per ristabilire l’ordine e consolidare il dominio russo.

Ma non fu abbastanza. L’Austria – l’avversario più ostinato e più ostile della Russia dal lato della penisola balcanica era stata portata sull’orlo della rovina dalle insurrezioni ungheresi e viennesi. La vittoria dell’Ungheria era, tuttavia, sinonimo di un rinnovato scoppio della Rivoluzione europea, e i numerosi polacchi nell’esercito ungherese avevano sentito così tante promesse che questa rivoluzione non si sarebbe fermata di nuovo alla frontiera russa da crederci. Allora Nicola interpretò il ruolo del magnanimo. Mandò i suoi eserciti a invadere l’Ungheria e schiacciò le forze ungheresi con la superiorità numerica, e così segnò la sconfitta della Rivoluzione europea. E poiché la Prussia stava ancora facendo sforzi per usare la rivoluzione per mettere da parte la Confederazione tedesca e per portare almeno gli stati più piccoli della Germania settentrionale sotto la sua supremazia, Nicola convocò la Prussia e l’Austria davanti al suo seggio a Varsavia e decise di schierarsi favore dell’Austria. La Prussia, come ricompensa per i suoi lunghi anni di sottomissione alla Russia, fu vergognosamente umiliata, perché, per un momento, aveva mostrato deboli velleità di resistenza. La questione Schleswig-Holstein fu decisa anche da Nicola contro la Germania e, dopo essersi assicurata la sua adattabilità fino alla fine allo zarismo, nominò erede al trono di Danimarca il Glücksburger Cristiano. Non solo l’Ungheria, l’intera Europa, giaceva ai piedi dello zar, e che vi giacesse era una diretta conseguenza della Rivoluzione. Non aveva dunque ragione la diplomazia russa nel rallegrarsi segretamente delle rivoluzioni in Occidente?

Ma la rivoluzione di febbraio fu, al netto di tutto ciò, la prima campana a morto dello zarismo. L’anima meschina di Nicola, dalla mente ristretta, non poteva sostenere una tale immeritata fortuna. Non seppe reggere il successo e aveva troppa fretta di partire per Costantinopoli. Scoppiò la guerra di Crimea. Inghilterra e Francia vennero in soccorso della Turchia. L’ Austria bruciava per “étonner le monde par la grandeur de son ingratitude”. Perché l’Austria sapeva che in cambio dell’aiuto nella guerra ungherese, e per il giudizio di Varsavia, ci si aspettava che rimanesse neutrale, o anche per facilitare le conquiste russe sul Danubio, conquiste che significavano portare l’Austria a confinare con la Russia a nord, est e sud, da Cracovia a Orsova e Semlin. Ma questa volta, una volta tanto, l’Austria ebbe il coraggio della sua opinione.

La guerra di Crimea è stata una colossale commedia degli errori, in cui ci si chiede costantemente: Qui trompe-t-on ici, chi è il cretino? Ma questa commedia è costata innumerevoli tesori e oltre un milione di vite umane. I primi distaccamenti alleati avevano a malapena raggiunto la Bulgaria quando gli austriaci avanzarono nelle province danubiane e i russi si ritirarono oltre il Prut. Con questo mezzo l’Austria, sul Danubio, si era insinuata tra i due belligeranti. Una continuazione della guerra da questa parte era possibile solo con il suo consenso. Ma l’Austria doveva essere coinvolta allo scopo di una guerra alla frontiera occidentale della Russia. L’Austria sapeva che la Russia non avrebbe mai perdonato la sua brutale ingratitudine ed era quindi pronta ad unirsi agli Alleati, ma solo per una vera guerra, che avrebbe dovuto restaurare la Polonia e respingere considerevolmente la frontiera occidentale della Russia. Una tale guerra doveva anche rendere impossibile la neutralità della Prussia, attraverso il cui territorio la Russia riceveva i suoi rifornimenti; una coalizione europea avrebbe imposto un blocco alla Russia per terra così come per mare, e l’avrebbe attaccata con tale superiorità di forze che la vittoria era scontata.

Ma questa non era affatto l’intenzione di Inghilterra e Francia. Entrambe, al contrario, furono felici di essere liberate dal pericolo di una guerra seria e reale dall’azione dell’Austria. Quello che la Russia desiderava, che gli Alleati andassero in Crimea rimanendo bloccati lì, fu proposto da Palmerston ed accettato con entusiasmo da Luigi Napoleone. Spingere verso l’interno della Russia dalla Crimea sarebbe stata una follia strategica. Così la guerra si trasformò felicemente in una guerra farsa, con grande soddisfazione delle parti più interessate. Ma lo zar Nicola non poteva, alla lunga, sopportare che truppe straniere si stabilissero anche solo alla frontiera del suo impero, in territorio russo. Per lui la finta guerra divenne presto una guerra seria. Ora, quello che era il terreno a lui più favorevole per un simulacro di guerra, era, per una guerra vera, il più pericoloso. La forza della Russia in difesa, l’immensa estensione del suo territorio, scarsamente popolato, impraticabile, povero di risorse, si rivolse contro la Russia non appena Nicola concentrò tutte le forze su Sebastopoli, in un solo punto della periferia. Le steppe della Russia meridionale, che avrebbero dovuto essere la tomba degli invasori, divennero la tomba degli eserciti russi, che Nicola, con la suo brutalmente stupida imperiosità, spedì uno dopo l’altro, l’ultimo in pieno inverno, in Crimea. E quando l’ultimo esercito, frettolosamente raccolto, scarsamente equipaggiato, miseramente rifornito aveva perso circa due terzi dei suoi uomini durante la marcia – interi battaglioni perirono nelle tempeste di neve – e i sopravvissuti furono troppo deboli anche solo per un serio attacco al nemico, allora Nicola, gonfio e senza testa, crollò miseramente, ed evitò le conseguenze del suo delirio cesareo avvelenandosi.

Le condizioni di pace che il suo successore si affrettò a firmare erano tutt’altro che dure. Ben più incisive, tuttavia, furono le conseguenze della guerra all’interno della Russia. Per governare in modo assoluto in patria, lo zar doveva essere più che invincibile all’estero. Doveva essere ininterrottamente vittorioso, doveva essere in grado di ricompensare l’obbedienza incondizionata con l’ebbrezza del trionfo sciovinista, conquista dopo conquista. E ora lo zarismo era miseramente crollato, anche in quella che era la sua rappresentazione esteriore più imponente. Aveva messo a nudo la debolezza della Russia al mondo, e quindi la sua stessa debolezza in Russia. Seguì un’immensa disintossicazione. Il popolo russo era stato troppo rimestato dai colossali sacrifici della guerra, la sua devozione era stata invocata fin troppo prodigalmente dallo zar, perché tornasse seduta stante al vecchio stato passivo di obbedienza irragionevole. Perché gradualmente anche la Russia si era sviluppata economicamente e intellettualmente; accanto alla nobiltà esistevano ora gli elementi emergenti di una seconda classe colta, la borghesia. Insomma, il nuovo zar doveva fare il liberale, ma questa volta in patria. Questo significò l’inizio di una storia interna della Russia, di un movimento intellettuale all’interno della stessa nazione, e del riflesso di questo movimento: un’opinione pubblica, flebile all’inizio, ma sempre più percettibile, e sempre meno disprezzabile. E con questo sorse come il nemico davanti al quale la diplomazia russa alla fine dovrà soccombere. Perché questo tipo di diplomazia è possibile solo in un paese dove, e solo fintanto che il popolo rimanga assolutamente passivo, che non abbia altra volontà che quella del proprio governo, altra missione se non quella di fornire soldati e tasse per portare a termine gli scopi dei diplomatici. Non appena la Russia sperimenti uno sviluppo interno, e con questo, lotte interne tra partiti, il raggiungimento di una forma costituzionale sotto cui queste lotte possano essere combattute senza violente convulsioni, è solo una questione di tempo. Ma allora la tradizionale politica di conquista russa appartiene al passato. L’identità immutabile degli obiettivi della diplomazia russa si perde nella lotta dei partiti per il potere. Il comando assoluto sulle forze della nazione svanisce – la Russia rimarrà difficile da attaccare e relativamente altrettanto debole in attacco, ma diventerà, sotto tutti gli altri aspetti, un paese europeo come gli altri, e la peculiare forza della sua diplomazia sarà spezzata per sempre.

La Russie ne boude pas, elle se recueille“, disse il cancelliere Gortchakoff dopo la guerra. Lui stesso non sapeva quanto veramente parlasse. Parlava solo della Russia diplomatica. Ma anche la Russia non ufficiale si stava riprendendo. E questo recueillement fu incoraggiato dal governo stesso. La guerra aveva dimostrato che la Russia aveva bisogno di ferrovie, motori a vapore, industria moderna, anche per motivi puramente militari. E così il governo iniziò a creare una classe capitalista russa. Ma una tale classe non poteva esistere senza un proletariato, una classe di lavoratori salariati, e per procurarsi gli elementi necessari a questi passi, bisognava affrontare la cosiddetta emancipazione dei contadini. Il contadino pagò la sua libertà personale con il trasferimento della parte migliore della sua proprietà fondiaria alla nobiltà. Ciò che gli fu lasciato era troppo per morire, troppo poco per vivere. Mentre l’Obshtchina [la comune autonoma dei contadini russi — Nota di Engels] fu così intaccata alla radice, il nuovo sviluppo della borghesia fu forzato artificialmente come in una serra, per mezzo di concessioni ferroviarie, dazi di protezione e altri privilegi. E dunque fu iniziata una completa rivoluzione sociale nelle città e nelle campagne, che non avrebbe permesso agli spiriti di tornare a riposare di nuovo, una volta messi in moto. La nuova borghesia si riflesse in un movimento liberal-costituzionale, il proletariato appena emergente nel movimento che di solito è chiamato nichilismo. Questi sono stati i veri risultati del recueillement della Russia.

Intanto la diplomazia non sembrava ancora accorgersi di che avversario fosse sorto in casa. Al contrario, all’estero sembrava ottenere vittoria su vittoria. Al Congresso di Parigi, nel 1856, Orlow fu la figura centrale e svolse un ruolo di primo piano. Invece di fare sacrifici, la Russia aveva ottenuto nuovi successi. I diritti marittimi rivendicati dall’Inghilterra, e contesi dalla Russia fin dai tempi di Caterina, furono definitivamente abrogati e furono gettate le basi di un’alleanza russo-francese contro l’Austria.

Questa alleanza entrò in vigore nel 1859, quando Luigi Napoleone si prestò alla vendetta della Russia sull’Austria. Le conseguenze degli accordi russo-francesi, che Mazzini all’epoca, e secondo i quali, in caso di prolungata resistenza dell’Austria, un Granduca russo doveva essere presentato come candidato al trono di un’Ungheria indipendente, — a queste conseguenze l’Austria sfuggì firmando rapidamente una pace. Ma fin dal 1848 il popolo aveva rovinato l’artigianato della diplomazia. L’Italia divenne indipendente e unita, contro la volontà dello zar e di Luigi Napoleone.

La guerra del 1859 aveva allarmato anche la Prussia. Questa aveva quasi raddoppiato il suo esercito e aveva messo al timone un uomo che, almeno per un aspetto, era all’altezza dei diplomatici russi, nella sua totale indifferenza sui mezzi che impiegava. Quest’uomo era Bismarck. Durante l’insurrezione polacca del 1863, con ostentazione teatrale si schierò con la Russia contro Austria, Francia e Inghilterra, e fece di tutto per aiutarla a vincere. Questo gli assicurò, nel 1864, la defezione dello zar dalla sua politica tradizionale nella questione dello Schleswig-Holstein. Questi ducati furono, con il permesso dello Zar, strappati alla Danimarca. Poi venne la guerra austro-prussiana del 1866. E anche in questo caso lo Zar si rallegrò del rinnovato castigo dell’Austria e del crescente potere della Prussia, l’unico fedele vassallo, fedele anche dopo le pedate del 1849-50. La guerra del 1866 preparò il terreno per la guerra franco-tedesca del 1870, e ancora una volta lo Zar parteggiò per il suo “Dyada Molodetz” prussiano [“Lo zio è una roccia”, esclamazione abituale di Alessandro II, ricevendo gli annunci telegrafici di vittorie di Guglielmo. — Nota di Engels] e tenne direttamente sotto controllo l’Austria, privando così la Francia dell’unico alleato che avrebbe potuto salvarla dalla completa sconfitta. Ma come Luigi Napoleone nel 1866, Alessandro fu imbrogliato dai rapidi successi degli eserciti tedeschi nel 1870. Invece di una guerra prolungata, che sfiniva a morte entrambi i combattenti, ci fu la fulminea ripetizione di colpi su colpi, che in cinque settimane rovesciò l’impero bonapartista e condusse i suoi eserciti prigionieri in Germania.

A quel tempo c’era un solo luogo in Europa in cui la situazione veniva compresa correttamente, ed era nel Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Il 9 settembre 1870 questo pubblicò un manifesto che diceva: —

“Come nel 1865 furono scambiate promesse tra Luigi Bonaparte e Bismarck, così nel 1870 furono scambiate promesse tra Gortschakoff e Bismarck. Come Luigi Bonaparte si lusingò che la guerra del 1866, con conseguente comune esaurimento di Austria e Prussia, lo avrebbe reso l’arbitro supremo della Germania, così Alessandro si lusingò che la guerra del 1870, con conseguente comune esaurimento di Germania e Francia, lo avrebbe reso l’arbitro supremo del continente occidentale. Così come il Secondo Impero pensava che la Confederazione della Germania Settentrionale fosse incompatibile con la sua esistenza, così la Russia autocratica doveva sentirsi minacciata da un impero tedesco sotto la guida prussiana. Tale è la legge del vecchio sistema politico. Entro i suoi limiti, il guadagno di uno Stato è la perdita dell’altro. La suprema influenza dello zar sull’Europa affonda le sue radici nella sua tradizionale presa sulla Germania. In un momento in cui nella Russia stessa vulcanici fenomeni sociali minacciano di scuotere la base stessa dell’autocrazia, lo zar potrebbe permettersi di sopportare una tale perdita di prestigio all’estero? Già i giornali moscoviti ripetono il linguaggio dei giornali bonapartisti dopo la guerra del 1866. I patrioti teutonici credono davvero che la libertà e la pace saranno garantite alla Germania spingendo la Francia nelle braccia della Russia? Se la fortuna delle armi, l’arroganza del successo e l’intrigo dinastico condurranno la Germania alla conquista di territorio francese, allora le rimarranno solo due strade aperte. O essa deve con tutti i rischi diventare lo strumento dichiarato dell’espansionismo russo, o, dopo una breve tregua, dovrà prepararsi di nuovo per un’altra guerra “difensiva”, non una di quelle guerre “localizzate” di nuova concezione, ma una guerra di razze, una guerra contro le razze slava e romana combinate.”

Il nuovo impero tedesco rese alla Russia il servizio di strappare l’Alsazia-Lorena alla Francia e quindi di gettare la Francia nelle braccia della Russia. La diplomazia dello zar era ora nella posizione invidiabile di avere Francia e Germania, ora nemici mortali in virtù di questo smembramento, dipendenti dalla Russia. Questa posizione vantaggiosa sembrò favorire un ulteriore passo verso Costantinopoli; fu dichiarata la guerra turca del 1877. Con grandi sforzi le truppe russe, nel 1878, arrivarono fino alle porte della capitale turca, quando quattro man-of-war inglesi apparvero nel Bosforo, e costrinsero la Russia, in vista delle torri della chiesa di S. Sophia, a fermarsi, e a sottoporre la sua proposta di Trattato di Pace di Santo Stefano ad un Congresso europeo per la revisione.

Eppure, a quanto pare, era stato ottenuto un immenso successo. Romania, Serbia, Montenegro, si erano allargate ed erano state rese indipendenti dalla Russia, ed erano quindi in debito con lei; era stato smantellato il quadrilatero tra il Danubio ei Balcani, il più forte baluardo della Turchia; l’ultimo baluardo di Costantinopoli, i Balcani, era stato strappato alla Turchia e disarmato; la Bulgaria e la Rumelia orientale, nominalmente turche, in realtà russi, erano state rese stati vassalli; Il territorio perduto nel 1856 in Bessarabia, era stato recuperato; nuove e importanti posizioni erano state conquistate in Armenia. L’Austria, con l’occupazione della Bosnia, si rese complice della spartizione della Turchia ed, inoltre, un’eterna avversaria di tutti gli sforzi serbi per l’unità e l’indipendenza. Infine, la Turchia, per la perdita di territorio, sfinimento e un’esorbitante indennità di guerra, era stata ridotta all’assoluta dipendenza dalla Russia, in una posizione in cui, come la diplomazia russa sa fin troppo bene, essa detiene solo, per il momento, i Dardanelli – ed il Bosforo in custodia per la Russia. E così sembrava come se la Russia non avesse fatto altro che scegliere lei stessa il momento in cui prendere possesso del suo grande oggetto ultimo, Costantinopoli, “la clef di notre maison.” In realtà, però, le cose stavano diversamente. Se l’Alsazia-Lorena aveva gettato la Francia nelle braccia della Russia, l’avanzata su Costantinopoli e la pace di Berlino gettarono l’Austria nelle braccia di Bismarck. E con ciò l’intera situazione era cambiata di nuovo. Le grandi potenze militari del Continente si divisero in due grandi campi, minacciandosi a vicenda: di qui Russia e Francia; di là Germania e Austria. Intorno a questi due gli stati più piccoli dovevano raggrupparsi. Ma questo significa che la Russia non può più fare l’ultimo grande passo, non può davvero prendere possesso di Costantinopoli senza una guerra universale, con possibilità di successo piuttosto equilibrate, il cui esito finale dipenderà probabilmente non dalle parti belligeranti originarie, ma dall’Inghilterra. Perché una guerra dell’Austria e della Germania contro la Russia e la Francia taglierebbe l’intero Occidente dalla fornitura russa di grano. Tutti i paesi occidentali esistono solo grazie al grano importato dall’estero. Questo potrebbe dunque essere rifornito solo via mare, e la superiorità navale dell’Inghilterra le permetterebbe di tagliare questo approvvigionamento o alla Francia o alla Germania, e condanare alla fame l’uno o l’altro, a seconda della parte che l’Inghilterra potrebbe scegliere.

[I diritti marittimi, così a lungo rivendicati dall’Inghilterra, e alla fine abbandonati dalla Dichiarazione di Parigi del 1856, non le mancherebbero in una guerra ordinaria con una o due Potenze continentali. Queste ultime sarebbero, in quest’era delle ferrovie, anche se bloccate via mare, sempre rifornite, via terra, con qualsiasi quantità di importazioni da paesi neutrali adiacenti. Questo fu, infatti, il principale servizio reso alla Russia, durante la guerra di Crimea, dalla Prussia. Ma in una guerra europea, quale quella che ora ci minaccia, l’intero Continente sarebbe frazionato in gruppi ostili; la neutralità diventerebbe, nel lungo periodo, impossibile. Il commercio internazionale via terra sarebbe quasi, se non del tutto, sospeso. In tali circostanze l’Inghilterra potrebbe pentirsi di aver rinunciato ai suoi diritti marittimi. Ma poi, una tale guerra mostrerebbe anche tutta la forza e l’effetto della superiorità navale dell’Inghilterra, e ci si può chiedere se abbia bisogno di nient’altro. — Nota di Engels]

Ma combattere per Costantinopoli in una guerra generale, in cui l’Inghilterra sposti l’ago della bilancia – è esattamente ciò per cui la diplomazia russa ha lavorato 150 anni per evitare. Significherebbe di per sé una sconfitta.

L’importanza di dare scacco matto alla probabile resistenza dell’Inghilterra all’installazione finale della Russia sul Bosforo non è stata trascurata dai diplomatici di San Pietroburgo. Dopo la guerra di Crimea, e soprattutto dopo l’ammutinamento indiano del 1857, la conquista del Turkestan, tentata già nel 1840, divenne urgente. Nel 1865 un punto d’appoggio sul Jaxartes fu guadagnato con l’occupazione di Tashkent. Nel 1868 Samarcanda, nel 1875 Khokand fu annessa e i Khanati di Bokhara e Khiva furono portati sotto il vassallaggio russo. Quindi iniziò la faticosa avanzata su Merv dall’angolo sud-est del Caspio. Nel 1881 fu presa Geok Tepé, il primo importante avamposto avanzato nel deserto, nel 1884 Merv si arrese e ora la ferrovia transcaspica copre il divario nelle linee di comunicazione russe tra Mikhailowsk sul Caspio e Tchardjui sull’Oxus. L’attuale posizione russa in Turkestan è ancora lontana dall’offrire una base sicura e sufficiente per un attacco all’India. Ma costituisce, in ogni caso, una minaccia molto significativa di una futura invasione e una causa di costante agitazione tra gli indigeni. Mentre il raj inglese in India non aveva rivali, anche l’ammutinamento del 1857 e la sua repressione deterrente potevano essere considerati eventi che avrebbero rafforzato, a lungo termine, il dominio dell’Inghilterra. Ma con una potenza militare europea di prim’ordine che si sta stabilendo in Turkestan, costringendo o persuadendo la Persia e l’Afghanistan al vassallaggio, e avanzando lentamente ma irresistibilmente verso le catene dell’Hindukush e del Suleiman, le cose stanno molto diversamente. Il raj inglese cessa di essere un’inalterabile condanna imposta all’India. Una seconda alternativa si apre davanti agli indigeni. Ciò che la forza aveva fatto la forza potrebbe disfare. E ogni qualvolta l’Inghilterra provasse ora ad attraversare il percorso della Russia sul Mar Nero, la Russia proverà a trovare del lavoro spiacevole per l’Inghilterra in India. Ma, nonostante tutto questo, la potenza navale dell’Inghilterra è tale che essa può ancora ferire la Russia molto più di quanto la Russia possa farne a lei, in una guerra generale quale quella che ora sembra incombente.

Inoltre, l’alleanza con una Francia repubblicana, i cui governanti sono soggetti a continui cambiamenti, non è affatto sicura per lo zarismo, e ancor meno conforme al desiderio del suo cuore. Solo una monarchia francese restaurata potrebbe offrire garanzie soddisfacenti come alleata in una guerra così terribile come quella che solo ora è diventata possibile. Anche per questo negli ultimi cinque anni lo zarismo ha preso l’Orléans sotto la sua speciale protezione. Hanno dovuto sposarsi con essi, attraverso dei matrimoni con la famiglia reale danese, quell’avamposto russo sull’Øresund. E per preparare la restaurazione, in Francia, degli Orléans, ora ugualmente promossi ad avamposto russo, lo zarismo si servì del generale Boulanger. I suoi stessi seguaci in Francia si vantano che la fonte segreta da cui il denaro veniva loro generosamente fornito, non era altro che il governo russo, che aveva trovato 15 milioni di franchi per la loro campagna. Così la Russia ancora si intromette negli affari interni dei paesi occidentali, questa volta apertamente come il pilastro della reazione, e mette uno contro l’altro lo sciovinismo impaziente della borghesia francese e lo spirito rivoluzionario degli operai francesi.

Complessivamente è dal 1878 che iniziamo a vedere davvero quanto la posizione della diplomazia russa sia cambiata in peggio dato che Il popolo si permette sempre più di dire una parola, e persino con successo. Anche nella penisola balcanica, territorio dove la Russia appare di proposito come il campione del nazionalismo, nulla sembra andarle per il verso giusto. I rumeni, come ricompensa per aver reso possibile la vittoria ai Russi a Plevna, sono stati costretti a rinunciare alla loro parte di Bessarabia, e difficilmente si lasceranno prendere in giro da progetti sul futuro rispetto alla Transilvania e al Banato. I bulgari sono assolutamente stufi dei metodi di liberazione dello zar, grazie agli agenti dello zar inviati nel loro paese. Solo i Serbi, e forse i Greci, entrambi al di fuori della linea di fuoco diretta su Costantinopoli, non sono ancora recalcitranti. Gli slavi austriaci, che lo zar si sentiva chiamato a liberare dalla schiavitù tedesca, ha da allora, almeno nelle province cisleitane dell’Impero, giocato la parte della razza dominante. Lo slogan sull’emancipazione delle nazioni cristiane oppresse da parte dell’onnipotente zar è stato ribadito, e può essere, al massimo, applicato giusto a Creta e all’Armenia. E ciò non avrà più presa in Europa, nemmeno con i bigotti liberali inglesi. Per il bene di Creta e dell’Armenia, neppure il signor Gladstone, l’adoratore dello zar, rischierebbe una guerra europea, dopo l’esposizione, da parte del signor Kerman, della famigerata brutalità con cui lo zar reprime ogni tentativo di opposizione nei suoi stessi domini, dopo la notorietà data alla fustigazione a morte di Madame Sihida e ad altre “atrocità” russe.

E qui veniamo al vero nocciolo della questione. Lo sviluppo interno della Russia dal 1856, favorito dal governo stesso, ha fatto il suo lavoro. La rivoluzione sociale ha fatto passi da gigante; la Russia stava diventando ogni giorno sempre più occidentalizzata; le moderne manifatture, le ferrovie a vapore, la trasformazione di tutti i pagamenti in natura in pagamenti in denaro, e con ciò lo sgretolamento delle antiche fondamenta della società si sviluppano con velocità sempre più rapida. Ma dello stesso grado si evolvono anche l’incompatibilità dello zarismo dispotico con la nuova società in via di formazione. Si vanno formando partiti di opposizione – costituzionali e rivoluzionari – che il governo può dominare solo attraverso un’accresciuta brutalità. E la diplomazia russa vede con orrore il giorno che si avvicinava, in cui il popolo russo chiederà di essere ascoltato, e quando la sistemazione de’ propri affari interni non avrebbe lascerà loro né il tempo né la voglia di preoccuparsi di tali puerilità come la conquista di Costantinopoli, dell’India, e della supremazia del mondo. La Rivoluzione, che nel 1848 si fermò alla frontiera polacca, ora bussa alla porta della Russia e ha, al suo interno, una quantità alleati che aspettano solo il momento giusto per aprirle quella porta.

È vero che chiunque leggeva i giornali russi potrebbe supporre che tutta la Russia plauda con entusiasmo alla politica di conquista dello zar. In essi non c’è altro che sciovinismo, panslavismo, la liberazione dei cristiani dai turchi, degli slavi dal giogo tedesco e magiaro,. Ma, in primo luogo, tutti sanno a quali catene sia legata la stampa russa. In secondo luogo, il governo stesso ha promosso per anni questo sciovinismo e panslavismo in tutte le scuole. Ed in terzo luogo, questi giornali esprimono — nella misura in cui esprimono una qualche sorta di opinione indipendente – solo l’opinione della popolazione cittadina, cioè della neonata borghesia, naturalmente interessata a nuove conquiste come estensioni del mercato interno russo. Ma questa popolazione cittadina è una minoranza in via di estinzione in tutto il paese. Non appena un’Assemblea nazionale darà all’immensa maggioranza del popolo russo – la popolazione rurale – l’opportunità di farsi sentire, vedremo un altro stato di cose. Le esperienze del governo in merito agli Zemstvo (Consigli di contea) che lo costrinsero a sottrarre loro nuovamente ogni potere dimostrano che un’Assemblea nazionale russa, per dirimere solo le più pressanti difficoltà interne, avrebbe posto fine ad ogni brama di nuove conquiste.

L’odierna situazione europea è regolata da tre fatti:

  • l’annessione dell’Alsazia-Lorena alla Germania;
  • l’incombente avanzata dello zarismo russo su Costantinopoli;
  • la lotta in tutti i paesi, che cresce sempre più feroce, tra il proletariato e la borghesia, la classe operaia e la classe media, una lotta il cui termometro è l’avanzata ovunque del movimento socialista.

I due primi richiedono il raggruppamento dell’Europa, oggi, in due grandi campi. L’annessione tedesca fa della Francia l’alleato della Russia contro la Germania. La minaccia di Costantinopoli da parte dello zarismo fa dell’Austria e perfino dell’Italia alleate della Germania. Entrambi i campi si stanno preparando per una battaglia decisiva, per una guerra come il mondo non ha mai visto, in cui da 10 a 15 milioni di combattenti armati si troveranno faccia a faccia. Solo due circostanze hanno finora impedito lo scoppio di questa spaventosa guerra: in primo luogo, i miglioramenti incredibilmente rapidi delle armi da fuoco, in conseguenza di cui ogni arma di nuova invenzione è già sostituita da una nuova invenzione, prima che possa essere introdotta anche in un solo esercito. E, in secondo luogo, l’assoluta impossibilità di calcolare le probabilità, la totale incertezza su chi uscirà finalmente vincitore da questa gigantesca lotta.

Tutto questo pericolo di una guerra generale scomparirà il giorno in cui un cambiamento di cose in Russia consentirà al popolo russo di cancellare, in un colpo solo, la tradizionale politica di conquista dei suoi zar, e di rivolgere la propria attenzione ai propri interessi vitali interni, ora seriamente minacciati, invece di sognare il primato universale.

Quel giorno l’impero tedesco perderebbe immediatamente tutti i suoi alleati contro la Francia, che il pericolo della Russia ha spinto tra le sue braccia. Né l’Austria né l’Italia avranno quindi il minimo interesse a tirare le castagne dell’imperatore tedesco fuori dal fuoco di una colossale guerra europea. L’impero tedesco ricadrà in quella posizione isolata, in cui, come dice Moltke, tutti lo temono e nessuno lo ama, risultato inevitabile della sua politica. Allora, anche, la reciproca simpatia tra la Russia che lotta per la libertà e la Francia repubblicana sarà tanto adatta allo stato di entrambi i paesi, quanto sarà esente da pericoli per l’Europa in generale. Allora Bismarck, o chi gli succederà, ci penserà tre volte prima di forzare una guerra con la Francia, in cui né la Russia contro l’Austria, né l’Austria contro la Russia gli coprirebbero il fianco, in cui entrambi questi paesi si rallegrerebbero per qualsiasi sconfitta egli possa subire, e in cui è molto dubbio che possa  da solo, vincere i francesi. Allora tutte le simpatie sarebbero dalla parte della Francia ed essa sarebbe, nel peggiore dei casi, al sicuro da ulteriori spoliazioni. Quindi, invece di dirigersi verso una guerra, l’impero tedesco avrebbe probabilmente presto trovato la sua condizione di isolamento così intollerabile da cercare una riconciliazione sincera con la Francia, e così sarebbe stato rimosso ogni terribile pericolo di guerra. L’Europa potrebbe disarmarsi, e la Germania ne guadagnerebbe più di tutti.

In quello stesso giorno l’Austria perderà la sua unica ragion d’essere storica, l’unica giustificazione per la sua esistenza, quella di barriera contro un’avanzata russa su Costantinopoli. Quando il Bosforo non sarà più minacciato dalla Russia, l’Europa perderà ogni interesse nel mantenimento di questo variopinto miscuglio di diversi popoli. Altrettanto indifferente sarà poi la totalità della cosiddetta questione orientale, il proseguimento della supremazia turca nelle regioni slave, greche e albanesi, e la disputa sul controllo dell’ingresso nel Mar Nero, che nessuno potrà monopolizzare contro il resto d’Europa. Magiari, Rumeni, Serbi, Bulgari, Arnavut, Greci, Armeni e Turchi, saranno finalmente in grado di dirimere le loro reciproche divergenze senza l’interferenza di potenze straniere, di stabilire tra loro i confini di ogni territorio nazionale, ordinare i propri affari interni secondo le proprie necessità e i propri desideri. Si vedrà immediatamente che il grande ostacolo all’autonomia e al libero raggruppamento delle nazioni e dei frammenti di nazioni tra i Carpazi ed il Mar Egeo non era altro che quello stesso zarismo che usava la pretesa emancipazione di queste medesime nazioni come strumento per i suoi piani di supremazia mondiale.

La Francia sarà liberata dalla posizione innaturale e obbligata in cui l’ha costretta la sua alleanza con lo Zar. Se l’alleanza con la Repubblica è ripugnante per lo Zar, molto più ripugnante per il popolo francese rivoluzionario è questa lega con un despota, carnefice sia della Polonia che della Russia stessa. In una guerra al fianco dello Zar, alla Francia sarebbe impedito, in caso di sconfitta, l’avvalersi del suo grande, unico, mezzo efficace di conservazione, la sua salvezza del 1793: la Rivoluzione, l’appello di tutti alla forza del popolo mediante il terrore e la propaganda rivoluzionaria nel paese del nemico. In tal caso lo Zar si unirebbe subito ai nemici della Francia, poiché i tempi sono cambiati dal 1848, e, nel frattempo, ha imparato a conoscere per esperienza personale cosa sia il Terrore. Nell’alleanza con lo Zar, quindi, non c’è rafforzamento per la Francia. Al contrario, nel momento di maggior pericolo lo zarismo terrà rinfoderata la spada della Francia. Ma se in Russia, al posto dell’onnipotente zar, ci fosse un’Assemblea nazionale; allora l’amicizia della Russia appena liberata per la Repubblica francese sarebbe comprensiva e naturale e darebbe seguito invece di ostacolarne il movimento rivoluzionario, allora sarebbe un ulteriore vantaggio per il proletariato europeo che lotta per la sua emancipazione. Anche la Francia, dunque, ha solo da guadagnare dal rovesciamento dello Zar.

Sparirà in quel momento anche la scusa per gli armamenti folli che stanno trasformando l’Europa in un’enorme caserma, e che fanno sembrare la guerra stessa quasi un sollievo. Anche il Reichstag tedesco si troverebbe a quel punto obbligato a rifiutare le sempre crescenti richieste di rifornimenti bellici.

E con ciò l’Europa occidentale sarebbe in grado di occuparsi, indisturbata da diversioni e ingerenze straniere, del proprio urgente compito storico: il conflitto tra Proletariato e Borghesia, e la soluzione dei problemi economici ad esso correlati.

Il rovesciamento del governo dispotico dello zar in Russia aiuterebbe direttamente anche in questo processo. Il giorno in cui cadrà lo zarismo — quest’ultima roccaforte dell’intera reazione europea — quel giorno un vento del tutto diverso soffierà sull’Europa. Perché i gentiluomini di Berlino e di Vienna sanno benissimo, nonostante tutte le divergenze con lo zar su Costantinopoli, ecc., che potrebbe venire il momento in cui gli getteranno tra le fauci Costantinopoli, il Bosforo, i Dardanelli, tutto ciò che egli desidera, se solo lui li proteggerà dalla Rivoluzione. Il giorno, quindi, in cui questa medesima roccaforte, quando la Russia passerà nelle mani della Rivoluzione, l’ultimo residuo di fiducia e di sicurezza dei governi reazionari d’Europa svanirà. Essi dovranno contare sulle proprie risorse, e impareranno presto quanto poco valgono. L’imperatore tedesco potrebbe essere tentato di mandare un esercito per restaurare l’autorità dello Zar – non ci potrebbe essere modo migliore di distruggere la sua stessa autorità.

Perché non c’è dubbio che la Germania, del tutto indipendente da ogni possibile azione della Russia o della Francia, si stia rapidamente avvicinando ad una rivoluzione. Le ultime elezioni generali mostrano che i socialisti tedeschi raddoppiano la propria forza ogni tre anni; che oggi, tra tutti i partiti dell’impero, sono i più forti, contando 1.437.000 voti su un totale di sette milioni; che tutta la legislazione penale e coercitiva che si è rivelata del tutto impotente a fermare la loro avanzata. Ma i socialisti tedeschi, pur disposti ad accettare singole concessioni economiche che il giovane imperatore dovesse fare alla classe operaia, sono determinati, e dopo dieci anni di repressione lo sono più che mai, a recuperare la piena libertà politica conquistata nel 1848 sulle barricate di Berlino, e nuovamente persa in larga misura sotto Manteuffel e Bismarck. Sanno che solo questa libertà politica darà loro i mezzi per raggiungere l’emancipazione economica della classe operaia. Nonostante ogni apparenza contraria, una lotta è imminente tra i socialisti tedeschi e l’imperatore, rappresentante di un governo personale e paternalista. In questa lotta, l’imperatore alla fine dovrà essere sconfitto. I risultati elettorali dimostrano che i socialisti avanzano rapidamente anche nei distretti rurali, mentre le grandi città praticamente gli appartengono. E, in un paese dove ogni maschio adulto fisicamente adatto è un soldato, ciò significa la graduale conversione dell’esercito al socialismo. Ora, se un improvviso cambiamento di sistema avviene in Russia l’effetto sulla Germania sarà tremendo; dovrebbe accelerare la crisi e raddoppiare le possibilità dei socialisti.

Questi sono i punti per cui l’Europa occidentale in generale, e specialmente la sua classe operaia, sono interessate, profondamente interessate, al trionfo del Partito Rivoluzionario Russo e al rovesciamento dell’assolutismo zarista. L’Europa sta scivolando lungo un piano inclinato con crescente rapidità verso l’abisso di una guerra generale, una guerra di portata e ferocia finora inaudite. Solo una cosa può fermarla: un cambio di sistema in Russia.

Che questo debba avvenire in pochi anni non ci possono essere dubbi. Che possa accadere in tempo, prima che si verifichi l’altrimenti inevitabile.

Londra, fine febbraio 1890

Traduzione di Nicola Carella

Immagine di copertina da Wikipedia