OPINIONI

Il cyberflâneur vive e (non sempre) lotta insieme a noi

Bel lungi dallo scomparire completamente, il flâneur si è trasformato nell’economia fluida di sociall-network e app in merce lui stesso. Emerge così, nel web delle grandi corporazioni, la necessità da parte di tutt* gli/le schiav* 4.0 di riscoprire il senso originario della non partecipazione alla produzione

Ma ve l’immaginate il flâneur di Baudelaire e Benjamin vagare durante il lockdown con mascherina in faccia e in tasca autocertificazione e amuchina spray? O anche, dopo le riaperture, accedere agli spettacoli e ai trasporti con green pass e QR-code?

Certo che no, eppure guardiamoci bene di constare la morte definitiva del flâneur, certo da mo’ che non stava bene, dal declino dei Grandi Magazzini e dei luoghi di passeggio e svago borghese, già nei centri commerciali e nella movida si vedeva che non stava proprio a suo agio. Ma la Covid-19 non gli ha inferto il colpo di grazia, piuttosto ha completato la sua metamorfosi in altra figura.

Riconoscere la sua after life è, anzi, affare di importanza, proprio perché è diventato un personaggio concettuale di massa, perché siamo diventati tutti flâneur.

Facciamo un passo indietro. Il flâneur non è un passeggiatore solitario, come quello di Rousseau che predilige i luoghi aperti deserti, ma un passeggiatore solitario che vaga dentro la folla cittadina, nei luoghi di commercio e spettacolo che essa frequenta.

Preferisce guardare e confrontare la merce vetrinizzata più che comprare, ma incarna lo spirito stesso del commercio, è l’osservatore del mercato, l’ispettore del capitalismo inviato nel regno del consumatore.

Il suo ritmo lo rende più adatto ai passages multinegozi che ai grandi magazzini e, anzi, le trasformazioni del commercio ne inducono una prima vistosa muta: nasce l’uomo-sandwich che porta in giro la pubblicità, flâneur salariato (W. Benjamin, Passagen-Werk, M 172, 2, e m 4,2) – un paradosso per l’ozioso dilettante che ostentava la propria estraneità alla divisione del lavoro e alla produzione laboriosa, pur partecipando e facendosi emblema della circolazione del capitale.

Adesso la sua mobilità è messa a valore in diretta e la sua figura è virtualmente massificabile, non è più vocazione dandystica ma oggetto di assunzione, come un manovale o un bracciante a giornata.

Il flâneur, in effetti, oltre a non partecipare alla produzione, stava ai margini della circolazione del valore, con la stessa postura complementare e parassitaria della prostituta e del giocatore: un virtuoso dell’immedesimazione nella merce e nel suo valore di scambio, per quanto sia assai frugale nell’acquistarla per il suo valore d’uso.

Al pari del turista, si appropriava della città smarrendosi in essa, esperendola come un labirinto che tuttavia lo conduce irresistibilmente alla merce: entrambi (il turista più) sono consumatori effettivi, ma soprattutto allegorici: emblemi della funzione terziaria della città in tempi di industrializzazione fordista.

Foto di Mark Belokopytov da Flickr

Per questo il divenir-salariato dell’uomo-sandwich si colloca a un punto di svolta del commercio materiale, la sua concentrazione in grandi magazzini che smerciano di tutto e vi associano spettacolo e ristorazione. Il flâneur segue così l’evoluzione interna del commercio fisico, dalla specializzazione al generalismo nella forma del grande magazzino (Harrods, Galérie Lafayette, Wertheim, Gum) o del mall o outlet dove si succedono una accanto all’altra le botteghe specializzate e i brand.

Cosa avverrà con l’e-commerce, che cresce sempre più veloce e fa il suo balzo di tigre con la pandemia?

Il lockdown ha scoraggiato gli assembramenti politici e commerciali, moltiplicando offerta, selezione e ordinazioni telematiche e sostituendo alla formazione e discussione in presenza la nefasta Dad e gli insopportabili webinar. Il “ritorno alla normalità” vale solo per le folle ludiche e per la ristorazione, le conseguenze politico-culturali al momento sono ancora oscure; la sfera del resto del consumo si sgancia dal paesaggio cittadino e migra in rete. L’utente web è il messaggero del corpo reale nel mondo astratto delle piattaforme e delle loro logiche estrattive.

Il cambiamento tendenziale dello shopping si tira dietro quello del flâneur ma con uno slittamento rilevante di status. Egli infatti, per un verso, abbandona la dimensione materiale del passeggiare e interloquire, per l’altro diventa egli stesso merce da cui estrarre valore.

Stare sui social e usufruirne aggratis, condividere in amichevole fluidità (frictionless sharing) immagini, musiche, testi e applicazioni, dedicarsi freneticamente al searching significa che i propri dati sono il prezzo invisibile da pagare (è lui la merce, come è stato ripetuto all’infinito) e che così si alimenta senza tregua la macchina con opinioni, foto, messaggi, consensi, repost, autodescrizione di preferenze e occasionali acquisti in rete e abbonamenti.

Ognuno è uomo-sandwich di se stesso, oltre ad aumentare il numero degli utenti di una piattaforma, accrescendone il valore in borsa e incrementandone le sinergie (tra Facebook e Amazon, fra Instagram e agenzie turistiche, fra canali di messaggeria e fornitura dei più vari servizi legali o illegali).

Deterritorializzazione delle relazioni e smaterializzazione del denaro non bastano a definire il passaggio da flâneur a cyberflâneur sul web: ciò avviene nella forma specifica delle piattaforme che associano algoritmi e imponenti data base forniti dall’utente – la vera miniera post-fordista.

Non è quindi un generico surfare in rete come si vagabondava per passages e altre attrazioni, ma un assiduo sottoporsi all’estrazione di valore, il modo compiuto di farsi prosumer digitale impollinando, nel chattare e fare zapping fra siti, tutti i fiori di gestori e clienti.

La profilazione per cookies è una doccia fredda sulle illusioni di libertà del cyberflâneur (da questa visuale E. Morozov è inoppugnabile) ma corrisponde ai vincoli che l’organizzazione capitalistica della produzione e della distribuzione imponeva a quello tradizionale e che solo un pregiudizio romantico potrebbe farci dimenticare. Cade, semmai, l’apparenza di “improduttività” che ne faceva una tacita protesta contro il culto borghese del lavoro e lascia invece intravedere un allargamento del concetto di lavoro produttivo tipico del post-fordismo.

È vero che Facebook ha fatto per Internet quanto Haussmann aveva inflitto alla vecchia Parigi dei passages (ancora Morozov), ma il flâneur era appunto nato in quel contesto, fra riluttanza e nostalgia, e il suo stravagante individualismo era complementare alla dilagante massificazione: anima e tecnicizzazione, interiorità e denaro coabitavano già coniugalmente nella Großstadt di Simmel.

Quindi c’è evoluzione, non salto contrappositivo fra il pirata del primo web (o il libertarian, che ne è oggi squallido epigono) e la pseudo-comunità di Facebook con cuoricini, pet e like. Sono terreni di scontro dialettico (dentro le piattaforme esistenti, senza escludere la possibilità di crearne altre autogestite) che continuano a dipendere da un “fuori” analogico, dove l’inaspettato e l’eccedenza del possibile sono fattori reali.

Oggi sul web e sulle piattaforme sono presenti tanto i “liberi” utenti che contribuiscono ai profitti aziendali pensando di divertirsi, informarsi e influenza politica e costume (in qualche misura effettivamente divertendosi, informandosi e influenzando, nel vuoto crescente e forse irreversibile di altre forme di apprendimento e di organizzazione politica), quanto le formichine schiave che, in rete, da casa, raccolgono e classificano i dati e le immagini, preparando il materiale per gli algoritmi delle piattaforme.

Foto di Jaime Wilson da Flickr

Questo lavoro invisibile e frammentato (nonché sottoretribuito) è stato battezzato da Amazon “mechanical Turk”. Anche qui Benjamin aveva visto lontano, ma con altre intenzioni. Nella prima delle Tesi di filosofia della storia l’invisibile cervello dell’automa era la teologia messianica, che doveva guidare il braccio pesante del materialismo storico. Nelle lacune della lotta di classe Amazon si è impadronita della metafora. Ma non è detto che, contrattando gli algoritmi, il prezzo e gli orari di lavoro, i rider e tutt* gli/le schiav* 4.0 non riscoprano il senso originario del discorso.

In copertina, particolare di The Church of Saint-Philippe-du-Roule, Paris (Jean Béraud, 1977).

Le altre immagini a corredo del testo sono Le Flâneur Parisien (Theóphile Steinlen, prima del 1923) e la copertina del “St. Andrew’s College Review” del Natale 1906.