editoriale

L’Europa meticcia e il tricolore perdente

Cosa ci racconta il 18 Dicembre a Roma e in Europa

Il 18 dicembre migliaia di persone sono scese in piazza a Roma nella “Giornata internazionale di migranti e rifugiati”. Un corteo rumoroso e determinato ha attraversato le strade della città, mostrandone la faccia più bella e combattiva: quella di uomini e donne che vengono da ogni parte del mondo e che nella Roma meticcia lottano insieme e si sentono a casa.

Contemporaneamente a Berlino, Amburgo, Francoforte, Xanthi, Salonicco, Atene, Siviglia e in molte altre città italiane, centinaia di migliaia di persone rivendicavano un’Europa diversa, senza frontiere e senza CIE, con diritti politici e sociali garantiti a tutti, al di là del conto in banca e del passaporto, un’Europa circondata da un mare che unisce e non da un cimitero che divide.

A Roma, però, la giornata ha assunto un significato particolare per la concomitante mobilitazione nazionale dei cosiddetti “forconi”. Inevitabile, dunque, il confronto con l’altra piazza. Può sembrare retorico fare dei paragoni quando hai vinto per manifesta superiorità, però alcuni elementi vanno sottolineati.

Il primo elemento è che la “Piazza senza Popolo” ha smontato da sé ilframe del movimento spontaneo, senza identità, pronto alla rivolta. Visivamente ricordava più un quarto di finale degli Europei o una puntata del Karaoke di Fiorello, piuttosto che una adunata “rivoluzionaria”. I protagonisti, i toni, gli slogan e l’inno di mameli cantato ossessivamente hanno restituito una, seppur parziale, realtà di questa agitazione nazional-popolare che ha riempito la scena mediatica delle ultime settimane. Orfani di Berlusconi, aspiranti populisti in cerca di ribalta, neofascisti in cerca di un mare in cui nuotare. E siccome il mare era una pozzanghera i passatisti si sono attaccati al cappio. Ci proveranno la prossima volta. E questo non bisogna sottovalutarlo, perché la pozzanghera potrebbe diventare un pantano pericoloso.

Il secondo elemento è dato dai numeri. La schiacciante superiorità numerica della mobilitazione meticcia rispetto a quella degli “italiani che non si arrendono”. La convocazione nazionale dei “forconi”, annunciata da settimane e pubblicizzata da tutti i mezzi di comunicazione, ha radunato circa 1500 persone. La questura ne prevedeva 15mila, gli organizzatori ne avevano previsto 300mila. Il corteo metropolitano meticcio, lanciato pubblicamente pochi giorni fa e ripreso soltanto dai siti di movimento e dal tam tam dei social network, ha messo insieme oltre 6000 persone. Il quadruplo. Dati, entrambi, molto rilevanti anche per la città di Roma.

È un altro elemento, però, quello che merita maggiore approfondimento e a che fare col tempo che viviamo. A piazza del Popolo si rimpiangeva una perduta età dell’oro in cui la lira ci rendeva tutti più ricchi (tutti chi?), in cui i poteri dello stato nazionale ci facevano sentire sovrani di noi stessi, un periodo in cui i treni magari non arrivavano in orario, però almeno non si rompevano vicino Roma. Il vittimismo nei confronti dei poteri sovranazionali si mischiava a una rimozione dei rapporti di classe e soprattutto a un vuoto completo di proposta politica, di alternative reali all’esistente. Tratti che definiscono i cosiddetti “forconi” nel loro insieme, e non soltanto chi ha provato a “rappresentarli” il 18 dicembre. Del resto, isolare una determinata composizione sociale dal discorso politico intorno cui essa si mobilitata è un gioco a perdere. Lo insegna la storia.

Il corteo meticcio, al contrario, ha saputo posizionarsi all’altezza delle sfide che il presente ci pone. Un corteo pienamente europeo, proprio perché pieno di persone provenienti da Africa, Asia e Sudamerica. Altro che ritorno allo stato-nazione, la piazza voleva rompere le frontiere e diceva che i tricolori non bastano. E non è solo un discorso di identità, ma di efficacia dello spazio in cui lottare. Ad esempio nel 2006 le oceaniche mobilitazioni dei migranti negli Stati Uniti utilizzarono la bandiera a stelle e strisce perché simbolo ancora forte di accesso e di inclusione in una sfera dei diritti e della cittadinanza. Oggi l’Europa per i migranti è lo spazio minimo dentro cui lottare e in cui conquistare la libertà di movimento. Lo spazio verso cui migrare, di cui l’Italia è frontiera esterna e sempre più luogo di transito. Per questo, tra le tante bandiere dei movimenti di lotta per la casa, sono spuntate le bandiere piratate dell’Europa. A simboleggiare la necessità di sovvertire l’ordine del discorso imposto dalla Troika, dai governi nazionali e dai nazionalismi.

Mentre il tricolore ha rappresentato il rimpianto impotente per i falsi miti del passato, la piazza meticcia ha parlato di lotte che sfidano il presente guardando al futuro. Migliaia di persone che mentre chiedono di mettere fine al business dell’accoglienza, occupano le case e si riappropriano del diritto all’abitare; che mentre rivendicano la cancellazione della Bossi-Fini, del reato di clandestinità, del Regolamento Dublino praticano la libertà di movimento sfidando i divieti e le frontiere e si organizzano contro lo sfruttamento sui luoghi di lavoro, in maniera mutualistica e cooperativa.

La Roma meticcia ha avuto la consapevolezza di attestarsi su un livello generale, parlando di precarietà, sfruttamento e povertà a tutte quelle persone colpite dalla crisi che avrebbero potuto vedere nei “forconi” la risposta ai drammi dell’impoverimento prodotto dall’austerità. E lo ha fatto dicendo una cosa molto semplice: che le lotte contro l’austerity per vincere devono superare le frontiere. Perché nelle lotte per la casa, per i diritti, per il reddito non ci devono essere frontiere tra italiani e stranieri, ma soltanto tra sfruttati e sfruttatori. Perché la ricerca dell’unità su scala nazionale o etnica oltre a essere sbagliata è anche debole e perdente.

La stampa “repubblicana” e il Tg 3 e 7, quelli “progressisti”, hanno sostanzialmente ignorato la manifestazione. Nonostante ci fossero centinaia di giornalisti e fotografi a piazza Esquilino in attesa di sangue e forconi, i migranti sono rimasti invisibili. Sarà stato per cercare di far dimenticare il grande abbaglio mediatico di questi giorni. O forse perché, dato che ieri la notizia Lampedusa era in primo piano su tutti i telegiornali, siti e quotidiani, i migranti vanno rappresentati al massimo come vittime. Il 18 Dicembre invece i migranti hanno saputo far sentire la loro voce da protagonisti in molte città italiane e europee. E questo spaventa tremendamente il governo delle “strette intese” Letta-Alfano, che sul tema immigrazione rischia di lacerarsi.

Il 18 Dicembre ci dice ancora una volta che i migranti sono e possono essere sempre di più soggetto attivo di una radicale trasformazione nelle nostre città e in Europa. Sta alla capacità di noi tutti, nelle lotte quotidiane e nei prossimi appuntamenti di Lampedusa e Bruxelles, dare forza e centralità ai soggetti invisibili ma decisivi in un’Italia sempre più provinciale.