ITALIA

La marcia dei berretti rossi contro lo sfruttamento nei campi

«Siamo pronti ad organizzare la prima marcia per la dignità e per i diritti. Per dire basta a qualsiasi forma di schiavitù, soprattutto, alle imposizioni che vengono dalla grande distribuzione organizzata». È l’alba a Torretta Antonacci nei pressi dell’ex gran ghetto, tra le campagne di Rignano Garganico e San Severo, a venti chilometri da Foggia

Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’Usb, chiama a raccolta centinaia di braccianti africani, e spiega loro: «Questa mattina attraverseremo le campagne fino ad arrivare alla Prefettura di Foggia. Indosseremo i nostri berretti rossi per dire basta allo sfruttamento. Per ribadire che prima degli affari vengono le persone». E ancora, dice Soumahoro: «Oggi non abbiamo bisogno di passerelle, abbiamo bisogno di risposte».

È quasi mezzogiorno quando il serpentone composto da centinaia di braccianti africani che oggi hanno incrociato le braccia «per protestare contro un sistema agricolo che ci sta opprimendo», si ricompatta davanti alla stazione di Foggia; e, da qui raggiunge la vicina prefettura della città pugliese.

Con un filo di voce rimastogli dopo una mattinata che era cominciata molto presto, è sempre Aboubakar ad incitare con un megafono “i compagni di lotta” radunati dal sindacato Usb davanti al palazzo del governo della città, che nel frattempo erano aumentati di numero, diventati quasi un migliaio.

«C’è tanto da imparare da questo sciopero, oggi state scrivendo una grande pagina di storia», dice il presidente della regione Puglia Michele Emiliano, rivolgendosi a Soumahoro: «Questo è fare sindacato, organizzare uomini e donne per raggiungere conquiste sociali» ribadisce Emiliano, dicendosi pronto a porsi come interlocutore «con qualsiasi governo, pur di trovare una soluzione alla questione dello sfruttamento in agricoltura».

Ed è proprio al Governo Conte che i braccianti africani si rivolgono, lanciando un messaggio simbolico: depositando all’ingresso della prefettura di Foggia, prima che una delegazione di sindacalisti venga accolta dal prefetto, una cassetta di pomodori, mentre ancora Aboubakar Soumahoro invitava a riflettere, ricordando che «oggi, l’8 agosto, è l’anniversario dei fatti di Marcinelle, quando gli operai italiani -accadeva appena sessant’anni fa- erano sfruttati e schiavizzati, anche, a causa della loro nazionalità».

Sui fatti di Foggia, l’ordine del discorso politico-istituzionale

Intanto ieri nella prefettura di Foggia il ministro degli Interni, Matteo Salvini aveva presieduto il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica; che era stato convocato d’urgenza, appunto, dopo le morti avvenute nei giorni scorsi, in due diversi incidenti stradali, di 16 braccianti agricoli stranieri.

«Questo è un problema di mafia, non di manodopera in nero e caporalato. A Foggia c’è una criminalità mafiosa che combatterò paese per paese», aveva detto Salvini nella conferenza stampa a margine dell’incontro istituzionale. E poi, «Non permetto che l’agricoltura italiana venga etichettata come fuorilegge perché pochi decidono di arricchirsi con l’illegalità. A Foggia la stragrande maggioranza degli imprenditori sono onesti».

Dunque il ministro ne fa esclusivamente una questione di legalità, di rispetto della legge, di sicurezza stradale, verrebbe da dire in questo caso di specie.«L’obiettivo è una gestione trasparente dei trasporti per togliere alla malavita business e controllo», ha insistito ieri Salvini, dimenticando che quella dello sfruttamento nel settore agricolo è una partita tutta politica ed economica, con interessi finanziari in ballo che riguardano alcune tra le più grandi aziende del Paese.

È quello che ha scoperto ad esempio qualche tempo fa la Procura di Lecce indagando sulla morte di Abdullah Mohamed, un bracciante sudanese di 47 anni, stroncato dal caldo nei campi di Nardò (Lecce) il 20 luglio 2015.

Abdullah morì di caldo e fatica raccogliendo pomodori; in quell’estate, per le stesse cause (caldo e fatica) furono dieci (quelli censiti) i morti nelle campagne. Soltanto in Puglia ci furono cinque decessi in due mesi. Fu allora che si comprese, grazie alle indagini della magistratura pugliese, che esisteva una vera e propria filiera dello sfruttamento agricolo, dunque che quelli stessi pomodori erano stati venduti ad aziende di lavorazione tra le più importanti d’Italia (le grandi aziende in questione, in verità, non sono mai state neppure sfiorate dalle inchieste giudiziarie che sono tuttora in corso).

Tuttavia,sull’onda emotiva delle morti dell’estate del 2015, furono introdotte alcune misure legislative che riformularono il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, modificando il dettato normativo che era già inserito all’art. 603 -bis c.p. La novità più significativa a riguardo fu la previsione, nello stesso articolo iniziale della legge n.199, della sanzione anche per il datore di lavoro che «utilizza, assume o impiega manodopera reclutata mediante l’attività di intermediazione, ovvero sfruttando i lavoratori ed approfittando del loro stato di bisogno».

Le nuove norme, così, intervengono soltanto sul livello penale della questione, fungendo come una sorta di dispositivo sanzionatorio dello sfruttamento.«La legge sul caporalato complica le cose per le aziende Bisogna cambiarla», aveva detto, da parte sua, lo stesso Salvini, qualche giorno fa. Certo, si dirà, sarebbe da migliorare perché appunto agisce solo sul livello penale.

Mentre il tema dello sfruttamento delle persone, soprattutto migranti, è un tema politico, e come tale va affrontato.Va senza dubbio in questa direzione la marcia dei “berretti rossi” che si è tenuta stamattina a Foggia.

Sempre nella città pugliese, oggi pomeriggio, a partire dalle 18 si terrà una manifestazione unitaria di Cgil, Cisl e Uil «perché quanto accaduto è la conseguenza estrema e drammatica di una condizione che accomuna tutti i lavoratori agricoli della Capitanata: sfruttamento, illegalità, assenza di sicurezza, condizioni di lavoro e di trasporto estreme», ha spiegato Ivana Galli, segretario generale della Flai Cgil.

Lo stesso sindacato, lo scorso 13 luglio, presentando a Roma il quarto rapporto Agromafie dell’Osservatorio Placido Rizzotto aveva denunciato che in tutta Italia sono quattrocento mila i braccianti a rischio supersfruttamento, su un totale di circa un milione di impiegati nel settore agricolo. Non soltanto. Che tra questi, nel 2017, sono stati 286.940 i migranti registrati, a cui vanno aggiunti oltre 220.000 stranieri assunti in nero o che hanno una retribuzione molto inferiore rispetto a quella prevista dai contratti nazionali.

Ed è ciò che avviene nei diversi territori del nostro Paese, da nord a sud: dalla provincia di Brescia a quelle di Foggia, Catania e Ragusa, c’è un unico filo rosso fatto di sfruttamento del lavoro e di infiltrazioni della criminalità in affari apparentemente legali.

Per questo, anche, risulta vano e ipocrita qualsiasi tentativo di riportare l’intero dibattito entro la dicotomia legalità/illegalità. Servirebbe, piuttosto, ragionare sull’urgenza di dover garantire alle persone la possibilità concreta di non doversi mai togliere il cappello di fronte al padrone, come ha insegnato la lezione di Peppino Di Vittorio. Tenendolo ben saldo sulla testa, come insegna la marcia di oggi, lo sciopero per i diritti e la dignità.

Come in passato è successo a Nardo, Castel Volturno, Rosarno, anche nel cuore della Capitanata, oggi i braccianti africani hanno scritto una pagina di storia sindacale del nostro Paese.