COMMONS

La discontinuità neoliberale

Governo, impresa e soggetto nel capitalismo contemporaneo: recensione del libro di Pierre Dardot e Christian Laval

Il lavoro monumentale di Pierre Dardot e Christian Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (ed. Derive Approdi, 2013), è per molti versi imprescindibile. Imprescindibile per chi non si arrende allo stato di cose presenti e, soprattutto, ritiene che non ci sia prassi sovversiva efficace al di fuori di una combinazione sempre rinnovata con la ricerca teorica.

Sono pagine, quelle di Dardot-Laval, che ci aiutano a far vacillare senso comune (di movimento) e idee abusate sulla discontinuità neoliberale; più in particolare, con uno sguardo privilegiato all’Europa, illuminano la profondità che questa discontinuità nella crisi sta conquistando.

Per cogliere l’attualità e l’urgenza di un libro scritto ancora agli albori della crisi, corriamo diritti alla sintesi conclusiva: la differenza fra il liberalismo classico e il neo-liberismo e addirittura fra la prima e la seconda generazione dell’ordoliberismo consiste in quattro punti, e ora puntiamo sul secondo: l’essenza dell’ordine del mercato non sta nello scambio ma nella concorrenza, nella disparità fra unità di produzione distinte, cioè imprese. Quindi, costruire il mercato vuol dire generalizzare la concorrenza a norma dell’economia. Mettere in concorrenza gli Stati e i mercati, mettere in concorrenza i lavoratori. Insomma, i salari italiani e quelli polacchi dell’Electrolux, ovviamente per deprimere nel confronto i primi.

Come ci si è arrivati, nella lunga storia dell’economia politica e dell’ideologia liberale?

Gli autori continuano, ampliandolo, lo scavo genealogico avviato da Michel Foucault con il corso al College de France del 1978-1979 dal titolo Nascita della biopolitica. Fu proprio Foucault, infatti, con uno stile non dissimile a quello di Marx, a leggere criticamente i testi, i documenti, i dibattiti che attraversano l’Austria e la Germania tra gli anni ’20 e gli anni ’30 e che rinnovano radicalmente le fonti della teoria liberale. Per un verso la scuola austriaca di von Mises, il cui allievo più importante e influente fu Friedrich Hayek, per l’altro la scuola di Friburgo animata negli anni ’30 da economisti come Walter Eucken e giuristi come Franz Böhm e Hans Grossmann-Doerth: mentre l’Occidente, in risposta alla Grande Depressione, è segnato da un multiforme dirigismo dello Stato in economia (evidentemente non si può confondere il New Deal rooseveltiano con la nascita dell’IRI in Italia), una corrente sotterranea comincia a rafforzarsi.

È nel convegno Walter Lippmann –che si svolge a Parigi nell’estate del 1938– che i protagonisti di questa storia si incontrano, mettendo a confronto ipotesi di lavoro che, seppur in parte diverse, convergono su un punto decisivo: farla finita con lo Stato dirigista e, nello stesso tempo, con il «naturalismo liberale» ovvero con il laissez-faire. Questa doppia esigenza, vera cifra distintiva del neoliberalismo, trova poi la sua prima espressione concreta nella Repubblica Federale Tedesca. Si tratta della variante ordoliberale e friburghese, quella che più insiste sulla «costituzione economica» dello Stato e sull’importanza di uno Stato forte capace di «governare per il mercato». La stessa variante che, seppur messa alla prova dall’insistenza dello Stato previdenziale bismarckiano e dalla «cogestione» imposta dall’iniziativa sindacale e operaia (degli anni ’60), diventa decisiva nell’affermazione dell’«integrazione funzionale» del mercato europeo e, successivamente, dell’Europa di Maastricht, dell’euro e della BCE (istituzione indipendente che ha come unico compito quello di garantire la stabilità dei prezzi).

Torniamo ai connotati di fondo della ragione neoliberista. Al principio onnipresente della concorrenza se ne aggiungono altri tre: l’intervento attivo dello Stato e del diritto per costruirne le condizioni vincolanti (costruttivismo), l’internalizzazione della concorrenza e della logica di impresa alle stesse funzioni statali sostituendo il diritto privato a quello pubblico e, infine, la pressione dello Stato-imprenditore per condurre gli individui a gestire se stessi come imprenditori. In questo quadruplice processo, la stessa democrazia liberale si svuota della propria sostanza, persino di quella che si era mantenuta nell’ordoliberismo classico, per esempio con il declino del legislativo e del primato della legge a favore della regolazione manageriale dei problemi e dei conflitti.

Il punto decisivo non è però questa deriva amministrativa, già individuata e discussa nello Stato sociale keynesiano con le relative implicazioni tecnocratiche, quanto il trasferimento della razionalità neoliberista dentro le pratiche sociali (la Big Society di Cameron), con una perfetta complementarità fra neoconservatorismo e modernizzazione dei costumi. La forma-impresa, infatti, è la forma cellulare di moralizzazione dell’individuo lavoratore, proprio come la famiglia lo è del bambino; il moralismo sociale non solo è compatibile con l’amoralità neoliberista ma entra nei processi di soggettivazione post-fordista per lo meno con la stessa forza con cui operava nella stabilizzazione fordista degli operai. La guerra contro la droga e le limitazioni all’aborto (beninteso senza sopprimere né l’una né l’altro) riproducono il proibizionismo alcolico degli anni ’20 dello scorso secolo. Delle campagne di allarme sociale per la delinquenza (invenzione proprio di allora) è superfluo far menzione.

Lo Stato che ha internalizzato la concorrenza deve, per un verso, farsi attore in competizione con altri Stati, dall’altro imprimere all’azione pubblica il carattere di mercato, deregolamentando, spacchettando e liberalizzando, in primo luogo nel campo del welfare e delle “risorse umane”, alternando in modo pro-ciclico e anti-ciclico ritirate e rientri del pubblico rispetto al privato, ma pur sempre in una logica privatistica.

Il capolavoro del neoliberismo è però la formazione di un neo-soggetto auto-imprenditoriale e competitivo, disciplinato e rendicontabile, in cui dileguano fondendosi tutte le altre precedenti modalità di soggettivazione (il soggetto giuridico, il cittadino, il consumatore). In una molteplicità di situazioni, per lo più al di fuori della fabbrica tradizionale, si riesce così a superare la contraddizione fra promozione edonistica del consumo e salvaguardia del lavoro ascetico dei dipendenti e dei clienti. Mentre la privatizzazione del welfare diventa campo fertile di profitti finanziari e di coazione al workfare, la sfera del consumo e dei servizi diventa il luogo elettivo per le tecniche di Pnl (programmazione neuro-linguistica) e di coaching (come imbambolare il cliente e sentirsi realizzati), la vendita che fa leva sull’empatia si completa con il rinnovo forsennato di brevi contratti e con salari abbastanza bassi da predisporre a un totale disponibilità degli addetti per straordinari, festivi e spostamenti di sede secondo i flussi di domanda. Un modello che si generalizza poi a tutte le altre attività alimentando l’illusione che la prestazione intermittente costituisca un “percorso formativo”, una soggettività potenziata che gioiosamente accoppia management dell’anima e d’impresa, cura di sé e orari di merda.

Abbiamo insistito su questo aspetto perché, almeno in Italia, la sinistra è stata il più volenteroso veicolo della razionalità neoliberista sul versante dell’utenza (in alto resta affare del capitale finanziario), facendo della rete cooperativa o di aziende quali Eataly il punto di raccordo fra management friendly pluralizzato (autostima più gusto del rischio) e presunta innovazione politica, secondo successive generazioni di “riformismo”. Quanto a lungo riescano a convivere, con la crisi, surplus di prestazione e di godimento, quanto dunque sia governabile il soggetto neoliberista, resta tutto da vedere.

Dardot-Laval concludono la loro fatica insistendo sull’esaurimento, imposto dal neoliberalismo, della democrazia liberale e provando a riflettere su una governamentalità alternativa e ostile a quella neoliberale. Il richiamo all’ultimo Foucault, quello delle «tecnologie del sé» e dell’«ermeneutica del soggetto», è pertinente ed efficace. La tematica delle contro-condotte, decisiva per pensare il «soggetto come sempre da costruire» (in questo senso va intesa la formula «pratiche di soggettivazione») viene strappata dagli esiti neo-individualisti –proposti da molta pessima letteratura foucaultiana– e messa al centro di un inedito dispositivo o «ragione del comune». Se contro-condotte, allora «cooperazione, partecipazione, condivisione». Aggiungiamo noi: quale rapporto tra contro-condotte e potere costituente?