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Israele, è finita l’epoca di Netanyahu?

L’ultima tornata elettorale consegna a Israele una situazione di stallo che potrebbe protrarsi a lungo. Eppure, nonostante sia data per molto probabile un’uscita di scena di Netanyahu, sembra ancora lontana una vera svolta politica

Un’altra tornata elettorale in Israele e i risultati hanno portato di nuovo una situazione di stallo che potrebbe durare a lungo. Come avevamo raccontato su Dinamo, le elezioni dell’aprile scorso si erano concluse senza una possibile coalizione che raggiungesse i 61 seggi necessari ad avere la maggioranza della Knesset. Il blocco di destra, cioè l’unione dei partiti conservatori alleati con il partito più grande, il Likud del ex premier Netanyahu, ha accumulato un totale di 55 seggi. Il blocco di centro-sinistra, cioè il nuovo partito centrista del liberale Ganz (Blue and White) unito ai partiti della sinistra sionista hanno un totale di 43 seggi.

Potenzialmente sono due gli aghi della bilancia rispetto a qualunque possibile governo: Avigdor Lieberman, leader di Israeli Beitenu, formazione politica di estrema destra ma laica, espressione della minoranza di israeliani di recente immigrazione dall’ex Unione Sovietica, ha preso 8 seggi; la Arab Joint List, votata dalla popolazione palestinese cittadina israeliana, ha ottenuto 13 seggi.

L’ingovernabilità della situazione attuale è data dal fatto che Liberman si è rifiutato, ad aprile, di accordarsi con i partiti di destra, in quanto non disponibili ad accettare un suo cavallo di battaglia: il servizio militare obbligatorio anche per gli ebrei ultraortodossi. Questi ultimi, attraverso due loro partiti, lo Shas e UTJ, hanno fatto una durissima opposizione e ora sono alleati indispensabili di Netanyahu.

La Arab List invece, non è neppure considerata come un possibile partner di governo da tutti i partiti sionisti. I partiti arabi non sono mai entrati al governo di Israele. Solo Rabin, nel 1992, costruì un governo con il loro appoggio esterno, ma fu fermato con il suo assassinio, due anni dopo.

Pertanto la maggior parte degli analisti vede tre possibili soluzioni: o un ennesimo ritorno alle urne, o un governo di unità nazionale tra il Likud e il partito di Ganz (Blue and White), oppure (più realistico) sempre un governo di unità nazionale tra questi due ma con un ritiro dalla scena politica di Netanyahu.

È infatti probabile che Ganz chieda come condizione per l’accordo l’esclusione del premier attuale, sia per coerenza rispetto a quanto ha sempre dichiarato ai suoi sostenitori, sia perché Blue and White si presenta come partito anticorruzione e onesto mentre Netanyahu sta per affrontare un grave processo per corruzione che potrebbe portarlo a una condanna.

Va rilevato che, anche se il partito di Ganz si caratterizza per uno stile politico più sobrio rispetto ai falchi del Likud, in termini di politica nei confronti della questione palestinese non presenta novità rilevanti né certo posizioni coraggiose. Potrebbe non essere difficile trovare pertanto condizioni politiche per un governo Likud – Blue and White.

Si possono evidenziare alcune conseguenze e alcune riflessioni generali.

Con Ganz potrebbe riprendere forma una sorta di negoziato di pace, non tanto per il suo legame con gli USA (che finché dura la presidenza Trump hanno ben altri interessi) quanto per i rapporti con la UE, che invece mal digeriva l’impresentabile Netanyahu, con la sua retorica estremista, il suo razzismo dichiarato, la sua violenza verbale. Questo fattore però non è di per sé un bene, perché, come fa notare Haggai Matar sappiamo quante volte i processi di pace tra palestinesi e israeliani abbiano portato a soluzioni molto svantaggiose per i palestinesi oltre che normalizzare l’apartheid vigente e ridurre (se non eliminare) la pressione internazionale perché l’occupazione abbia fine.

Inoltre è evidente che la mancanza di una resistenza palestinese di entità significativa abbia sottratto l’unico principio coagulante dell’estrema destra israeliana. L’incompatibilità tra partiti ultraortodossi e Lieberman è un fatto estremamente recente. Fino ad oggi lo spauracchio del “terrorismo palestinese” aveva tenuto insieme tutti. Oggi non è più possibile e sta avvenendo quello che molti avevano preannunciato, cioè il fatto che Israele inizi ad avere dei cortocircuiti interni determinati dalla sua stessa natura artificiale e contraddittoria di stato che vuole essere “ebraico”, come se l’ebraismo fosse un principio omogeneo e come se lo stile di vita degli ultra ortodossi fosse compatibile con quello di generazioni estremamente laiche frutto di migrazioni recenti in Israele.

È ovvio che le contraddizioni interne esplodono in mancanza di un nemico esterno.

Ancora, è da notare che quando i partiti arabi si presentano in modo unitario ottengono più fiducia e acquisiscono un peso significativo. La Joint List prende 13 seggi – mentre ad aprile la somma dei partiti arabi separati arrivava a 9 seggi – ed è il terzo partito della Knesset. Va rilevato che l’aumento della percentuale dei votanti (1,5 % in più rispetto ad aprile) è quasi esclusivamente dovuto al forte aumento dell’affluenza nelle regioni ad alta popolazione araba (il Nord, il deserto del Negev), in alcune di esse +20% rispetto alla primavera.

Infine la sinistra sionista è condannata alla marginalità politica (due partiti, uno con 5 seggi l’altro con 6). Come alcuni analisti hanno evidenziato, l’unica possibilità che ha di salvarsi è smettere di essere “ebraica” ovvero aprirsi e coalizzarsi con minoranze non ebree del paese. Ma la strada è ancora molto lunga e mettere in discussione il sionismo è un passaggio politico estremamente difficile.

In qualche modo, la probabile uscita di scena di Netanyahu corrisponde nell’immaginario di palestinesi e di israeliani contro l’occupazione al sospiro di sollievo che abbiamo avuto noi con l’uscita di Salvini dal Viminale. Non si sa cosa verrà dopo e lo scetticismo è d’obbligo, ma si è consapevoli che si sta abbandonando qualcosa di pesante e insostenibile.

Sicuramente l’era post Netanyahu sarà qualcosa di diverso, è però inutile oltre che rischioso pensare che di per sé possa rappresentare qualcosa di positivo.

Scalfire l’occupazione e destrutturare la profonda degenerazione politica e morale in cui l’occupazione ha portato in Israele dal 67 ad oggi non sarà per nulla facile. Le immagini agghiaccianti di soldati che uccidono una donna al check point di Qalandia, diffuse proprio ieri, sono una prova del grado di violenza politica e di disumanità nonché di normalizzazione della brutalità a cui Israele è giunto. Vedremo che direzione prenderà da oggi in poi.