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David Simon ci spiega il capitalismo con “The Deuce”

Dopo The Wire e la città di Baltimora, David Simon torna con una nuova serie TV su HBO a parlare del capitalismo degli spazi urbani . The Deuce ci mostra la complessità dei rapporti sociali legati al mercato del sesso newyorchese degli anni Settanta, tra sfruttamento della prostituzione e nascente industria della pornografia.

La città capitalista è l’arena dove avvengono i più grandi disordini sociali e politici, ma è anche una testimonianza monumentale e una forza attiva di diseguaglianza nella dialettica dello sviluppo capitalistico. Come è possibile penetrare nel suo mistero, chiarire le sue zone d’ombra e coglierne le contraddizioni?” È quello che scriveva David Harvey ne L’esperienza urbana descrivendo la difficoltà di entrare in uno spazio così opaco com’è quello degli spazi urbani contemporanei. Il cinema in effetti ha sempre fatto fatica a mostrare la molteplicità e conflittualità delle città, perché per ragioni strutturali si trova più a suo agio a farne un’icona paesaggistica o uno sfondo statico. Per cogliere le sue differenze, le sue complesse sedimentazioni sociali, i suoi mille linguaggi, i suoi divergenti punti di vista c’è bisogno di superare la soglia dell’immediatezza del visibile.

Come sarebbe possibile altrimenti guardare una città come New York – la città cinematografica per eccellenza – che è nello stesso tempo vissuta dagli speculatori immobiliari e dai lavoratori migranti precarizzati? Dai broker di Wall Strett e dai janitors che di notte puliscono i loro uffici? Dagli spacciatori della strada e dai grandi capitalisti di Upper Westside? È difficile ridurre a un’immagine l’infinità dei punti di vista e degli interessi confliggenti che convivono nella città. Il cinema invece molto spesso ci fa assumere lo sguardo di un protagonista o di una batteria limitata di personaggi, a discapito di tutti gli altri. È in questa riduzione a un corpo, a un punto di vista, a una biografia, a un’individualità che viene veicolata tramite l’industria dell’entertainment quella specifica traduzione della complessità dei nessi causali sociali e politici nel linguaggio della morale, della psicologia e dell’individuo. Althusser la chiamava ideologia, proprio perché è nell’ideologia che la struttura astratta dei rapporti di classe viene “vista” nella forma empirica dei rapporti tra gli individui: dove ciò che conta sono le scelte e le emozioni, il coraggio e il senso di colpa, il successo e la sconfitta. È questo che rende il cinema, tra tutte le arti, quella più efficacemente ideologica. Perché tutto quello che vediamo è l’immediato della vita. Senza riuscire a comprendere che quello che la organizza e la disciplina è invece invisibile agli occhi.

L’operazione fatta nei primi anni Duemila dalla serie TV The Wire di David Simon – la serie che insieme ai Sopranos ha cambiato la serialità televisiva degli ultimi 10-15 anni – è stata davvero rivoluzionaria non solo per un’infinità di ragioni tecniche e narratologiche ma anche perché è stata capace di “aprire” il linguaggio dell’immediatezza della città – quello che si vede andando in giro per le sue strade – all’invisibilità dei suoi rapporti di potere. Il commercio della droga a Baltimora in The Wire non è solo un modo per raccontare il microcosmo della criminalità di strada come è stato fatto da un’infinità di noir, ma il filo rosso per vedere i legami invisibili che tessono le diseguaglianze sociali della città: il piccolo spacciatore di quartiere, i poliziotti di strada, quelli investigativi, ma anche gli speculatori immobiliari, quelli che riciclano il denaro delle attività criminali e lo immettono nelle imprese della città, i politici, i sindacati, il giornali locali, il sistema delle scuole pubbliche, i grandi capitalisti ecc. sono tutti legati in un certo senso al destino di questa merce e da mille altri legami economici e sociali che ne conseguono. Le posizioni sociali di tutti questi attori vengono rinegoziate e ridefinite a partire da questi nessi invisibili. La città, che a prima vista ci appare così molteplice e così frammentata è in realtà una: ed è la stessa che lega gli uffici delle imprese finanziare del centro e l’ultimo degli spacciatori adolescenti che vive nei quartieri popolari. Anche se magari nessuno dei due passerà mai accanto all’altro – cinematograficamente, non faranno mai parte della stessa immagine – in realtà sono parte della stessa relazione capitalistica. È questo il vero oggetto dei progetti televisivi di David Simon: come appaiono e come vengono dissimulate le relazioni capitalistiche del mondo contemporaneo?

Negli anni The Wire è diventata un terreno canonico con cui si sono confrontate un’enorme quantità di riflessioni sui conflitti urbani, razziali, sulla war on drugs e sul declino della working class americana (tra gli altri ci hanno scritto Fredric Jameson, Alberto Toscano, Jason Read) e continua, anche a distanza di quasi 10 anni dalla messa in onda della sua ultima puntata, a essere un punto di riferimento imprescindibile per comprendere i rapporti di classe dell’America contemporanea. Tuttavia David Simon non si è fermato a The Wire e dopo Treme, una serie sulla New Orleans post-Katrina (4 stagioni dal 2010 al 2013) e la mini-serie Show Me a Hero del 2015 sulla politica locale e i conflitti razziali di Yonkers, vicino a Manhattan, è ritornato a collaborare con lo scrittore di noir George Pelecanos per una nuova serie di cui sono appena andate in onda le prime due puntate su HBO all’inizio di settembre (e che è già stata rinnovata per una seconda stagione), ma la cui ambizione non è minore di quello che aveva fatto con The Wire.

The Deuce, questo il nome della nuova serie, si concentra sullo sviluppo del mercato del sesso attorno alla famigerata 42nd Street di New York, la strada accanto a Times Square dove negli anni Settanta proliferava ogni possibile attività legata allo sfruttamento della prostituzione e alla nascente industria della pornografia, allora ancora in una fase di interstizio tra l’illegalità e la legalità. Ma nel microcosmo di papponi, di prostitute alle prime alle prime armi e appena arrivate a New York o già in parabola discendente, dei gay bar e dei peep shows semi-legali, dei cinema porno e dei grindhouse, si fanno largo tutte le politiche di riqualificazione urbana dell’area e di ridefinizione dei rapporti capitalistici a essa legata, che naturalmente in questo caso passano anche per una ridefinizione dei rapporti di genere. Perché come ha detto lo stesso Simon, se The Wire parlando del mercato della criminalità legato alla droga a Baltimora finiva per essere una riflessione sui rapporti razziali nell’America di oggi, The Deuce parlando del mercato della prostituzione e della pornografia di Times Square finisce per essere una riflessione sui rapporti di potere tra i sessi (e Simon non manca di notare come tutto questo avvenga all’alba dell’elezione di un Presidente che si fa vanto della propria misoginia e del proprio sessismo).

Per ora dopo la messa in onda di sole due puntate (ma la prima era di 90 minuti e la seconda di 60), delle otto in programma, non è possibile prevedere come si svilupperà la serie (e vista l’importanza della figura di David Simon non mancheremo di farne un bilancio a fine stagione su Cult), ma ci sono già tutti gli ingredienti che avevano reso interessante The Wire. David Simon ha infatti una capacità impressionante non soltanto di scrittura di dialoghi – concettuali densi eppure incredibilmente naturali allo stesso tempo – ma soprattutto di riuscire a dare una rappresentazione complessa e sfaccettata di tutti gli attori sociali che sono coinvolti. Anche se siamo nel sottobosco dello sfruttamento urbano della prostituzione tutti i protagonisti si muovono e parlano come se fossero degli imprenditori: il magnaccia C.C. nel suo modo di sfruttare l’ingenuità della nuova arrivata Lori dal Minnesota per la valorizzazione del proprio capitale di prostitute; il barista Vinnie Martino (interpretato da James Franco) che utilizzando il capitale prestatogli dalla mafia locale inizia inconsapevolmente a far da antesignano al rilancio immobiliare dell’area; la prostituta Candy, che volendo rimanere in strada senza un protettore capisce che il nascente mercato degli 8mm a luci rosse può essere un’opzione molto più sicura e molto più redditizia. E attorno a loro mille altri personaggi di contorno, come i poliziotti che con stanca ritualità portano in prigione per una notte le prostitute di strada, una studentessa di buona famiglia dell’NYU che lascia l’università per andare a vivere a Times Square o Darlene, un’ingenua prostituta di colore che si è fatta fregare divenendo protagonista di alcuni filmini pornografici dai quali non ha ricevuto una lira (e che invece hanno un grande mercato attorno a Times Square). Questa molteplicità di personaggi li vediamo nei loro desideri, nelle loro attività, nelle differenti condizioni soggettive che li caratterizzano, che sono però sempre inserite all’interno della big picture del mercato, delle relazioni economiche d’affari, nonché della violenza di protettori, poliziotti di strada ma anche mobster della mafia italiana o usurai.

La grande lezione di The Deuce insomma per ora è quella che viene messa in bocca a uno dei boss mafiosi italiani che passeggiando per 42nd Street dice: “qui c’è puzza di acqua stagnante: è stata ferma per troppo tempo. Dobbiamo rimetterla in movimento, dobbiamo far ripartire le cose”. Il capitalismo non è mai una fotografia statica, ma è sempre una dinamica di forze e anche di conflitti che sono sempre in movimento. Il valore non è mai solamente un calcolo astratto, ma la morfologia di un’azione. Per riuscire a vederlo, dobbiamo sempre guardarlo in atto, cercando di coglierlo ad un tempo nella complessità molteplice dei suoi mille punti di vista ma anche nell’unicità della sua logica di sfruttamento. Le due cose nello stesso momento. O meglio, le due cose nella stessa immagine.