editoriale

“It is what it is” – un governo agli sgoccioli

Il governo oscilla fra caduta e paralisi di fatto. Può durare settimane o mesi ma non produce più nulla. L’operazione di agosto è abortita.

Parlare di razionalità in politica può far sorridere, trattandosi di un campo dove prevalgono gli interessi (di classe, di ceto, di leader) e in seconda battuta pure le passioni. Nondimeno una soglia minima di razionalità c’è ed è l’istinto di sopravvivenza, per le forze politiche si fermano sull’orlo del baratro, almeno quando se ne accorgono (e non sempre ci riescono). E fu questa la ragione per cui, dopo il Papeete, M5S e Pd (su provvido impulso dell’avventuriero Renzi) si accroccarono insieme per tamponare Salvini e salvarsi il culo in Europa. E fecero bene.

A quell’operazione emergenziale avrebbe dovuto seguire un tentativo di raffazzonare una manovra finanziaria e ancor più di smontare i danni peggiori del governo giallo-verde, pur con l’imbarazzo della continuità del Premier. Senza di che l’obiettivo di sopravvivere fino al 2023 e vedere nel frattempo che succedeva sarebbe risultato impervio e addirittura controproducente sul piano elettorale.

La manovra, con molta timidezza, l’hanno fatta anche se non ancora portata a casa: sul resto zero assoluto. E, al netto delle furbate personalistiche di Conte e Renzi – avventurieri ma abilissimi a frenare l’auto a due centimetri dal muro –, il problema si sono rivelati i 5 Stelle. Per un deficit, appunto di istinto di sopravvivenza, forse per il fatto che la scarsa identità e la fragilità di storia e struttura oscurano loro la vista, insomma che non sanno cosa cazzo fare. Continuando così nell’indecisione salvaguardano la posizione di comando immaginario di Di Maio ma perdono inesorabilmente voti. Se fanno saltare il Governo e si va a elezioni, sarà per loro un bagno di sangue. Se virano verso la Lega, si spaccano.

Il Pd galleggia senza grossi danni ma dovrà fare delle scelte e salvare quanto resta della sua immagine nei confronti dell’Europa. Può completare la manovra proteggendo bene la coerenza neoliberale europeista 2.0 (la fragile leadership di Ursula), mediocremente le istanze di coesione sociale (vedi l’irrilevante riduzione del cuneo fiscale, il fallito greenwashing e i cedimenti sull’autonomia differenziata), ma non riesce a sorpassare il gennaio 2020, a meno di un improbabile trionfo emiliano, cioè di conseguire la maggioranza del Consiglio regionale e non solo la vittoria del candidato Presidente. Quindi si riproporrà il dilemma del cerino, di chi stacca la spina al Governo come ai tempi dell’agonia giallo-verde. E stavolta tocca al Pd, con la plausibile speranza di trascinarsi dietro un pezzo dei 5 Stelle. Con l’assoluta certezza di farne fuori una gran parte e per sovrappiù gli insopportabili e queruli renziani, fuoriusciti o rimasti in sonno dentro i gruppi parlamentari.

Nel frattempo, però, il Governo è paralizzato, non riesce a  prendere iniziative incisive e non può nemmeno sbaraccare gli orrori della formula precedente: i due nefandi Decreti sicurezza, la legittima difesa, quota 100, ecc. Situazione, appunto, agonica, che alla lunga (da poche settimane a pochi mesi) regala una certa vittoria alla demagogia di destra, mostrando l’impotenza della coalizione e la debolezza di un Pd, dotato di buon senso ma di zero appeal trasformativo. E il Pd subisce l’agenda dei 5 Stelle e non fa valere nessuna delle sue proposte, appena mormorate a fior di labbra nel chiuso delle proprie assemblee ma non portate mai né in piazza né in Parlamento; così facendo può incrementare dello zero virgola i propri consensi, ma non sfondare a nessun livello e quindi neppure formare la spina dorsale di una nuova maggioranza e neppure di una nuova opposizione a un presumibile governo delle destre. La “messa in sicurezza” dei conti pubblici non è un argomento entusiasmante in una battaglia elettorale polarizzata.

L’operazione di agosto, tatticamente corretta in quel momento, è abortita, diciamolo chiaro. La scommessa di rigenerare il M5S è stata persa – ovvio, per l’idiozia di Di Maio, i contrasti fra i suoi badanti e la pochezza del ceto dirigente, ma è stata persa. Il successo delle Sardine non è un assist al Governo (tanto meno il frutto di un complotto di cui il Pd è purtroppo incapace), ma il prodromo di un imminente passaggio all’opposizione dell’eterogenea “sinistra” (nome di fantasia, come per i minorenni coinvolti in fatti di cronaca), un pullulare di nuove forze, al momento “riflessive”, per colmare un pericoloso vuoto.

Al di là di contrasti risolvibili con compromessi (a spese del Pd) la tenuta del Governo vacilla per l’evidente volontà di una parte del M5S di dissociarsi, con pretesti identitari, ma nell’illusione di difendere una quota di potere (che invece dilapideranno con grande rapidità). Nulla in politica è tanto futile come insegnare ai gatti ad arrampicarsi. Soprattutto se gatti non sono.

E comunque Salvini si tiene in tasca un pugno di senatori pentastellati e può usarli quando vuole per far mancare la fiducia a Conte. Magari non lo farà sulla manovra, perché è abbastanza astuto per non intestarsi l’esercizio provvisorio e l’aumento dell’Iva, ma li usa come ricatto sospeso per bloccare qualsiasi mossa del Governo e così logorarlo e raccogliere risultati nelle Regioni. Lo stesso vale, a rovescio, come giustificazione per Di Maio e Zingaretti si domanda sempre più se vale la pena pagare per entrambi i giochi. Il Pd un po’ di istinto di sopravvivenza ce l’ha ancora ma – intendiamoci– è messo al servizio di un neoliberalismo appena addolcito, quindi di una causa persa. Il suo sostegno al Mes è in apparenza più “razionale” delle sparate di Salvini e Meloni sul presunto “alto tradimento” di Conte, ma è l’erede dello sciagurato quanto surreale inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio. Quanto sono davvero diversi Bonacini e Giorgetti, i “nuclei razionali” degli opposti schieramenti?

Il “colore” del Governo, altro che giallo-rosso o rosa, è stato il marrone dell’inevitabilmente accaduto, del ricorrente «It is what it is» di The Irishman di Martin Scorsese, «È quello che è», non poteva andare diversamente. Alla fine è il segnale di una conclusione ineluttabile e letale. Come nel film, possiamo lasciare tre alternative a Conte (inteso quale governo): mostrare la sua foto all’infermiera (chi è? Giuseppi! Chi? ah, sì), infilarlo nel forno crematorio, lasciare la porta della stanza dell’ospizio un po’ aperta e musichetta finale. Dicembre o gennaio, per sfiducia con franchi tiratori o per inglorioso sfaldamento, si vedrà. E chissà che alla fine il vero vincitore non sia neppure Salvini, buono per le campagne elettorali più che per il governo.