EDITORIALE

Il Grande Reset

Ci hanno fatto credere che la linea di frattura o il problema cruciale nella società italiana fosse il green pass, ma la vera partita si gioca sulla ristrutturazione del sistema economico condotta (in gran silenzio) con il Prrn

The Great Reset non è il complotto apocalittico tirato fuori dal cestino della carta straccia di Davos, ma è il processo più o meno intenzionale eppure assai performativo con cui poco a poco, nell’ultimo anno, ci stanno resettando il cervello. Lo hanno fatto inducendoci a credere, a livello di massa, che la linea di frattura o il problema cruciale nella società italiana fosse il green pass, presentato alternativamente come il Bene, la prima emanazione del sommo Draghi, il katechon di Covid-19, o la dittatura sanitaria, l’avvento dello stato d’eccezione permanente e la fine dello stato di diritto.

Certo, la pandemia Covid è stato l’evento più rilevante e minaccioso dell’ultimo biennio su scala mondiale ed è ben lungi dall’essersi risolta e il green pass è l’utile certificazione dell’avvenuta vaccinazione, che per ora (e speriamo nel medio periodo) offre una buona copertura parziale dall’infezione e trasmissione virale. Degli oppositori del green pass non vale neppure la pena parlare. Tuttavia non possiamo ignorare che l’uso che si fa di quel QR-code e della stessa (sacrosanta) campagna vaccinale vada sottoposto a un’attenta valutazione.

Il governo Draghi è stato installato con clangore di trombe e squittio di leccate con due obiettivi dichiarati. Portare a casa i soldi del Next Generation EU (in Italia Recovery Fund, pronunciato correntemente faund, stropicciando le dita) e sconfiggere il virus.

Due battaglie iniziate dal governo Conte 2 ma che si è ritenuto più sicuro affidare all’ex presidente della Bce, non tanto per qualche pasticcio del predecessore quanto per la garanzia di una salda gestione neoliberale. Sul Piano di ripresa e resilienza (cioè la spendita dei soldi) è calato il buio più fitto, mentre per farne approvare in sede europea l’implementazione serve una cascata di “riforme” per decreto-legge e fiducia a ripetizione con un sottinteso indiscutibile: o votate o i soldi non arrivano e non arrivano a nessuno.

(Renato Biagini, da commons.wikimedia.org)

Altro che trickle down, sgocciolamento, non c’è festa patronale o partito o impresa che vedrà più il becco di un quattrino. Offerta non rifiutabile e infatti non solo latita il Parlamento (già da tempo svuotato con simili mezzucci, ma stavolta allettato con un appetitoso ciambellone e non terrorizzato con la minaccia di tagli e definanziamenti), ma si sono sciolti anche i partiti della larghissima maggioranza. Destino in cui incorrerà anche l’opposizione di Meloni, il giorno che volesse governare sul serio e non limitarsi a raccogliere gli scontenti del culto messianico di Draghi – scontenti che ci sono sempre, perché gli uomini e le donne sono avide e malvagie e non gli sta mai bene niente.

Per tenere buono il gregge, privato di ogni rappresentanza o meglio dotato di rappresentanze non conflittuali né con Draghi né fra loro, occorreva però montare a lato un teatrino di scontro, dove dividersi e avere l’apparenza di una dialettica.

Il Grande Reset è consistito appunto nel farci discutere su cose serie ma sopravalutate (se isolate dal resto e oltre una fase emergenziale), trascurando altre questioni altrettanto serie ma fornite di una carica emozionale minore, ovvero non sostenute da lotte di massa, oggettivamente calate nell’ultimo decennio e infine ostacolate dalla pandemia, dal lockdown e dalle giuste precauzioni sanitarie. Quando alcuni nodi sono venuti al pettine (lo sblocco dei licenziamenti) è stato abbastanza facile azzittire i sindacati, anche se poi, quando gli “esuberi” sono cominciati nel modo più brutale (Whirpool, Gkn e ora vedremo Ita) le organizzazioni confederali sono state costrette ad accodarsi al sindacalismo di base e all’iniziativa operaia.

Il riflesso sulle politiche governative è stato finora debole, nel senso che i timidi tentativi di contenere il fenomeno delle delocalizzazioni (che incide su alcuni licenziamenti di massa ma non su tutti, per esempio non c’entra nulla con la vicenda ex Alitalia e altre) sonu stato stoppati dall’asse Draghi-Giorgetti. La libertà d’impresa, la patrimoniale e le rendite catastali non si toccano (e Letta abbozza).

Allo stesso tempo nessuna linea politica progressista è emersa finora sulla riunificazione e potenziamento degli ammortizzatori sociali – anzi si moltiplicano le iniziative per smantellare quello che c’à già – e laddove si erano fatti dei passi o si erano elaborati progetti di superamento della precarietà (Decreto Dignità e progetti di salario minimo) è subentrato un cupo silenzio.

Va detto che, almeno sul salario minimo, cui dedichiamo un altro articolo, pesa gravemente la riluttanza del sindacato, che solo negli ultimi giorni ha preso in considerazione, a mezza bocca, una misura che sta passando ovunque a livello europeo (Spagna, Francia, Germania) e perfino negli Usa di Biden. Ci spiegherà mai Landini perché non va bene richiedere, a inflazione crescente, 9 o 10 euro/ora, un po’ meno dei 13 promessi da Biden e dai 12 richiesti dal socialdemocratico Olaf Scholz, che su questo sta impostando una battaglia elettorale vittoriosa in Germania? E perché le confederazioni difendono con i denti il monopolio della rappresentanza, quando tutte le iniziative salariali e occupazionali vincenti – vedi anche i rider – riescono grazie al sindacalismo di base?

In tutti i comparti applicativi del Pnrr, per quanto si è in grado di decifrare, Draghi ha fatto passare senza troppe resistenze una linea neoliberale adattata alla crisi pandemica, cioè integrata in una spesa moderata di sostegno alla domanda e non sull’austerità post-2008, chiudendo però tutte le falle che, in modo velleitario, il governo Conte aveva aperto per riequilibrare gli interessi del grande capitale rispetto a quelli minori o di sezioni di lavoratori. Il programma esposto dal presidente Inps Tridico è il canto del cigno di quella politica economica, che aveva avuto qualche consenso anche dalla sinistra del Pd in era pre-Draghi.

Che ci volete fare, la Confindustria ha detto bene: Draghi è l’uomo della necessità (standing ovation). Che poi imponga le mani e guarisca la scrofola è un dettaglio pittoresco.

Ma il cambiamento più grosso e strutturale ha riguardato o partiti, che già non stavano bene da tempo. Infatti la post-democrazia o crisi endemica della democrazia sostituita da forme illiberali di governance nasce, o almeno in Italia ha un punto di svolte decisivo, con l’agonia dei partiti che della Costituzione postbellica erano l’infrastruttura portante. Il governo Draghi «senza formula politica» (dichiarò papale papale Mattarella insediandolo) nasceva sospendendo la funzione di quei partiti (già compromessa) e la loro reciproca ostilità, che invece ancora perdurava più per bellicosità mediatica che come alternativa programmatica.

(Niccolò Caranti, da commons.wikimedia.org)

C’era un aggregato informe ma ribollente, il M5S, che doveva essere ridimensionato e normalizzato – e lo fu. Il Pd, nel suo estremismo europeista si configurava da naturale “partito di Draghi” e l’operazione Letta funzionò come quella di Conte per il M5S. Fin qui tutto semplice, bastava la razionalità politica e sanitaria per innestare la logistica di Draghi sul sostegno convinto del Pd e, a seguire di malavoglia, dei parlamentari e ministri pentastellati. Il problema non era se fare il lockdown e, trovati i vaccini, la vaccinazione di massa, quello era semplice buon senso (che tuttavia non è equamente distribuito fra gli umani, neppure a sinistra), ma se rinunciare a tutte le altre battaglie per condurre quella unitaria contro il “nemico” armato di proteina spike.

A quel punto si registrava già una forte torsione ideologica. Per dirla con un recentissimo articolo del “Guardian”, «i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra parlano di sicurezza e stabilità mentre quelli di destra parlano di liberazione e rivolta». Ok.

Restava il fronte sovranista e complottista, guidato da Salvini, dentro il governo, e da Meloni, fuori. La Lega era paralizzata dai vincoli europei e dal crollo del sostegno oltre Atlantico di Trump, tuttavia esprimeva un blocco di interessi industriali fondamentale per “mettere a terra” i grandi gruppi finanziari internazionali di cui Draghi è espressione o garante (mettetela come volete). Il più recente passaggio è stato decisivo. Solo Letta poteva illudersi di diventare l’azionista di riferimento di Draghi con la caduta di Salvini per i suoi errori strategici.

Molto abilmente Draghi, sapendo che Letta comunque sarebbe venuto dietro, inchiodato al suo 19 e rotti per cento dei sondaggi e a un partito balcanizzato e pieno di infiltrati renziani, ha scelto di fare andare in minoranza Salvini dentro la Lega e di costruire un asse “produttivistico” con Giorgetti e i governatori delle zone ricche del Paese. A questo punto – con la riserva che bisognerà pur trovare una soluzione di garanzie nell’elezione del Presidente della Repubblica – i giochi sono fatti e l’asse di governo è pronto. Solo che l’azionista di riferimento è Giorgetti. Con un piccolo spostamento a sinistra della Lega (cioè di semplice buonsenso pandemico) si è spostato a destra tutto l’equilibrio di governo.

Draghi l’ha scandito con la proposta di un «patto economico, produttivo e sociale del Paese», che ponga rimedio al deterioramento «delle relazioni industriali sul finire degli anni ’60» – cioè il maledetto ‘68 e l’autunno caldo del ’69.

Inoltre questo patto è fra le “parti sociali”, cioè scavalca perfino i partiti della sua maggioranza e questo va molte oltre il patto Ciampi del 1993, quando i grandi partiti di massa erano ancora in salute.

Letta, invece vede in Draghi un nuovo Ciampi e vaneggia di un nuovo patto concertativo su sviluppo e lavoro. Essendo adulti e vaccinati non ci scandalizziamo per il suo proclamare il Pd “partito del lavoro e dell’impresa”, vorremmo solo obiettare che non rappresenta più il primo ed è wishful thinking che l’impresa si riconosca in esso. Quando si comincia a pensare a un prolungamento del governo taumaturgico dopo il 2023, si prefigura In pratica la fine del Pd persino come gruppo di pressione e stakeholder dell’esecutivo. Che non è l’apocalisse evocata da certi intellettuali di sinistra che pensano per eoni, ma è un evento che chiude la piccola fase storica di cui siamo testimoni e di cui la generazione trap manco ha fatto in tempo ad accorgersi.

L’agenda Draghi ha disattivato tutti i buoni propositi della sinistra immaginaria, moderata e radicale e i cattivi propositi dei sovranisti. Quanto possa sanare le contraddizioni manifestate dal neoliberismo nel 2008 e nell’incontro con la pandemia è tutto da vedere.

Il fallimento di quel progetto è intrinseco, per fortuna, non dipende dalla resistenza dei suoi avversari attuali, anche se si manifesterà soltanto con il sorgere di nuove resistenza Il problema e oseremmo dire il compito di qualsiasi oppresso e subalterno è costruire un’agenda alternativa.

(da archivio)

Qualche segno interessante si sta manifestando ed è legato agli effetti economici salariali e occupazionali della crisi covidica, alla ristrutturazione del lavoro informale, all’indebolimento dell’egemonismo Usa, all’insostenibilità dell’assetto ecologico, alla decadenza delle relazioni patriarcali e del razzismo che interagiscono con le contraddizioni dello sviluppo e del comando.

Segni prognostici corposi sono stati per un verso il grande corteo operaio di Firenze – il maggiore nell’ultimo quinquennio –, per l’altro il successo impressionante della ripresa delle manifestazioni dei Fridays for Future post-pandemia. Altro che le chiassate bavose dei no-vax e il sex-appeal nei comizi di Conte di cui si diletta la nostra stampa mainstream e l’arrendevole TV.

Immagine di copertina: rielaborazione grafica da commons.wikimedia.org