MONDO

Israele, altri cinque anni di estrema destra al potere

Sconfortante il risultato delle elezioni politiche israeliane. L’estrema destra di Netanyahu tornerà al governo. Quasi inesistente, dopo il voto, la sinistra. Escono indeboliti anche i partiti arabi. Bassa affluenza alle urne in tutto il paese, in particolar modo nelle aree di popolazione palestinese

Le elezioni israeliane del 9 aprile hanno confermato la stagnazione politica e il grave ingabbiamento del paese nelle maglie dell’estrema destra. I due maggiori partiti, Likud e il nuovo partito centrista di Lapid e Gantz, hanno ottenuto il medesimo numero di seggi alla Knesset, 35, tuttavia l’insieme dei partiti di destra ottiene 65 seggi, sufficienti a governare (ne sarebbero bastati 61).

Le piccole coalizioni di destra hanno già tutte confermato che appoggeranno un nuovo governo Netanyahu. L’unico partito che non lo ha fatto è Ysrael Beitenu di Avigdor Lieberman, il partito riferimento per gli immigrati russi degli anni ’90. Comunque è molto probabile che alla fine appoggi pure lui il premier uscente, nonostante sia stata proprio la mossa di Lieberman, uscito dal governo a fine 2018, a determinare la convocazione di elezioni con un anno di anticipo. Si profila pertanto un nuovo governo con un potpourri di posizioni variegate, da quelle laicissime di Lieberman, la cui comunità di riferimento consuma regolarmente carne di maiale e vuole che anche gli ortodossi facciano il servizio militare, a quelle iper religiose degli ultra ortodossi.

Anche in termini di politiche sociali ed economiche i partiti della destra sono ben distanti, dall’ultraliberismo del Likud alla richiesta di uno stato completamente assistenzialista per sé stessi che viene fatta dagli ultra ortodossi. Si può pertanto tristemente affermare che il collante del nuovo governo sarà l’odio antiarabo e il supporto alle politiche coloniali in West Bank e a Gaza.

 

Infatti una delle tematiche principe di queste elezioni è stata proprio la volontà, espressa da Netanyahu, di annettere a Israele l’area C della West Bank nella quale vivono 320.000 coloni, ma pure tra i 200 e i 300 mila palestinesi. L’area C rappresenta il 60% della Cisgiordania storica e soprattutto è un’area fondamentale in termini di terreni agricoli, acqua e risorse.

 

Netanyahu ha ammesso con la massima serenità che i palestinesi che si troveranno a vivere nei terreni che verranno inglobati dentro lo stato di Israele saranno cittadini di quello stato ma privi di diritti politici e civili. Se c’è qualcosa infatti che caratterizza la fase politica attuale del Likud è la totale mancanza di “filtri”rispetto ai propri piani, per cui affermare di voler stabilire un regime di apartheid non solo di fatto (è già esistente) ma anche nelle intenzioni è qualcosa di tranquillamente sdoganato e accettabile anche in prima serata in tv.

Davanti a una proposta brutale di questo tipo il dibattito si è aperto con immaginabili conseguenze. Il partito di centro di Gantz ha saputo solo timidamente dire “meglio una soluzione in accordo con la comunità internazionale” e alla fine anche questo dibattito può aver determinato l’aumento del consenso nei confronti di Netanyahu.

 

Va ricordato che Netanyahu viene eletto nonostante stia affrontando gravi processi per corruzione, che tuttavia non ne hanno scalfito il consenso.

 

Micheal Schaeffer Omer ha affermato che mentre l’obiettivo di Netanyahu nel 2015 era mantenere lo status quo, l’obbiettivo attuale è aggravare la situazione a danno della popolazione palestinese e privare Israele di qualunque spazio di gestione democratica della politica che può essere rimasto. A riprova del regime reazionario in cui il Likud sta conducendo il paese, Netanyahu ha dotato di telecamere nascoste gli scrutinatori e ha fatto circolare la notizia di aver posizionato telecamere nascoste nei seggi elettorali di aree a maggioranza araba. L’atto è una chiara intimidazione verso una comunità già vessata e mantenuta sotto controllo dagli apparati di sicurezza.

 

Foto tratta da 972mag.

 

Alcune note a margine vanno infine evidenziate. La percentuale di votanti è stata bassa ed è stata bassissima in ampie zone ad alta percentuale di votanti palestinesi con cittadinanza israeliana.

 

All’interno di quella comunità, in molti nei giorni precedenti hanno chiamato al boicottaggio delle elezioni contestandone il metodo e il merito vista la situazione di palese ingiustizia che vivono quotidianamente e la falsa democraticità formale della tornata elettorale. Inoltre, a differenza del 2015 in cui si era creata la “Lista Araba unitaria” quest’anno le liste arabe sono state due, in questo modo si è perso credibilità e coesione e alla fine da 13 deputati del 2015 i 4 partiti arabi passano ad averne 10. New Right, di Naftali Bennett e Ayelet Shaked, partito di estrema destra, non ha superato la soglia per entrare alla Knesset. Entra in parlamento invece la “United Right” lista unitaria di estrema destra che include il partito Otzma Yehudit, un tempo bandito per le proprie posizioni razziste.

La sinistra sionista raggiunge appena 10 deputati sommando Labour e Meretz e forse sarebbe il caso che decidesse di rivedere il proprio programma e la propria agenda e visione politica visto che non è più in grado né di convincere né di portare al voto gli israeliani che si identificano in quel blocco. Infine, come ha scritto Mairav Zonsein, la stagnazione politica che si vive in Israele impedisce la formulazione di un qualunque progetto che possa portare a una soluzione con giustizia del conflitto e di decenni di occupazione, soprusi e violenza nei confronti della popolazione palestinese.

La soluzione, purtroppo, deve venire da fuori e partire con pratiche determinate e forti come il boicottaggio. L’elezione di Trump negli Stati Uniti ha da un lato rafforzato e avallato le politiche reazionarie di Netanyahu, dall’altro ha aperto margini di intervento, visto un certo grado di disinteresse nei confronti del Medioriente da parte del presidente USA. Nel contempo, consapevole di quest’ultimo elemento, Netanyahu ha rafforzato i propri legami con l’estrema destra mondiale, da Orbán a Bolsonaro.

Vedremo quali avvenimenti potranno accadere nel futuro prossimo e quali posizioni potrà prendere l’Unione Europea, da troppo tempo silente rispetto all’agire del proprio “vicino preferito”, ossia lo stato di Israele. Il contesto che si delinea tuttavia è talmente fosco da rendere difficile la previsione di un qualche miglioramento senza una azione incisiva e massiccia di boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti, come fu per il Sudafrica dell’apartheid, al quale, da oggi, Israele assomiglia ancora di più.