Il fotografo che dipinge

Luigi Ghirri al MAXXI di Roma.

Affermare che Luigi Ghirri sia più un pittore che un fotografo non è certo un paradosso. Osservando senza pregiudizi di genere le immagini da lui prodotte nella sua breve, anche se straordinariamente intensa attività, non è infatti difficile constatare quanto esse siano pervase da un senso di idealizzazione. Una componente iconica, questa, che è talmente forte da rendere le cose fotografate altrettante presenze fantastiche, proiezioni immateriali di una intenzionalità poetica che si fa pura figurazione. Per comprendere meglio la contraddizione creativa che attraversa l’intera l’opera ghirriana occorre però fare un piccolo passo indietro. È ormai chiaro a chiunque sia interessato alla fotografia che questa non effettua un calco della realtà, né una sua semplice interpretazione. Essa crea una realtà sua propria che utilizza il mondo reale come materiale da trasfigurare, spostandolo su altri orizzonti di senso. Ma se questo è vero è anche vero che la realtà rimane nella fotografia un antipolo necessario, il cui compito è quello di misurare la distanza tra la realtà stessa e lo suo spostamento nella dimensione della rappresentazione. Una dimensione libera fino allo stravolgimento totale della realtà nonché alla sua falsificazione. In altre parole la trasfigurazione di cui si è detto deve sempre confrontarsi con il puro dato di fatto. In effetti la dialettica tra il realismo e le sue numerose alternative è un elemento sul quale si fonda la legalità specifica della fotografia. Come tale questa dialettica va considerata come un fattore ineliminabile della ricerca che i fotografi svolgono. Un fattore il quale, se può ovviamente essere trascritto in una pluralità di modi, non deve mai essere eliminato, pena la perdita irrimediabile del significato che il mezzo esprime prima ancora di essere utilizzato. La costituzionale ambiguità della fotografia che è stata sinteticamente esposta, una dualità tematica sulla quale, tra molti altri, Roland Barthes e Rosalind Krauss hanno scritto pagine memorabili, è vissuta da ciascun autore in modo diverso. Alcuni – si pensi a Joel Meyerowitz o a Gabriele Basilico – tendono ad avvicinare la realtà e la sua ri-creazione, riuscendo anche a conferire al loro lavoro una finalità politico-ideologica. Altri, come ad esempio Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Mimmo Jodice, collocano l’antipolo a media distanza, in modo da sollecitare nell’osservatore delle loro immagini un confronto problematico tra le opposte polarità del reale e del suo simulacro. Luigi Ghirri ha vissuto in modo estremo questa dualità, aumentando al massimo l’antipolarità tra il vero e il suo doppio.

La vasta rassegna di opere del maestro di Scandiano, che si può visitare in questi giorni al MAXXI, è da questo punto di vista esemplare. Luigi Ghirri pittore si afferma nella sua indiscutibile e sorprendente originalità. La cose da lui rappresentate perdono la loro sostanza volumetrica disfacendosi liquidamente nell’atmosfera. I suoi colori diafani hanno una pastosità che rinvia alla tela dipinta. La luce diventa una sostanza che non colpisce gli oggetti da fuori ma viene emanata dal loro interno. Inoltre tali oggetti – cose, monumenti, muri, alberi, città – non sembrano poggiare sul suolo ma si sospendono in una sorta di vuoto. Sottrarre alle cose il loro appoggio a terra comporta il ribaltamento concettuale del cielo, che in qualche modo riesce ad avvolgere completamente le cose stesse, che appaiono così senza peso. Gli stessi paesaggi si mettono in competizione con i paesaggi ver. Guardati con occhi da pittore essi si riconoscono come composizioni straniate, scene fisse , parafrasando Aldo Rossi, dense di memorie classiche, che forse sono state attivate in Luigi Ghirri dal sodalizio con il suo scopritore Vittorio Savi. Per questo le fotografie di paesaggio che si possono ammirare al MAXXI sono, in verità, fotografie di quadri virtuali di paesaggio. La tonalità metafisica, di cui molti esegeti dell’opera ghirriana hanno parlato è indubbiamente una componente importante di questo universo iconico ma sotto di essa si avverte una ispirazione forse più determinante e duratura. Si tratta di una tessitura simbolista la quale trasmette a ogni elemento che compare nell’immagine una valenza lessicale che rinvia alla altre, evocando un misterioso sistema di corrispondenze. La fotografia dello studio di Giorgio Morandi è da questo punto di vista una sorta di vero e proprio manifesto. In una sorta di Anello di Moebius logico-poetico essa è un ritratto degli oggetti dell’artista bolognese che attraverso lo sguardo dell’osservatore si trasforma in un quadro morandiano. Occorre aggiungere a queste considerazioni la presenza nella poetica ghirriana di echi importanti delle magiche finzioni felliniane, così come di lontane risonanze tematiche della pop art, che era stata a sua volta l’esito di una sostanziale negazione della multiforme realtà dell’universo consumistico. Resta da chiedersi se l’essere Luigi Ghirri un pittore che ha usato la fotografia per dipingere sia l’esito di una volontà estetizzante che in qualche modo si è sottratta all’esigenza di documentare comunque il vero, o se la scelta di una pittura fotografica sia uno degli strumenti più efficaci e profondi per ampliare l’idea stessa di realtà, obbligandola ad esempio a dimostrare la sua probabile e angosciosa inconsistenza.