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MONDO

Dal 2001 argentino all’internazionale femminista: intervista a Verónica Gago

Fin dalle origini del neoliberismo, imposto in America Latina dalle dittature militari, il debito estero si è configurato come dispositivo di governo. Vent’anni dopo la crisi e le giornate insurrezionali del 19 e 20 dicembre 2001 l’Argentina sta negoziando il pagamento del debito più alto della storia del FMI. La finanziarizzazione della vita quotidiana è lo scenario delle nuove lotte femministe e popolari

Questa intervista, realizzata nel mese di maggio a Buenos Aires, è stata pubblicata sul terzo numero della rivista DINAMOprint dal titolo «Dov’è finita la globalizzazione?» uscita nelle librerie nel mese di luglio di quest’anno. In occasione dei vent’anni dell’anniversario delle giornate insurrezionali contro il neoliberismo del 19 e 20 dicembre 2001 in Argentina, ripubblichiamo l’intervista sul nostro sito, mentre le proteste esplodono nella Patagonia contro l’estrattivismo minerario e per il ventennale delle giornate del 2001 si terranno manifestazioni, dibattiti, mostre, eventi, cortei, proteste, momenti di memoria e di discussione in decine e decine di spazi, città, piazze dell’Argentina.

Con l’occasione, segnaliamo la costituzione di un archivio dei materiali, testi, articoli, libri e interventi politici del collettivo Situaciones, e la ripubblicazione in lingua inglese, proprio in occasione dei vent’anni dal 2001, del libro “19 y 20: notes on a new insurrection” del Colectivo Situaciones per la casa editrice Common Notions.

Testi e dibattiti di riferimento per noi e per moltx altrx nel mondo per leggere, comprendere ed interrogare la portata politica di quelle giornate e della crisi argentina, simbolo della crisi del debito e delle devastanti conseguenze del neoliberismo, ma anche dell’emergere di nuovi protagonismi sociali, lotte e forme di conflitto. Testi che a partire da una ricerca militante si interrogano sulle “soggettività della crisi”, sulle sfide della democratizzazione plebea, sulla potenza delle assemblee popolari, delle fabbriche recuperate e delle lotte dei piqueteros, i disoccupati e le disoccupate che hanno reiventato il picchetto e le lotte sociali. Venti anni dopo, nel pieno di un’altra grave crisi argentina e planetaria, con il governo argentino impegnato in un complesso processo di negoziazione relativo al pagamento del debito più grande della storia al Fondo Monetario Internazionale, in uno scenario politico, economico e sociale differente, interrogarsi sul 2001 significa interrogare continuità e trasformazioni attorno alle questioni del debito, della crisi e dei movimenti sociali.

Per le immagini che accompagnano questo articolo, ringraziamo per la disponibilità e la generosità Sub Cooperativa de Fotografxs di Buenos Aires, autori e autrici di queste iconiche fotografie della crisi del 2001 che oggi pubblichiamo assieme all’intervista a Verónica Gago. [nota della redazione]

Vent’anni dopo il movimento globale contro il neoliberismo esploso a Seattle e capace di articolarsi a livello transnazionale, molto è cambiato, eppure la memoria di quell’epoca continua ad interrogarci. Il 2001 in Argentina richiama immediatamente la crisi ma anche la potenza dei movimenti, i piqueteros, l’insurrezione del 19 e 20 dicembre. Quali aspetti del 2001 argentino segnano ancora l’attualità politica del paese e non solo?

Gli eventi e i processi sociali del 2001 coinvolgono differenti geografie allo stesso tempo, sono stati esperienze generazionali con una forte connessione transnazionale a livello regionale e globale. Risulta impossibile pensare al 2001 senza tenere conto dell’elaborazione sotterranea della militanza degli anni novanta che si interrogava su cosa significasse opporsi alla “fine della storia”, reiventando la propria azione a partire dall’esperienza zapatista, questioni che hanno avuto visibilità con il movimento di Genova, con gli eventi del 2001 in Argentina, con Porto Alegre. Negli anni novanta in Argentina sono state importanti le rielaborazioni sul significato degli anni settanta a partire dalla nascita di Hijos e delle Catedras Libres in cui discutevamo dell’ipotesi rivoluzionaria, della riconfigurazione della classe operaia, dei processi di privatizzazione, della disoccupazione, del Washington Consensus, della ristrutturazione della soggettività popolare. A Porto Alegre il tema centrale era la crisi dei partiti e della rappresentanza politica, ci interrogavamo sulle implicazioni dell’invenzione di forme politiche nuove e sulla sfida di articolare un’altra dinamica politica.

Con la crisi del 2001 sono emerse quelle esperienze, le assemblee di quartiere, le fabbriche recuperate, i movimenti di disoccupati, capaci di condensare queste domande e sintetizzare il modo in cui nei decenni precedenti le riforme neoliberali avevano contribuito alla destrutturazione delle soggettività politiche, segnalando al tempo stesso l’emergere di nuove dinamiche politiche accelerate dalla crisi. In questo senso la crisi argentina ha avuto immediatamente ripercussioni nel resto del mondo, proprio per l’emergere di sperimentazioni politiche concrete, forzate dalla situazione di crisi economica e dall’impossibilità di stabilizzazione delle forme di governo, mentre la repressione provava a mettere limiti ai movimenti più radicali dei disoccupati. La crisi dell’ordine politico e del sistema dei partiti emerge chiaramente, siamo di fronte al punto di flessione della democrazia post dittatura e questo diventa evidente con la reazione alla dichiarazione dello stato di emergenza e la disobbedienza al coprifuoco.

Ma il 2001 continua ad essere il punto di riferimento del momento in cui le classi dominanti hanno avuto paura di non riuscire a ristabilire con facilità il loro potere: sono proprio questi i momenti in cui il sistema politico è costretto al riformismo, perché la minaccia è davvero forte.

I movimenti dei lavoratori disoccupati organizzati si coordinavano per bloccare tutti gli accessi alla città, il movimento piquetero non era concentrato solo a Buenos Aires, ma in tutte le regioni del paese ed aveva accumulato molta forza sui territori, era un modo per metabolizzare la crisi del lavoro salariato e la disoccupazione con tassi da record per l’epoca in Argentina. Il 2001 è stato uno spartiacque e continua ad essere ancora oggi il punto di riferimento quando si parla di crisi o dell’ instabilità del sistema politico.

Da questa prospettiva è possibile comprendere gli anni successivi, la maggiore espansione di sussidi sociali della storia argentina avvenuta nel 2002,  i governi obbigati a farsi carico della crisi per non affrontare il rischio dell’ingovernabililità, la durissima repressione nel 2002 per limitare la forza dei movimenti, le elezioni del 2003 vinte da Nestor Kirchner, figura inaspettata nello scenario politico. Anche durante i governi kirchneristi la crisi del 2001 è sempre stato il punto di riferimento, seppure come un inferno da cui occorre stare lontani, una visione che punta a limitare la grande importanza dei movimenti nella riorganizzazione delle relazioni sociali in base alla premessa del rifiuto dell’austerità. E’ questa l’immagine più potente del 2001, la capacità del sociale di mettere un veto al neoliberismo considerato illeggittimo: quello che avviene dopo in termini di politiche pubbliche è una risposta al rifiuto popolare dell’austerità.

Per rendere più complesso il panorama della crescita economica post 2001, ho analizzato le modalità in cui le dinamiche delle economie popolari si stabilizzano e quelle forme di lavoro, scambio, commercio e autogestione, legate al momento della crisi e considerate transitorie, non solo continuano ad esistere ma si articolano in modalità variabili con le dinamiche della cosiddetta crescita economica e del boom delle commodities. Mi sembra fondamentale continuare a sottolineare il fatto che a rendere possibile il ciclo progressista sia stata l’insurrezione popolare e la capacità dei movimenti di imporre un mandato anti-austerità dal basso.

Il debito è stato al centro della crisi argentina del 2001 e delle rivendicazioni del movimento alter globalista, e se negli anni ottanta le politiche del FMI sono state imposte nei paesi africani e latinoamericani, dal 2008 in poi anche in Europa hanno assunto una significativa centralità. Da allora ad oggi, come sono cambiate le dinamiche del debito pubblico in Argentina?

Ricordo ancora l’ultimo atto del governo De La Rua nel 2001: l’annuncio di una misura di salvataggio con un prestito blindato del FMI. Da sempre il debito estero è un dispositivo di governo, ed in America Latina è indissolubilmente legato alle dittature: tracciare una genealogia del neoliberismo nella nostra regione vuol dire ricostruirne l’origine fascista, perché sono le dittature e il terrorismo di Stato i momenti di produzione di una architettura costituzionale e finanziaria che inaugura il neoliberismo. Ovviamente possiamo ricostruire una sequenza di fasi differenti, non è lo stesso il neoliberismo inaugurato dalle dittature per porre fine ad un periodo di lotta di classe rispetto al neoliberismo del Washington Consensus, piuttosto che il ruolo del debito estero nella transizione democratica per uscire dalle dittature…

Ma dalla dittatura ad oggi assistiamo ad una continuità dell’indebitamento estero come dispositivo politico, come modo di regolazione dei processi sociali, per condizionare le politiche dei governi rispetto al controllo della moneta.

Il debito è l’altra faccia delle politiche di austerità. Uno slogan che viene scritto sui muri di Buenos Aires da decenni è “Fuori il FMI”, vale per tutte le stagioni… Nel 2001 l’indice di rischio paese, legato ai tassi di indebitamento, veniva ripetuto continuamente come segnale di allerta di una catastrofe annunciata. Se con il governo Kirchner c’è stato un tentativo di mettere in discussione il meccanismo del debito, con Macri siamo tornati ad nuovo salto nel vuoto contraendo un debito estero record non solo per la storia del paese, ma anche per l’ FMI. Analizzare il debito estero rende possibile identificare diversi momenti del suo funzionamento come dispositivo politico e rilevare la finanziarizzazione crescente dell’economia, ovvero l’egemonia di un modello di valorizzazione finanziaria.

Da questo punto di vista, se la dinamica del debito è decisiva per comprendere la riconfigurazione dell’accumulazione del capitale, l’analisi del debito da una prospettiva femminista permette indagarne l’espansione nella vita quotidiana. Cosa sta avvenendo?

Durante il governo Macri l’aumento strutturale della povertà  è stato talmente significativo che le ricerche che stavamo portando avanti sull’indebitamento popolare in relazione al paradigma di consumo si sono trasformate rapidamente in ricerche sui processi di indebitamento domestico finalizzato alla riproduzione sociale. I processi di finanziarizzazione della popolazione subalterna in America Latina sono stati parte delle politiche di inclusione dei governi popolari, ma non solo: l’ambiguità di questi processi, del paradigma di sviluppo e della questione democratica che queste dinamiche implicano, riguarda proprio il fatto che la politica di inclusione dipendesse in buona misura dalla mediazione finanziaria, favorendo così le banche.

Credo sia un punto centrale per comprendere il momento politico in cui la rendita straordinaria delle commodities è stata utilizzata per implementare quelle politiche sociali che rispondevano alle rivendicazioni dei movimenti, ad un desiderio diffuso di anti-austerità, che è stato così catturato dalle corporazioni finanziarie bancarie e non bancarie. Invece di garantire investimenti pubblici per le infrastrutture, gli investimenti per garantire consumi di beni non durevoli hanno portato all’individualizzazione compulsiva e alla finanziarizzazione della riproduzione sociale, processo che si è accentuato ed accelerato in modo radicale con il governo neoliberale di Mauricio Macri.

Credo che questa finanziarizzazione dell’intera vita quotidiana in termini di soggettività imprenditoriale sia legata alle modalità in cui in precedenza le economie popolari si sono intrecciate con alcune economie illegali, le cui dinamiche hanno ridefinito la gestione della violenza nei territori. Nel momento di maggiore precarizzazione ed impoverimento imposti dal governo Macri, lo spiazzamento proposto dal femminismo segnala il modo in cui il debito si inserisce in modo capillare nella riproduzione sociale: noi diciamo che oggi vivere produce debito, e il modo in cui il debito penetra nella vita quotidiana funziona come una costatazione dell’insufficienza dei salari e delle altre entrate economiche, come dimostrazione dell’assenza di una adeguata infrastruttura pubblica per la riproduzione sociale. A fronte di questa devastazione sociale, il debito funziona offrendo una soluzione perversa, perché risolve problemi immediati ma al tempo stesso dimostra una capacità inedita di comando, organizzazione e sfruttamento di quell’eterogeneità che caratterizza oggi la forza lavoro, soprattutto nei settori più precarizzati.

Il femminismo è stato decisivo per comprendere le connessioni tra violenze economiche e violenze machiste, per indagare cosa significa la gestione della vita quotidiana attraverso l’indebitamento, segnalando i modi in cui le dinamiche finanziarie si intrecciano con altre forme di violenza istituzionale, di violenza sul lavoro o delle violenze luno la lindea del sesso-genere.

Ci troviamo oggi in una situazione molto difficile, la pandemia non ha fatto altro che accelerare questi processi, tanto a livello micro come macro strutturale, e non solo le politiche dei governi sono condizionate dal debito pubblico, ma lo è anche la vita domestica. Siamo davanti ad una sovrapposizione di momenti diversi che compongono il processo di finanziarizzazione della vita quotidiana che sta riorganizzando complessivamente le relazioni sociali, ridefinendo anche le forme di gestione della violenza in assenza di una serie di mediazioni conosciute, dal salario all’eteronorma.

A fronte di una serie di cambiamenti strutturali la finanza sta mostrando una particolare abilità nella gestione e nell’organizzazione della riproduzione sociale agendo in modo assolutamente paradossale, risolvendo un problema ed al tempo stesso intensificando il livello di violenza, offrendo soluzioni nel qui ed ora e sfruttando una disponibilità generica di lavoro futuro, offrendo accesso a beni e servizi ed al tempo stesso sistematizzando la mediazione finanziaria per garantire l’accesso ai diritti. Credo che ci troviamo nel pieno di questa situazione complessa: in questo scenario, il femminismo, ed in particolare la nostra ricerca, interroga questi processi a partire dalla prospettiva della disobbedienza alla finanza, non solamente analizzando le modalità sempre più complesse in cui opera il capitale finanziario, ma articolando le lotte contro la violenza machista, costruendo una cartografia dell’intreccio delle violenze ed al tempo stesso pensando in termini programmatici cosa significa disarticolare il potere della finanza nel momento in cui è diventata una presenza concreta nella vita quotidiana.

La costruzione di una agenda internazionale di lotta, l’elaborazione di rivendicazioni trasversali, l’incontro di esperienze eterogenee hanno caratterizzato il movimento alterglobalista. Venti anni dopo, come potremmo caratterizzare il nuovo internazionalismo delle maree femministe globali?

Credo che la ripercussione delle manifestazioni femministe a livello internazionale all’inizio sia stata sorprendente, penso alla manifestazione Ni Una Menos del 2015, allo sciopero delle donne in Polonia e poi ancora in Argentina nel 2016. Questi eventi hanno cominciato a tessere connessioni e senso comune con altre esperienze in luoghi differenti e d’improvviso hanno prodotto una dinamica di coordinamento di fatto. A partire dall’8 marzo 2017 si struttura invece un coordinamento effettivo con l’appello allo sciopero internazionale femminista, con un lavoro politico militante impegnato ad alimentare questa dimensione internazionalista che presenta una serie di livelli molto interessanti: la reinvenzione dello sciopero, la centralità del lavoro, la possibilità di ripensare il concetto stesso di lavoro da una prospettiva femminista, il modo in cui questa domanda ha aperto spazi di ricerca concreta nei territori. Si tratta di una domanda comune che però non risolve la domanda sul “che fare”, rende piuttosto possibili forme di organizzazione e problematizzazione politica in ogni territorio.

Mi sembra una tensione molto interssante dello sciopero, perché se da una parte questo sembra una formula generale, il modo in cui l’ha sviluppato il femminismo lo obbliga a toccare terra e tradursi in forma specifica in ogni spazio differente.

Credo che questo lavoro politico sia decisivo per il modo in cui il femminismo ha riattualizzato e inventanto lo strumento storico dello sciopero, rimettendo al centro la possibilità di parlare di precarizzazione in termini generali senza rendere omogenee le differenti esperienze, rendendolo un punto di partenza per fare inchiesta concreta sulle forme di lavoro e di vita in ogni territorio.

Quello che fa lo sciopero è legare questa dimensione analitica alla questione dell’organizzazione e dell’insubordinazione: con lo sciopero del 2017 si comincia a sistematizzare e sperimentare quella dimensione per cui il processo di costruzione transnazionale costituisce un elemento di forza in ogni territorio. La possibilità di seguire collettivamente i processi in corso, spazi di elaborazione comune, una agenda e modi di fare condivisi, la circolazione di immagini e slogan sono aspetti decisivi assieme all’impegno continuativo affinché la dimensione transnazionale continui ad esistere e si rafforzi.

Tutto questo ha reso possibile pensare la nuova internazionale, l’internazionale femminista, una dimensione globale oltre le date e l’agenda… una delle caratteristiche del movimento no global era quella di seguire le date del potere, dei vertici, in questo caso si tratta di date decise dai movimenti. Un punto su cui insisto molto riguarda la questione dello sciopero come processo che non si riduce all’organizzazione del momento più visibile e pubblico ma che rende possibile una sua traduzione al livello della vita quitidiana, dall’impatto nelle organizzazioni e nei sindacati, dalla famiglia alle scuole, consegnando uno spessore e una durata differente allo sciopero.

Con la Marea Verde per l’aborto nel 2018 vi è stata una crescita enorme di visibilità,  e la capacità di produrre immagini e l’indentificazione con un colore sono state dimensioni estetiche molto importanti capaci di includere livelli diversi di impegno militante producendo una sensazione ampia di inclusione, così come la dimensione transgenerazionale è stata decisiva nell’articolazione delle differenti esperienze che compongono il movimento femminista.

Dalla tua prospettiva, quali sono le principali risonanze tra le maree femministe e le rivolte popolari emerse negli ultimi anni a livello globale?

Credo che l’intreccio tra femminismo e sollevazioni popolari sia centrale perchè dimostra come il femminismo non sia una rivendicazione settoriale, ma una aspirazione a riorganizzare la vita, e questo emerge nelle rivolte popolari in Cile nel 2019, oggi in Colombia, ma anche in Ecuador e in Brasile con EleNão. Il femminismo ridefinisce le forme di mobilitazione e di occupazione delle strade, le modalità della protesta, la gestione della parola nelle organizzazioni, la rappresentanza, l’agenda politica, tessendo la dimensione eco femminista con quella indigena, sono tutte dimensioni importanti del movimento trans femminista presente in tutte le rivolte e negli scioperi con un ruolo inedito.

La capacità dello sciopero femminista di diventare sciopero generale, come abbiamo detto più volte, ha permesso di scioperare a tutte quelle che storicamente sono state escluse da questa possibilità perché non erano considerate lavoratrici né soggetti produttivi. Credo che questa capacità di generalizzazione abbia contribuito a riorganizzare le forme di lotta e di protesta, la leadership e la distribuzione del potere nelle organizzazioni politiche, il modo in cui la dimensione della riproduzione sociale emerge in primo piano quando si rende visibile chi sostiene la protesta, che cosa significa mantenere una lotta nelle strade per settimane intere, l’enuncianzione e la pluralizzazione  dei conflitti che compongono una rivolta, credo siano dimensioni decisive per la lotta antineoliberista che il femminismo pone in modo concreto.

Negli ultimi anni il movimento femminista è riuscito a mostrare l’effetto concreto del neoliberismo nella vita quotidiana, un contributo molto importante alle ultime proteste e insurrezioni popolari: denunciare le conseguenze concrete del debito educativo, dei tagli alle pensioni, delle riforme fiscali regressive, dell’estrattivismo, del trasferimento forzato delle popolazioni, del modo in cui la violenza machista agisce per metabolizzare la destrutturazione dell’ordine patriarcale, sono tutti contributi molto importanti del femminismo alle attuali proteste sociali.

Tutte le immagini di Sub Cooperativa de Fotografxs, che ringraziamo per la disponibilità e la generosità