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Italian Offshore: l’inchiesta sul rischio trivelle nei mari italiani

La miopia della strategia energetica del governo, l’austerity come paradigma generalizzato, i risvolti meno conosciuti dello Sblocca Italia. Un’inchiesta indipendente racconta i pericoli dell’estrazione del petrolio nei mari italiani. Tanti buoni motivi per votare sì al referendum del 17 aprile.

La Conferenza ONU di Parigi sui cambiamenti climatici e l’imperturbabilità di una corsa alle fonti fossili che riguarda l’Italia come il resto del mondo: il referendum del 17 aprile sulle trivellazioni offshore a pochi mesi dalla COP21 è un’antitesi su cui riflettere.

Innanzitutto, se un momento di massima espressione democratica viene definito “inutile” e tacciato di “sprecare denaro pubblico”, centrale è la riflessione sui disvalori di una classe dirigente sempre meno timorosa nel fare dell’austerity un baluardo, uno schema di ragionamento politico: il messaggio che si intende far passare è che la democrazia è uno spreco, l’efficienza economica diventa la misura di tutte le cose.

La corsa alle fonti fossili in Italia trova il suo momento culminante nell’approvazione del decreto Sblocca Italia. Che si tratti di modello energetico o, più in generale, di gestione dei territori, quel decreto ha posto al centro la questione del chi decide. E per lo Sblocca Italia è il mercato che decide, la necessità di attirare investimenti; vale per i permessi di ricerca ed estrazione come per inceneritori, grandi opere, commissariamento delle bonifiche. Pantomima di una shock economy fatta di spesa pubblica a garanzia e supporto di un capitalismo straccione senza più neanche il fascino del rischio d’impresa. Deregolamentazione ambientale, sfruttamento dei territori e del lavoro, rischio sanitario, completano il quadro.

Anche per gli idrocarburi, a livello globale, la corsa è il frutto dei meccanismi del mercato prima ancora che di decisioni politiche o bisogni reali. Si può dire che, tra il 2010 e il 2014, con il prezzo del barile rimasto stabile intorno ai 100 dollari, le compagnie hanno trovato convenienza nell’investire anche nello sfruttamento di giacimenti residuali dal punto di vista quantitativo e qualitativo. In questo settore, però, la messa in produzione, cui erano finalizzati gli investimenti, arriva dopo anni. Significa che, nonostante il crollo del prezzo del petrolio, i progetti verranno comunque portati a termine con l’esigenza di rientrare dei capitali investiti. Il che è possibile anche con il prezzo al barile ribassato, data la lunga durata delle concessioni che danno diritto allo sfruttamento delle risorse per 30-40 anni, tutto il tempo di remunerare i capitali investiti. Si prefigura quindi l’accentuarsi della sovrapproduzione già in essere, si continuerà a estrarre e ad aumentare le scorte, allungando il futuro fossile del modello energetico planetario.

Veniamo all’Italia, Paese in cui la spinta del mercato alle fonti fossili è stata accompagnata da precise scelte politiche. Con la conversione in legge del decreto Sblocca Italia, sembrava ultimato quel percorso normativo iniziato da anni e teso a creare le condizioni per attirare investimenti nel settore idrocarburi. La Strategia Energetica Nazionale approvata dal Governo Monti nel 2013 lo diceva chiaramente: «l’opportunità di mobilitare investimenti in questo ambito è stata limitata da un contesto normativo e da un processo decisionale che hanno rallentato o fermato molte iniziative nel corso dell’ultimo decennio». In quel documento venivano individuate alcune “criticità”: la complessità del sistema autorizzativo e le limitazioni per le attività offshore contenute in alcuni provvedimenti di tutela ambientale che le avevano interdette in molte aree, cancellando, a detta del documento, progetti per 3,5 miliardi di euro. Risolvendo questi “problemi”, la produzione di idrocarburi avrebbe potuto giocare un ruolo determinante nei 180 miliardi di investimenti attesi entro il 2020 nel settore energetico. Si passava poi a individuare le 5 zone ad elevato potenziale: Valle Padana, Alto Adriatico, Abruzzo, Basilicata e Canale di Sicilia. Esattamente quelle in cui si è focalizzata la corsa ai permessi.

Come tutto ciò possa armonizzarsi con gli impegni presi dal Governo italiano alla COP21 di Parigi non è molto chiaro. Esplicita è invece la strategia sottesa ai provvedimenti inseriti nello Sblocca Italia in materia di idrocarburi: per attirare investimenti in un Paese le cui riserve sono scarse dal punto di vista qualitativo e quantitativo è necessario delineare un quadro normativo e fiscale favorevole. Inizia così la corsa al petrolio nei mari italiani, quella che “Italian offshore”, documentario di inchiesta indipendente, premiato al festival Documentari Inchieste Giornalismi sta raccontando.

Nel giro di pochi mesi avviene però che il prezzo del petrolio crolla, 10 Regioni spinte dalla forte mobilitazione popolare sui propri territori depositano 6 quesiti referendari finalizzati ad abrogare le norme favorevoli agli idrocarburi, il governo emenda la legge di stabilità reintroducendo il limite delle 12 miglia dalla costa per i permessi offshore, la Corte costituzionale dichiara ammissibile uno dei quesiti. Sul petrolio e sul gas offshore si concentra il referendum del 17 aprile. Se passasse, le compagnie non potrebbero più chiedere la proroga delle concessioni di ricerca e coltivazione entro le 12 miglia marine, le loro attività sarebbero quindi destinate a interrompersi alla scadenza della concessione.

Le cose si mettono male per le compagnie più piccole, quelle per cui il mercato era stato creato a fini speculativi più che in vista di una reale attività estrattiva. Nel giro di pochi giorni, il Ministero dello Sviluppo economico pubblica sul Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse il rigetto di 27 istanze di permesso di ricerca ed estrazione in attuazione delle norme inserite in Legge di Stabilità. Arriva così, tra gli altri, lo stop al progetto Ombrina Mare 2, simbolo della battaglia contro le trivellazioni in Adriatico. Segue poi il ritiro di alcune compagnie. Petroceltic e Shell rinunciano a trivellare nel mare delle Tremiti, l’inglese Transunion Petroleum ritira i propri progetti nel Canale di Sicilia, al largo di Gela, nel Golfo di Taranto e nel Mar Ionio.

Queste compagnie, probabilmente, non avrebbero mai estratto direttamente una goccia di petrolio, miravano piuttosto a mettere a valore un’ipotetica produzione futura. Avere in tasca un permesso di ricerca o una concessione di coltivazione significa avere in tasca un contratto che permette di sfruttare per decenni le risorse reperite. Un pezzo di carta che può essere scambiato sul mercato o trattenuto al fine di accrescere il proprio valore in borsa. L’opzione su tratti di territorio o quantitativi di risorse diventa così strumento aggiunto della finanziarizzazione. È così che si può concepire il permesso di trivellare davanti alle Tremiti accordato ad una compagnia come la Petroceltic, che si presentava a fine gennaio con un debito a breve di 250 milioni di euro e una situazione di cassa disponibile di 25 milioni.

Si chiude così la corsa al petrolio nei mari italiani? Non proprio. In primis c’è il colosso energetico ENI, con il progetto offshore Ibleo e la costruzione della piattaforma Prezioso K, nel canale di Sicilia. Sempre in Sicilia, a largo di Pozzallo, Edison (60%) ed ENI (40%) detengono Vega, la più grande piattaforma petrolifera fissa realizzata nell’offshore italiano. A completamento del programma di lavori della medesima concessione di coltivazione, le due società hanno in ballo lo sviluppo del Campo olio Vega B con l’installazione di una nuova piattaforma a circa 6 km da Vega A. Nel campo della ricerca rimangono poi i permessi a Spectrum lungo gran parte della costa adriatica, anche all’interno delle 5 e delle 12 miglia. C’è poi la Schlumberger Italiana SpA con vaste aree concesse in Sardegna e, ancora, nel Canale di Sicilia.

Stando così le cose, sembrerebbe, più che altro che il calo del prezzo del petrolio, l’emendamento in legge di stabilità e il referendum del 17 aprile abbiano allontanato chi aveva in ballo progetti minori e di carattere puramente speculativo. Secondo i dati del Ministero dello sviluppo economico, 135 sono le piattaforme entro le 12 miglia corrispondenti a venticinque concessioni; di queste, cinque scadranno nei prossimi 5 anni, mentre tutte le altre tra 10-20 anni. In questi termini, il “sì” al referendum del 17 aprile, con l’imposizione dell’improrogabilità delle concessioni oltre la scadenza, acquista un valore politico: significa interrogare gli italiani sulla volontà di imporre ai governi scelte che vadano davvero verso un futuro a energie sostenibili.

C’è ancora una questione su cui porre attenzione. La Strategia energetica nazionale, varata dal Governo Monti nel 2013, afferma esplicitamente che «il forte rallentamento nell’attività esplorativa e produttiva italiana si è verificato dopo il 1999» –cioè con l’inclusione della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» tra le materie di legislazione concorrente tra Stato e Regioni in seguito alla riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione.

La corsa agli idrocarburi nei mari italiani potrebbe quindi vivere un passaggio decisivo nell’ambito dell’approvazione del disegno di legge di riforma costituzionale che interviene nuovamente sul Titolo V della Parte seconda della Costituzione, eliminando la competenza legislativa concorrente, riportando quindi la materia energia tra le competenze esclusive dello Stato. Il referendum sulla riforma costituzionale, dunque, potrebbe essere un altro passaggio decisivo sui temi energetici.

A questo punto è legittimo porsi una domanda: e se tutto quello che abbiamo raccontato determinasse una situazione per cui, tra modifiche normative, rigetti e ritiri, il risultato raggiunto non fosse quello di aver fermato le estrazioni offshore ma di aver fatto piazza pulita dei concorrenti minori, lasciando campo libero ai colossi energetici in un contesto di decisione politica fortemente accentrato?

L’Italia ha riserve di petrolio e gas modeste in valore assoluto e concentrate in due aree del Paese: la Basilicata per il petrolio e l’alto Adriatico per il gas, qualcosa poi al largo della Sicilia. Ebbene non è da queste aree che si sono ritirate le compagnie, ENI in primis. L’Italia dovrebbe continuare a investire sulle fonti fossili perché – a detta degli addetti del settore – è tra i primi paesi in Europa per riserve di idrocarburi. La motivazione è chiaramente strumentale, visto che l’Europa è un’area che conta poco nell’ambito della produzione a livello mondiale.

Per continuare il loro lavoro di inchiesta su questi temi, i giornalisti di Italian Offshore stanno cercando di cambiare pelle al giornalismo, coproducendosi e aprendosi alla partecipazione attraverso una campagna di raccolta fondi dal basso. È la sfida di Italian Offshore.