OPINIONI

La guerra e il tratto messianico, anticoloniale e antifascista

In un regime di guerra globale in cui tutti dicono di combattere il proprio nemico perché fascista e antisemita, è molto difficile orientarsi e assicurarsi delle alleanze. Sono senza dubbio necessarie convergenze, ricomposizioni, nuove campagne e organizzazioni, incontri e ibridazioni di massa

Venti camion per due milioni di persone che sono nel peggior stato di necessità e nel maggior pericolo imminente di morte per genocidio nel pianeta. Questo è tutto quello che lo zio Joe Biden è riuscito a ottenere dal suo figlioccio birbante Bibi, difensore della democrazia a modo suo, con una certa inclinazione genocida: sono affari suoi.

A seguito, il presidente degli Stati Uniti si è visto con Ursula e con un tale Charles in un incontro molto opportuno per ricordare al mondo che “La guerra di Gaza” non distrarrà neppure un istante dalla questione ucraina e che, come ricordava alcuni giorni fa la Ministra del Tesoro statunitense Janet Yellen, ci sono soldi per un altra guerra. E chi dice che ce n’è per due, dice che ce ne sarebbero anche per tre o quattro.

Il discorso alla nazione che lo zio Joe ha pronunciato lo scorso giovedì 19 ottobre è la pietra tombale sulla speranza di frenare la pulizia etnica e le operazioni genocide di Israele a Gaza e in Cisgiordania. «Come sapete, l’attacco a Israele ci ricorda i quasi venti mesi di guerra, tragedia e brutalità che ha sofferto il popolo ucraino, un popolo massacrato da quando Putin ha lanciato la sua invasione totale».

Questo è il cervello di zio Joe, ma anche quello degli strateghi del Pentagono. Per quanto riguarda invece Ursula, ha detto che «il popolo ebraico ha sofferto il peggior attacco dai tempi della Shoah». La questione è capire cosa ci sia dietro a questo sistema di pesi e misure che permette il paragone. Come si può paragonare l’invasione imperialista della seconda potenza nucleare del mondo e il suo costo effettivo con l’attacco mortale di una guerriglia di prigionieri disperati contro un gigante militare – e nucleare – che gestisce l’immenso campo di prigionia in cui vivono gli stessi dal 2005?

Ci sarà chi vede in questa catena di equivalenze solo un artificio retorico, ipocrisia che nasconde le vere realtà geopolitiche. Non sono d’accordo: il linguaggio è sempre azione e, a volte, come in questo caso, trasformazione dello stato delle cose: diventa un fatto. Certo c’è una chiave interna nel discorso dello zio Joe: unificando entrambe le guerre e identificando nemici e contesti con quelli della Seconda Guerra Mondiale cerca di disarticolare i repubblicani; riaffermare la missione provvidenziale degli Stati Uniti permette di costruire coalizioni tra l’industria militare, tecnologica e i sindacati attorno a una versione nazionalista e militarista in quello che è il maggior sforzo fiscale nell’industria, in tecnologie strategiche, in opere pubbliche e sistemi di energia dal tempo di Franklin D. Roosevelt. Al momento ha lasciato fuori dal combattimento la sinistra del Partito Democratico e gli otto congressisti conosciuti come “The Squad”, per non parlare di Bernie Sanders, fulminato per gli effetti della equazione Putin=resistenza palestinese.

Andiamo ora alla chiave della politica estera, che altro non è che quella che ci si può aspettare, se si tiene in in considerazione il comportamento dello zio Joe rispetto alla crisi e alla guerra in Ucraina, in lunga continuità dai tempi della amministrazione Obama. Bisogna difendere la supremazia statunitense con la guerra lì dove si presenti qualunque sfida. Però la guerra la faranno gli altri, altri che metteranno i morti e i mutilati: gli alleati nelle zone calde. Non ci possono essere perdite statunitensi. In Ucraina, in Medio Oriente o nel Sahel, forse pure nella penisola coreana e a Taiwan.

Torniamo ora al linguaggio, alla azione e alla sua trasformazione dello stato di cose. Perché una cosa è che il popolo ucraino muoia in centinaia di migliaia o in milioni in una guerra strisciante contro la Russia, e cosa ben diversa è che lo faccia la popolazione ebraica dello stato di Israele.

C’è qui una incommensurabilità che ci conduce all’effetto catastrofico delle parole dello zio Joe. Perché in una guerra regionale contro i suoi vicini, il governo di coalizione di Bibi Netanyahu che, se per qualcosa si distingue è per la coerenza con cui abbraccia l’adagio “quanto peggio, tanto meglio”, metterà in pratica la meno menzionata delle dottrine Truman: meglio usare l’arma nucleare e che muoiano centinaia di migliaia di civili piuttosto che muoiano decine di migliaia di civili e soldati israeliani. Si stima che Israele abbia decine o centinaia di testate nucleari e che abbia la capacità di lanciarle da aerei, sottomarini o con i razzi Jerico di gittata media e intercontinentale.

Il destino di Gaza e della Cisgiordania sembra segnato. Il sistema delle Nazioni Unite sembra incapace di fare alcunché per evitarlo. Il vertice de Il Cairo non produrrà nulla più che gesti: forse qualche camion in più, forse l’uscita da Gaza dei prigionieri non palestinesi. Nulla può evitare l’invasione terrestre israeliana nella Striscia di Gaza. Chi tirerà fuori i fondi perché la popolazione palestinese che riuscirà a fuggire dalla pulizia etnica, accelerata dalla invasione di terra, possa stabilirsi in dei campi in qualche zona del deserto del Sinai, per non tornare più in Palestina? Con l’inizio della invasione terrestre, chi potrà evitare il contagio del conflitto bellico al Libano, alla Siria, all’Iraq, Yemen e perfino all’Iran?.

Già è tardi per molte cose nella situazione mondiale. La razionalità amministrativa della Casa Bianca o di Bruxelles continua a pensare che a prescindere da decine o centinaia di migliaia di morti in più o in meno, la questione è solo condurre la situazione a un aggiustamento e a una stabilizzazione favorevoli. Continuano a pensare che si tratta di controllare il caos, provocato o sopraggiunto, e giocarsi lì la partita. Disprezzano il fattore soggettivo, le passioni collettive e le esperienze del tempo storico.

Nelle relazioni tra i regimi di guerra, le passioni collettive e le esperienze del tempo storico si presentano oggi tre tratti differenti ma dalla cui combinazione e variazioni, emancipatrici o fasciste e reazionarie dipende il futuro immediato. Da un lato abbiamo un tratto messianico onnipresente. Bisogna ricordare due cose: con l’eccezione della Cina, le guerre in corso in Ucraina, Palestina o nel Sahel hanno una componente confessionale, religiosa, teologico-politica. Tutti si raccomandano alla volontà divina.

Anche la luterana Ursula lo fa al modo francese, mascherando di laicità il mandato divino della difesa della civilizzazione occidentale, cristiana, bianca, coloniale. La teologia politica domina uno scenario che vive come fine/redenzione, in formule escatologiche che riportano alla narrativa delle tre religioni messianiche, Messia, Mahdi, Cristo. Dare e ricevere la morte rivela un disegno divino.

D’altra parte da anni la protesta contro la colonialità del potere appare ovunque, dall’America Latina al Medio Oriente, dalle banlieues francesi ai ghetti afroamericani, dalla rivolta di Londra dell’agosto 2011 al rifiuto del colonialismo europeo nel Sahel. Tuttavia nella efferatezza genocida dell’apartheid israeliano trova un punto di condensazione e trasformazione che è già irreversibile.

Consideriamo fattori come le proteste contro il genocidio nella Striscia di Gaza che stanno riempiendo le strade del mondo; così come la nuova coscienza ebraica antisionista che sta rendendosi protagonista – soprattutto negli Stati Uniti e molto poco in Israele – di una nuova epoca espansiva oltre che un segnale che il ricatto sionista sulla sinistra ebraica sta continuando a rompersi; e da ultimo la lotta armata delle fazioni palestinesi e di altre formazioni armate del mondo arabo. Tutti questi elementi hanno, dentro le loro contraddizioni strazianti, un carattere anticoloniale che non farà altro che aumentare e radicalizzarsi mentre continuano guerra e genocidio.

(Gaza 2009, da commons.wikimedia.org)

Ma c’è un terzo tratto, in piena crescita, il tratto antifascista. Guerra moderna, colonialismo e fascismo proliferante dormono sotto la stessa coperta. Non si tratta della retorica antifascista: quella dello zio Joe e Ursula contro Vladimir, neppure si tratta di quella di quest’ultimo contro “gli ucraini con le bandiere”, neppure quella dei fascisti battisti e neopentecostali contro “l’antisemitismo della sinistra islamizzata” o quella del fascista Bibi, che sta in coro con quella dello zio Joe, Ursula Macron, Annalena Baerbock o Jiménez Losantos contro la volontà di genocidio che si nasconderebbe nelle lotte contro l’apartheid e l’occupazione israeliana e nella causa palestinese in quanto tale. No, questo è l’aggrovigliamento dei linguaggi e il gioco di specchi e maschere tra fascisti e reazionari di distinte specie. Si tratta invece della percezione massiva che, mentre si approfondisce la guerra, nuovi partiti, movimenti governi e eserciti di tipo fascista stanno conquistando il potere e stanno trasformando la Seconda Guerra Mondiale un episodio minore di un secolo che, a distanza, ci sembrerà attraente, candido e traboccante di umanità. Una percezione acuta e angosciante che lotta tra la rabbia e la disperazione.

Come si combineranno e che risultati e trasformazioni daranno questi tre tratti? Questa è la domanda chiave della politica di emancipazione in tutto il mondo a cui abbiamo bisogno di dare una risposta nello stesso modo in cui abbiamo bisogno dell’aria per respirare.

Se qualcuno crede che le manifestazioni di protesta, di per se stesse, fermeranno il genocidio palestinese ed eviteranno la guerra in Medio oriente, molto probabilmente si sbaglia. Similmente possiamo dire dell’azione diplomatica: né Guterres, né molto meno Putin eviteranno alcunché, per motivi diversi, il primo perché è una figura legittima ma senza armi. Putin perché è il nemico numero uno dello zio Joe e di Ursula, e l’ultima cosa che gli permetteranno è un ruolo di mediazione. Xi Jinping farà quanto è possibile, ma non quanto è necessario, perché sa perfettamente che l’inizio della fine della Repubblica Popolare Cinese coinciderà con la partecipazione o l’implicazione diretta nelle guerre e nei conflitti create dalle potenze coloniali occidentali. In aggiunta, la protesta anticoloniale non sa come misurarsi con la componente violenta del tratto messianico, tanto palestinese quanto arabo e islamico, né con la comunque prevedibile violenza dei governi, stati e gruppi alleati del governo Netanyahu e dei loro agganci nello stato di Israele, cioè la totalità dei governi della Unione Europea. Neppure con le sue contraddizioni interne e la realtà dell’antisemitismo in alcune delle sue componenti.

Il tratto antifascista si rapporta a tante altre contraddizioni e pantani. In un regime di guerra globale nel quale tutti dicono di combattere il suo nemico perché è fascista e antisemita risulta molto difficile orientarsi e assicurarsi nelle alleanze. In questo regime di guerra in cui prosperano movimenti, eserciti e governi fascisti il livello di violenza può portare facilmente ad assumere la guerra come terreno di battaglia, spronata dal tratto messianico. Proprio così si va a perdere.

Nonostante ciò, anche se ingenti quantità di morte e distruzione sembrano già inevitabili, non è illusorio pensare che una azione collettiva e coordinata transazionale possa tirare fuori il meglio della combinazione di questi tre tratti.

Sono senza dubbio necessarie convergenze, ricomposizioni, nuove campagne e organizzazioni, incontri e ibridazioni di massa. Tutto avrebbe un colore diverso se in questa congiuntura riemergessero i momenti antipatriarcali e anticapitalisti, perché hanno le chiavi profonde che aiutano a rifiutare e sconfiggere le peggiori combinazioni, militariste e teocratiche, dei tratti messianico, anticoloniale e antifascista. Quello che appare chiaro è che i tre tratti continueranno a definire i comportamenti dominanti nella situazione mondiale di guerra di regimi di guerra in un contesto caotico sul piano sociale, mentale e ambientale. Appare pure chiaro che la sfida è ricomporli contro la guerra il fascismo e il genocidio come norma del governo mondiale.

Testo pubblicato originariamente su Diario Red. Traduzione dalla spagnolo per DINAMOpress di Riccardo Carraro

Immagine di copertina da wikimedia commons, per Wafa (Q2915969) in contract with a local company (APAimages) Palestinians inspect the ruins of Aklouk Tower destroyed in Israeli airstrikes in Gaza City on October 8, 2023