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Il Racconto di due Città: “We Own This City” e “The Wire”, Baltimora vent’anni dopo

Il lavoro di David Simon rimane uno strumento fondamentale per mappare le contraddizioni sociali made in USA oltre ogni facile allegoria morale. Osservare l’evoluzione dell’opera di questo autore, allo stesso tempo, ci permette anche di elaborare degli strumenti critici adatti alle sfide politiche del presente.

«David Simon non sbaglia» commenterebbe ogni appassionatǝ del lavoro di una delle migliori penne del giornalismo e della televisione Americana degli ultimi trent’anni. La firma di questo grande autore (così come dellɜ suɜ collaboratorɜ abitualɜ) rimane un punto di riferimento sul come fare della forma televisiva seriale un grande strumento di storytelling e diagnosi biopolitica riuscendo a coniugare la tradizione del realismo sociale ad una profonda coscienza di complessi processi storici. Dalle sex-workers della 42esima strada di The Deuce (2017-2019) che, fra pimp, nascita dell’industria pornografica e gentrification, cercano di adattarsi a giganteschi cambiamenti sociali, fino allɜ sorpavvissutɜ di Katrina in Treme (2010-2013) che tentano di riabitare New Orleans e di rilanciare ciò che resta di uno spirito comunitario fra le macerie, Simon ha sempre continuato la sua disperata ricerca delle nuove (s)fortune dell’American Dream. Oltre ad una grande forza espressiva ed analitica, queste serie, fra le altre, hanno sempre dimostrato una profonda sintonia con il contesto storico, con le massicce trasformazioni dei rapporti sociali del proprio paese e con le sue conflittualità difficilmente sanabili o riconducibili alla buona volontà di eroicɜ individuɜ.

A ridosso dell’elezione di Trump e delle immense mobilitazioni popolari per la giustizia razziale, Simon (affiancato da Paul Haggis) ritorna con la miniserie Show Me a Hero (2016 basato su eventi reali); un capolavoro insuperato in quanto feroce autopsia delle politiche abitative che hanno determinato la combinazione fra riqualificazione urbana e ghettizzazione delle minoranze tramite «l’uso della razza per il profitto» per parafrasare il lavoro della sociologa Keeanga-Yamahtta Taylor. Il «divenire capitale spendibile» delle proprietà immobiliari, o meglio, la finanziarizzazione completa dell’abitare attraverso il proliferare di mutui e indebitamento, infatti, non è stato solo uno degli aspetti macro-economici della fase espansiva del neoliberismo, esplosa con la nota crisi del 2007/2008. Questo processo ha visto anche la violenta competizione fra proprietarɜ, ognunǝ minacciosamente rintanatǝ nel proprio recinto identitario da difendere come un salario (le cosiddette wages of whiteness). In tale contesto, a poco serve il buon esempio e il sacrificio individuale, specificamente incarnato dall’eroe involontario Nick Wasiscko (Oscar Isaac), il cui percorso manifesta la tragica incapacità di cogliere eventi che vanno al di là della prospettiva personale. Realtà politica e la sua espressione audiovisiva, quindi, si intersecano e dialogano nel lavoro di Simon favorendo il discorso sistemico ad ogni facile schematizzazione etica. Non a caso l’opera dell’autore viene spesso vista come esempio di prassi artistica marxista, in cui la costruzione di universi valoriali è indissociabile dal materialismo delle relazioni sociali e dal suo continuo immanenete farsi e disfarsi.

La spietatezza analitica di molte delle sue serie ha, talvolta, anche portato a considerarle come dei freddi trattati di sociologia o acute etnografie di quartieri e città, persino inefficaci nel rendere il vissuto di personaggi e protagonistɜ. In questo senso, The Wire (2002-2008) viene espressamente indicato non solo come lavoro di culto dell’autore, ma anche come magistrale esempio di bilanciamento fra modi di scrittura e impianto narrativo. Non a caso, personaggi come il criminale/cavaliere anarchico Omar (Michael K Williams), il buon sbirro Jimmy McNulty (Dominic West), il businessman-mafioso con ambizioni di mobilità sociale e integrazione Stringer Bells (Idris Elba), fra lɜ tantɜ, sono rimasti nell’immaginario collettivo come riferimenti emblematici per lo studio di Baltimora e degli effetti della War on Drugs sulla città. Per lɜ appassionatɜ, frasi celebri come «I got the shotgun, you got the briefcase, but it’s all in the game» pronunciata da Omar in tribunale per spiegare il proprio ruolo nell’ecosistema criminale di Baltimora, condensano la grande riflessione sulla piaga sistemica prodotta da politiche proibizioniste. In questo quadro, emarginazione, mancanza o riduzione di ogni meccanismo welfaristico si combinano facendo della lotta al narcotraffico una vera e propria guerra di classe. Similmente, istituzioni legali e illegali mostrano una sinistra somiglianza nel loro strutturale incancrenimento, nel riprodurre dinamiche di potere simmetricamente opposte ma che ugualmente impediscono agli individui che ne fanno parte di trovare un ruolo attivo e positivo.

Dall’affresco drammatico e realista di The Wire (fra Balzac, Zola, e Dickens) Simon torna a Baltimora dopo vent’anni con We Own This City, miniserie in sei puntate ancora per HBO (basata su un libro omonimo di Justin Fenton per il Baltimore Sun). Qui la guerra alla droga continua ad essere il focus narrativo principale della serie, ma le dinamiche espressive si poggiano su traiettorie completamente diverse rispetto a quelle precedentemente sperimentate. Da un lato, la città stessa è cambiata. Il conflitto razziale, evidente ma inesploso in The Wire si fa qui colonna portante dell’architettura urbana. Gli slogan e i corpi di Black Lives Matter si percepiscono ovunque (a partire dai magnifici titoli d’apertura di ogni episodio), la rabbia ha smesso di prendere la forma di ribellione individuale ed è diventata collettiva. Le divisioni di classe, lo sfruttamento e l’esclusione sociale sono evidenti e non più percepite come colpe personali. I sogni di emancipazione sono sfumati e smentiti al punto che nemmeno la vita criminale sembra porsi come agibile versione distorta ed esasperata di percorsi di realizzazione economica e sociale, laddove proprio su questa falsa speranza si insinuava il dramma di variɜ protagonistɜ della Baltimora dei primi anni duemila. 

Su un piano prettamente estetico e stilistico, We Own This City utilizza lo schema a intreccio comune a tante serie, ma lo fa adoperando una struttura non lineare, che procede per salti temporali e associazioni, come riproducendo lo struttura stessa della doppia indagine (da parte di commissioni interne di polizia e dell’Ufficio Diritti Civili) che muove gli eventi. Nel succedersi dei sei episodi che organizzano la narrazione, infatti, osserviamo con minuzia il trasformarsi delle forze dell’ordine di Baltimora in un corpo aziendalizzato, che lavora a prestazione e con premi di produttività, perfettamente in linea con la straripante logica della gig-economy. La paga viene erogata ed aumentata in base al numero di arresti e ai sequestri di armi e stupefacenti effettuati o, ironicamente, in base a quanto si lavora al di fuori dei propri turni (e quindi contro ogni principio di “ordine” e sicurezza standardizzata). Al centro delle indagine c’è, quindi, la necessità di accertare le responsabilità du un gruppo di poliziotti della Gun Trace Task Force (GTTF) colpevoli non solo di aver abusato di tali cambiamenti, ma di aver completamente dismesso ogni possibilità di cooperazione fra istituzioni e cittadinanza. A ricoprire il ruolo di villain troviamo il sergente Sgt. Wayne Jenkins (interpretato dall’ottimo Jon Bernthal), massima espressione dell’eccesso di un’idea di sicurezza basata su quantificabili dati punitivi, ma anche figura sinistramente sintomatica di questa irreparabile frattura.

Non è un caso, però, che una serie costruita attorno a dinamiche “fredde”, giornalistiche, e che lascia davvero poco spazio al dramma intimo (questo è forse il caso esclusivo di Sean Suiter [Jamie Hector, il crudele Marlo Stanfield di The Wire]) trovi una parte della sua conclusione su immagini oniriche. Jenkins, sogna sè stesso miracolosamente salvato dall’inchiesta e si immagina come guida spirituale della polizia di Baltimora completamente catturato nel recitare un motivational speech che grottescamente nobilita il suo stesso operato (la nevrosi del potere come ne L’Indagine su un Cittadino al di Sopra di ogni Sospetto di Elio Petri). Questa stessa folle autoreferenzialità, tuttavia, non è riconducibile all’eccesso personale, ma alla crisi stessa delle istituzioni a cui si faceva riferimento precedentemente. Alle domande di giustizia sociale, all’apertura netta di un conflitto che richiede un’abolizione o consistente ripensamento della funzione poliziesca in direzione di una diversa socialità, lo Stato-Mercato Americano ha risposto (sembra suggerirci Simon) ponendo alla propria cittadinanza una finta doppia scelta: decidere se avere o meno delle forze dell’ordine di fronte a presunte (o create ad arte) ondate di inarrestabile criminalità. A poco servono le richieste di accountability, il diversity management (in una città a prevalenza afroamericana come riflesso anche dalla positiva “inclusion” nelle istituzioni) e sensibilizzazione dellɜ agenti laddove si ravvisa un bisogno rivoluzionario, un desiderio radicale di rinnovamento (che va persino oltre la critica stessa presentata da Simon). Le immagini finali, che cinicamente riportano l’endemica corruzione delle istituzioni, e la breve parabola di diversi personaggi presentatisi come riformatori, segnano ancora di più il fallimento dell’orizzonte liberal e di ogni politica che non sia in grado di elaborare orizzonti di trasformazione sistemica o, quanto meno, di riforma strutturale. Le forze dell’ordine, in parallelo alle violente dinamiche accerchianti ed estrattive del Capitale, possiedono la città (appunto), limitano ogni idea di cittadinanza politica, disegnando così, la presenza di due comunità e di un conflitto che può riaccendersi in ogni momento. 

Se Omar ci appariva come titanico eroe tragico in mondo abietto e corrotto (si pensi al suo samuraico «a man must have code» e alla sua drammatica morte “casuale”), qui è l’idea stessa di collettività ad essere schiacciata e afflitta dall’impossibilità di agire e ripensare il proprio destino. Forse Simon mostra ancora il taglio di chi ha il coraggio della disperazione, di un pessimismo analitico spietato e privo di catarsi, eppure è proprio da esso che emerge un’irrefrenabile sete di possibile, di alternativa. Dopotutto, come insegnava Stuart Hall, la formula «il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà» (ma i termini dell’equazione sono intercambiabili a mio parere) non ha mai rappresentato una resa al miserabilismo. Questa aggressiva postura analitica indica la necessità di riposizionarsi continuamente, come del resto fanno le serie di Simon, e di ricalibrare le proprie armi in base ad ogni nuova sfida politica. Seguire i soldi (il follow the money di The Wire) e i grandi conflitti di classe oscurati e negati è sempre un buon punto di partenza.