editoriale

Inutile sofferenza o utile produttività?

Detenzione amministrativa nei Cie e sfruttamento della forza lavoro migrante

Le manifestazioni del Primo marzo nascono, sulla scorta delle esperienze francesi e statunitensi, per denunciare lo sfruttamento del lavoro migrante nel nostro paese. Quest’anno, davanti alle crescenti proteste che ne pretendono la chiusura, è importante evidenziare la nuova funzione che hanno assunto i Cie nel contesto della crisi economica e dell’austerity.

Nonostante la legge 40/1998, più conosciuta come legge Turco-Napolitano, sancisca la creazione di Centri di Permanenza Temporanea (oggi Centri di Identificazione ed Espulsione) allo scopo di procedere all’identificazione e all’espulsione degli stranieri presenti irregolarmente sul territorio o entrati clandestinamente in Italia, oggi, a 15 anni dalla loro istituzione, appare evidente come questa funzione sia decisamente cambiata.

Infatti, prendendo in considerazione solamente l’anno 2013, di tutti i migranti trattenuti nei Centri di Identificazione ed Espulsione, meno della metà (45,7%) è stata effettivamente rimpatriata; inoltre, dei quasi 300 mila immigrati irregolari che si stima siano presenti attualmente sul territorio italiano, “solo” lo 0,9% è stato realmente espulso a seguito della permanenza in un CIE.
L’inutilità dell’istituto della detenzione amministrativa si evince del resto anche dal fatto che il “sistema CIE” sembra stia implodendo: dei tredici Centri istituiti in Italia, otto sono già stati chiusi dall’interno, a seguito di numerose rivolte da parte dei migranti che si sono ribellati alle condizioni di vita disumane e degradanti alle quali erano costretti. Attualmente ne rimangono attivi solo cinque, fatiscenti e danneggiati.

La creazione dell’istituto della detenzione amministrativa non riguarda solo l’Italia, ma va necessariamente inserita all’interno del processo di ridefinizione dei confini europei attraverso nuovi dispositivi di controllo della mobilità. La detenzione amministrativa è infatti un strumento che va integrandosi nell’ampio quadro delle politiche migratorie comunitarie: i dispositivi di controllo dei flussi quindi, pur variando e facendo formalmente riferimento a legislazioni statali diverse, si dispiegano coerentemente in tutta l’Unione. Si tratta di un sistema di governo dei flussi integrato e sovranazionale che prevede una differenziazione dei meccanismi e dei dispositivi, non casuale ma ponderata, fra il centro e la periferia dell’Europa. L’articolo 14 della Direttiva sui rimpatri della Comunità Europea prevede però la detenzione solo in via residuale, cioè nei casi in cui ci sia un’effettiva impossibilità di procedere all’identificazione e poi all’espulsione. In Italia, invece, questo non viene applicato e il trattenimento forzato all’interno dei CIE è previsto per tutti i migranti irregolari o “clandestini”.

A livello locale, molti sono stati i tentativi di presentare mozioni per chiedere l’immediata chiusura dei CIE, come ad esempio nei consigli comunali di Torino, Bari e Roma. Nonostante ciò, numerosi rappresentanti di governo continuano a dichiarare la volontà di potenziare e incrementare il “sistema CIE”, attraverso la creazione di nuove strutture e l’aumento dei fondi per la loro gestione, promettendo tutt’al più di “umanizzare” le condizioni di reclusione.

A fronte di una chiara inutilità dal punto di vista del contrasto dell’immigrazione irregolare, viene a questo punto spontaneo domandarsi quale sia la reale funzione di questa “macchina della detenzione”.

In tempo di recessione, delocalizzazioni e licenziamenti, il legame stringente tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, contenuto nella legge Bossi-Fini, combinato con l’introduzione del reato di clandestinità, hanno creato una tenaglia giuridica, che impone ai migranti un ricatto permanente sul lavoro.
Innanzitutto, il capovolgimento della consequenzialità reato-pena crea direttamente una stigmatizzazione del migrante che agli occhi dell’opinione pubblica diventa così un soggetto illegale da segregare per neutralizzarne la potenziale criminosità. “Il clandestino” o “l’irregolare” viene dunque definito internabile e deportabile per il solo fatto di esistere, ratificando differenze di status e in ultima analisi di cittadinanza.

I Centri di Identificazione e di Espulsione si configurano quindi come vere e proprie “fabbriche di clandestinità”. La possibilità di essere rinchiusi in uno di questi Centri senza aver commesso alcun reato, ma per il solo fatto di non possedere un documento legalmente valido, costringe il migrante a una condizione di precarietà esistenziale rendendolo un soggetto ricattabile e subalterno.

I migranti divengono così un serbatoio di manodopera a basso costo, un “esercito di riserva” funzionale alle esigenze dell’economia capitalista e neoliberista. Impiegare forza-lavoro con salari minimi, oltretutto sfruttando il mercato sommerso, significa massimizzare i profitti lucrando sulla vita delle persone nonché sulle fasce più vulnerabili. Inoltre, anche chi non entra irregolarmente in Italia vive in uno stato costante di ricattabilità, costretto ad accettare qualsiasi condizione lavorativa a costo di non perdere il permesso di soggiorno.
È lo Stato stesso che produce legalmente l’illegalità delle persone. Infatti, il sistema di regolarizzazione in Italia è estremamente complesso, in quanto i requisiti per ottenere un permesso di soggiorno sono quasi impossibili da soddisfare.

Crediamo che le migrazioni non possano essere concepite solo come mobilità della forza lavoro in base alle esigenze delle economie dei Paesi avanzati, ma ribadiamo la libertà di movimento per tutte e tutti, come già enunciato nella Carta di Lampedusa e come abbiamo affermato a gran voce durante il corteo del 15 Febbraio davanti al CIE di Ponte Galeria.
Per questo, vogliamo un Primo Marzo che chieda la chiusura immediata di tutti i CIE in quanto strumento delle politiche migratorie che criminalizzano e marginalizzano le vite migranti. Una rivendicazione che si trova immediatamente in connessione con le lotte che in questa giornata parleranno di lavoro dignitoso, ma anche di reddito e welfare per tutte e tutti.

Nessun profitto sui corpi, la lotta contro l’austerity non ha confini!