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La logica perversa delle monocolture

L’economia agroalimentare dominata dalla grande distribuzione e dalle multinazionali determina la trasformazione di vaste aree di territorio in monocolture e stravolge l’equilibrio agroambientale di intere comunità

La monocoltura cancella paesaggi e biodiversità. Rende il mondo sempre più dipendente da lontani approvvigionamenti e da un’economia agroalimentare in mano a poche imprese, alla finanza, con un numero di prodotti che tende a ridursi sempre di più e a divenire globali. Succede in ogni parte del mondo.

In Nicaragua, saccheggiato per secoli e ridotto a luogo per la produzione di prodotti per l’esportazione, la monocoltura rappresenta la principale responsabile degli enormi danni causati all’ecosistema, all’essere umano e della situazione di estrema povertà in cui vivono i nicaraguensi.

In Argentina una particolare varietà di soia transgenica prodotta dalla Monsanto (la multinazionale nordamericana specializzata in biotecnologie agrarie e sementi), occupa in Argentina oggi 17 milioni di ettari di terra, genera numerosi problemi ambientali e sociali, come la riduzione nella produzione di alimenti per il mercato interno, l’espulsione dei contadini dalle campagne, l’uso massiccio di agrotossici altamente velenosi e la distruzione delle foreste. L’agricoltura argentina è stata completamente sconvolta dalla crescita indiscriminata delle coltivazioni di soia ogm.

La produzione della quinoa, spinta dalla crescente domanda mondiale, ha raggiunto livelli record in Bolivia, Perù e Ecuador e, secondo l’Onu, si è trasformata per le popolazioni andine in una maledizione.  In effetti la quinoa è diventata la nuova monocultura del mondo, insieme a mais e soia.

L’acquisizione di terreni per lo sviluppo di monocolture soprattutto in Africa, Asia e America Latina, ha reso l’economia di questi paesi del tutto dipendente da interessi estranei a quelli interni ai paesi stessi. I governi coloniali, infatti, hanno imposto a tali paesi, in forme dirette o indirette, specializzazioni produttive che, sulla base delle condizioni naturali esistenti, ponessero le loro economie in condizioni di ‘complementarità’ rispetto a quelle dei paesi dominanti.

 

Succede anche in Italia

In Veneto la monocoltura del prosecco ha indotto a coltivare ogni palmo di terra delle colline trevigiane determinando, oltre alla piaga delle irrorazioni dei pesticidi, anche problemi di stabilità idrogeologica. Ora l’assalto alle colline si estende al Friuli.
La logica è sempre la stessa: quella perversa della monocoltura che porta a una vera e propria desertificazione. Le monocolture sono efficienti solo dal punto di vista dell’economia agroalimentare dominata dalla grande distribuzione, dalle multinazionali, dalle finanziarie, dal punto di vista agroambientale sono un disastro.

Nel Lazio e in particolare a nord di Roma e nella Tuscia si assiste da anni alla vicenda della patologica diffusione di coltivazioni di nocciole, sostenuta e promossa anche da contributi pubblici. Rappresenta l’evidenza di politiche agrarie poco sensibili alle caratteristiche dei territori e alle coltivazioni tipiche e non invasive. Centinaia di ettari di noccioleti sono impiantati in aree non vocate, che impongono irrigazioni continue con conseguente depauperamento delle falde acquifere profonde. Queste enormi estensioni stanno introducendo quel latifondo monocolturale dove il profitto prevale sul sano rapporto tra agricoltore e natura. Trasformano radicalmente ambiente e economia, mettendo a rischio la salute e la piccola, diffusa e benefica agricoltura di prossimità.

Gli effetti negativi della modalità industriale di coltivazione del nocciolo sono già evidenti per il danno economico che producono inflazionando il valore del nocciolo quale prodotto tipico e di nicchia. Spaventa vedere piantumazioni di alberi montani e di alta collina che hanno addirittura raggiunto vaste aree della Maremma.
Una politica agraria che non predilige la naturale vocazione della terra, che favorisce agroindustria e latifondo impoverisce territori e Comunità. Abbiamo necessità che il valore delle tipicità, delle produzioni, della sostenibilità ambientale, della biodiversità siano fondamentali nella destinazione di risorse pubbliche.

È con le coltivazioni tipiche e con il loro valore aggiunto per il legame con la storia dei luoghi che il prodotto assume attrazione e valore di mercato.
È con le buone e salubri pratiche agricole che l’armonia tra produzione, territorio e Comunità si trasforma in valore economico collettivo.
È con la piccola e diffusa proprietà fondata sulle tipicità e sulle vocazioni naturali dei territori che il reddito si distribuisce e si mantiene nel tempo.

Quelle scelte politiche che non si fondano sulla restituzione dei beni comuni e delle naturali vocazioni della Terra alle future generazioni compromettono il futuro dell’agricoltura e delle comunità. Quando le politiche agricole contrastano con la naturale vocazione della Terra determinano condizioni di impoverimento delle comunità e sottrazione dei beni comuni.

Molteplici sono le proteste da parte di comitati per la salute e di produttori sostenibili che si organizzano e si battono nelle varie realtà territoriali cercando di arginare una politica agroindustriale che danneggia l’ambiente e compromette la solida e piccola proprietà contadina.