ROMA

Il bambino rubato

Storia di una madre rom condannata dai tribunali a rinunciare al suo bambino. Colpevole di non aver seguito i canoni stabiliti arbitrariamente dalle istituzioni che le tolgono il figlio e la marchiano a fuoco con il segno del pregiudizio. Tutto questo è successo a Roma

La storia che raccontiamo non è un film né un romanzo. Non ha a che fare con la Pas (sindrome da alienazione parentale) che sta strappando molti bambini alle famiglie e impazza nei tribunali dei minori italiani importata e impugnata come una clava direttamente dagli Stati Uniti. Né ci interessa stabilire se i giudici hanno deciso per il “bene del minore”, il piccolo Daniele, sette anni, accoltellato a morte due giorni fa mentre era stato affidato al padre agli arresti domiciliari perché accusato di tentato omicidio di un collega.

Non vogliamo fare paragoni. Non vogliamo tagliare salomonicamente nessun bambino a metà. Vogliamo denunciare un atto di pregiudizio razziale, un rapimento di un neonato da parte delle istituzioni preposte a causa di una lettera scarlatta impressa sulla pelle della madre, colpevole di essere rom.

Succede a Roma e tutto comincia poco più di un anno fa.

Zingara (anche se lei preferisce farsi chiamare Lisa), è l’ultima di nove figli e la madre, non potendo o non volendo accudirla, la affida a un istituto nel quale la bambina trascorre parecchi anni fino all’adolescenza. A quel punto il padre, uscito di prigione, se la riprende e la porta con sé al campo della Romanina nel quale la ragazza non vuole e non sa vivere. E deve sottostare alle regole del gruppo dei suoi coetanei che le impongono di addossarsi le colpe (lei è minorenne) dei furti dei motorini compiuti dai più grandi.

Viene perciò tenuta d’occhio dai servizi sociali che più volte segnalano comportamenti ribelli e scarso livello intellettivo fino a che arriva la prima diagnosi: «borderline, disturbi della personalità»…

Dopo qualche anno di turbolenze, Lisa incontra un uomo più grande di lei. È una guardia giurata, un brav’uomo che la porta via dal campo e insieme vanno a vivere in una casa di proprietà di Fabio (questo il nome dell’uomo) a Ciampino.

Tutto sembra andare liscio fino a quando Lisa rimane incinta, cosa che spontaneamente segnala ai servizi sociali che la seguono. I quali, prima del parto avvertono l’ospedale di non restituire il bambino alla madre perché potenzialmente «pericolosa per sé e per gli altri» né al padre. Un esempio della pericolosità di Lisa? Aver minacciato una assistente sociale di farle il malocchio.

Difatti, quando nasce Alessandro, che porta il cognome del padre, i sanitari non lo restituiscono alla madre ma le consentono di allattarlo tutti i giorni cosa che la donna fa con dedizione amorevole (come risulta dal rapporto dell’ospedale).

Nel frattempo, le sollecite assistenti sociali trovano «una coppietta tanto carina» e decidono di dare il piccolo in preadozione, ben prima che il tribunale si sia pronunciato.

Intanto, il tribunale stabilisce che Fabio non può detenere con regolare porto d’armi una pistola perché convive con una donna «pericolosa», e, poiché per lui l’arma è uno strumento di lavoro indispensabile, viene licenziato.

In prima istanza il tribunale conferma l’allontanamento del bambino e arriva qualche settimana fa la conferma in appello. Non ci sono gli elementi per la cassazione, i genitori si disperano perché non capiscono cosa stia succedendo. Sanno solo che da quel maledetto giorno in cui il bimbo viene dimesso dall’ospedale non lo hanno più visto.

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