MONDO

Israele, paradossi elettorali

La quarta elezione in due anni si conclude ancora una volta senza una maggioranza stabile, mentre si affaccia all’orizzonte una eventuale coalizione tra estrema destra e islamici. Intanto, cresce l’insoddisfazione per la gestione della crisi pandemica

Se il metro per giudicare quanto accade nello stato di Israele fosse lo stesso di altri contesti nazionali, a valle della quarta tornata elettorale politica in due anni, forse qualche dubbio sulla sua “stabilità democratica” potrebbe emergere. Israele è uno stato paradossalmente così tanto democratico che non riesce a costruire un governo e porta la popolazione al voto per il rinnovo del parlamento in media due volte l’anno.

Il problema di fondo è duplice: Israele sottopone a regime di apartheid differenziale la metà della popolazione sotto il suo controllo (cioè tutti i palestinesi) impedendo loro di partecipare alla vita politica. Inoltre è talmente logorato da faide personalistiche e di rappresentanza etnico-religiosa tra i gruppi che gravitano attorno alla destra che da due anni non riesce a trovare un accordo che permetta il costituirsi di un governo e continua dunque ad andare al voto.

 

Le quarte elezioni in 2 anni hanno confermato questa debolezza e incapacità e c’è già chi parla di probabili quinte elezioni, visto che emerge di nuovo l’assenza di una coalizione che raggiunga i 61 parlamentari di maggioranza della Knesset.

 

Alcuni tratti di questa tornata assomigliano in tutto e per tutto alle precedenti, altre sono sicuramente delle novità, anche se il quadro complessivo che emerge è analogo. Il blocco politico di partiti di centro-destra coalizzati attorno al Likud di Netanyahu si attesta a 59 seggi se si include anche Yamina, partito nazionalista vicino ai coloni estremisti capeggiato da Naftali Bennett, che però formalmente non si è dichiarato ancora favorevole a supportare un governo Netanyahu. Il blocco invece di centro-sinistra e dei partiti anti-Netanyahu (tra i quali anche partiti apertamente di destra come Ysraeli Beitenu di Lieberman) si attesta attorno ai 54 seggi.

Rimangono al di fuori di questi conteggi i due partiti palestinesi, UAL e Joint List con 4 e 6 seggi ciascuno. La prima novità rispetto al passato è proprio questa. La lista unitaria dei palestinesi che aveva ottenuto un brillante risultato di 15 deputati nel marzo 2020, si è presentata a queste elezioni divisa tra la sua componente islamica (UAL) e quella comunista binazionale (Joint List), ottenendo però nella somma delle componenti cinque parlamentari in meno.

 

Gaza (da commons.wikimedia.org)

 

Le ragioni della recente frattura, che ha causato perdita di credibilità e consenso, sono state molteplici. Di fondo c’è una impostazione differente della strategia politica per permettere la piena partecipazione della componente palestinese al governo del paese. La Joint List si è detta disponibile a sostenere un eventuale governo ma a patto di ottenere un avanzamento sociale democratico ed economico per la popolazione palestinese e solo un governo della coalizione di centro-sinistra.

 

Al contrario la UAL si è detta potenzialmente interessata a supportare una coalizione di un governo a qualunque condizione, inclusa quella di un governo Netanyahyu. Infatti, una remota ma non impossibile composizione governativa potrebbe vedere Netanyahu supportato anche dai palestinesi conservatori di tendenza islamica.

 

L’attuale primo ministro in questa tornata ha cambiato strategia e la popolazione palestinese di Israele non è più stata oggetto di scherno e di razzismo neanche troppo velato come accadeva negli anni passati. Al contrario questa è stata variamente corteggiata da Netanyahu negli ultimi mesi con comizi e promesse fatte proprio in città chiave come Nazareth, consapevole che avrebbe potuto aver bisogno del loro aiuto oltre che dei loro voti. Una settimana prima del voto, Netanyahu ha perfino affermato che la recente “Legge dello stato ebraico” che discrimina fortemente la popolazione non ebraica di Israele è stata fatta contro i richiedenti asilo (sudanesi ed eritrei) e non contro i palestinesi.

Da parte sua, Mansour Abbas, leader della UAL, ha permesso che questo avvicinamento con Netanyahu determinasse la rottura con la parte socialista della Joint List di Ayman Odeh. Vale la pena ricordare anche che la scissione tra i due partiti palestinesi arriva dopo un progressivo logoramento di posizioni in contrapposizione, spesso in merito alle tematiche relative ai diritti civili e del mondo lgbtqi+, di cui la Joint List si fa portavoce mentre il partito islamico UAL è fortemente contrario. In questo gioco di tessere inaspettate di puzzle, proprio i valori tradizionali sono stati un fattore di avvicinamento degli islamici con i partiti della destra, inclusa quella religiosa ebraica, che sostengono il primo ministro.

Desterebbe scalpore pensare a un governo Netanyahu sostenuto alla Knesset da un partito di matrice islamica, ma potrebbe trasformarsi in una realtà. Questa eventualità è sintomo di uno scollamento sempre più profondo tra cittadini palestinesi della Cisgiordania e di Gaza (per i quali Netanyahu è un aguzzino) e cittadini palestinesi di Israele, nonché del fatto che la popolazione palestinese in Israele vive un tale disagio economico sociale e politico che è disposta a qualunque patto con il diavolo pur di poter avere un ruolo politico che garantisca sicurezza e protezione.

 

Gli indici di qualità della vita nelle aree a maggioranza palestinese sono infatti estremamente peggiorati e la violenza criminale e poliziesca a cui la popolazione è sottomessa hanno raggiunto livelli preoccupanti.

 

C’è una altra novità di queste elezioni. Nel blocco di centro destra è riuscito a candidarsi anche un nuovo partito-coalizione, “Religious Zionism” nel quale sono rientrati anche membri del partito kahanista, per anni esclusi dalla contesa elettorale per le posizioni politiche che potremmo senza remora definire fasciste. Religious Zionism ha superato la soglia di sbarramento ed entrerà alla Knesset, che quindi avrà al suo interno posizioni ancora più oltranziste.

 

Proteste contro Netanyhau (da commons.wikimedia.org)

 

Sullo sfondo di questa tornata elettorale un dato oggettivo è la sostanziale sfiducia della popolazione israeliana verso la politica, visto che ha votato giusto il 60% degli aventi diritto. Tale sfiducia è stata probabilmente aggravata dalla gestione pandemica che ha provocato fortissime critiche al governo Netanyahu.

Nello scenario post elezioni bisognerà capire che evoluzione avranno i processi per corruzione contro il primo ministro, con la sua volontà di garantirsi l’immunità per vie legislative, e pure le forti proteste contro il premier che hanno continuato per tutto l’anno, tanto da far percepire le elezioni come un referendum pro o contro la sua figura. Nel frattempo, il nuovo governo dovrà gestire anche la volontà della Corte Penale Internazionale de l’Aja di incriminare Israele, alla quale Netanyahu ha dichiarato più volte di volersi opporre duramente.

In questo scenario complesso rimangono in un ruolo totalmente marginalizzato gli abitanti di West Bank e Gaza, di fatto governati dalle scelte della Knesset ma esclusi dal voto. Lo scenario politico internazionale è cambiato ora che non c’è più Trump, ma non è chiaro che posizioni prenderà Biden anche in relazione al tentativo di Netanyahu di avvicinarsi politicamente alle monarchie del Golfo e all’Arabia Saudita. Purtroppo in ogni caso non è uno scenario che faccia pensare a un orizzonte di giustizia o di libertà per la popolazione palestinese che vive sotto occupazione militare dal 1967.

 

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org