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MONDO

Hong Kong: pandemia, proteste e rivalità fra grandi potenze

A Hong Kong il 24 maggio una grande manifestazione contro la legge sulla sicurezza nazionale ha visto la polizia lanciare lacrimogeni e arrestare 180 persone. In questo articolo una ricostruzione di come le misure di contrasto alla pandemia a Hong Kong siano state utilizzate per limitare le forme di protesta, in un contesto geopolitico segnato dal crollo delle relazioni tra Cina e Stati Uniti

L’articolo qui tradotto è stato pubblicato prima che Pechino decidesse di alzare il livello dello scontro agendo come un vero e proprio governo coloniale. La legge che dal 2003 il governo di Hong Kong non riesce a far passare, perché è una legge che con la scusa della minaccia esterna e con la retorica balorda delle sovranità giustificherebbe il ridimensionamento della società ai voleri del Partito Comunista Cinese, al capitalismo a caratteristiche cinesi, viene ora imposta da Pechino, dal centro di un nuovo impero i cui contorni sono ormai evidenti.

Proprio perché siamo di fronte a una logica imperiale, non è possibile sbarazzarsi del movimento di Hong Kong perché sono comparse alcune bandiere statunitensi e perché al suo interno vi è una componente, minoritaria, cosiddetta localista (bentu). Questo movimento non riguarda solo la protezione degli interessi dell’hub finanziario, è invece una lotta che avviene sul crinale ibrido delle sovranità graduate che hanno strutturato la globalizzazione e le diverse versioni del neoliberismo. 

In maniera estremamente schematica, la questione di Hong Kong e il suo movimento dovrebbero portarci ad articolare almeno due macro-dimensioni:

 1) i conflitti che avvengono ai confini dell’impero, dal laboratorio di sorveglianza etnica dello Xinjiang e del Tibet passando per Hong Hong e arrivando ai movimenti contrari all’estrazione neocoloniale, quindi anche alla presenza massiccia dello Stato cinese, come per esempio nelle Filippine.

2) i conflitti “interni”: le pratiche sviluppate dal movimento di Hong Kong nel quadro del diritto alla città (quanti solerti feticisti dello stato sovrano anti-USA hanno indagato le pratiche di condivisione che si sviluppavano durante le incredibili ore di battaglia nell’Università cinese di Hong Kong il 15 novembre scorso?) con scioperi, blocco delle lezioni, occupazione dell’aeroporto, risignificazione dei luoghi che rappresentano lo splendore del capitalismo come gli shopping mall di HK, le lotte per la cittadinanza dei migranti, in particolare delle badanti filippine e indonesiane; oltre il vetro opaco dell’ideologia e della Cina sovrana e della Hong Kong nativista, quali sono le linee che legano i subalterni e le classi medie in via di proletarizzazione di Hong Kong a quelle della Cina continentale?

No, non c’è da scegliere tra due imperi. Se qualcosa ci hanno insegnato i saperi e le pratiche che vanno sotto il nome di post-coloniale, è che bisogna abbandonare le essenze culturali. Le diverse versioni del capitalismo neoliberista non trovano affatto nella Cina un bastione anticapitalista e antimperialista. Fermarsi all’essenza vuol dire d’un tratto non vedere più i conflitti di classe, genere e razza. Sono questi che il Partito Comunista Cinese o Trump o i diversi dittatorelli sparsi per il mondo e i pagliacci nostrani non tollerano. La scelta è invece continuare a coltivare, formare e fomentare saperi e pratiche dal basso.

(nota del traduttore)

 

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La spirale discendente nelle relazioni fra USA e Cina con le reciproche accuse sulle responsabilità per la Covid-19, ha dato vita a preoccupazioni sull’entrata delle due nazioni nella versione del XXI secolo della Guerra Fredda. Se le cose stanno così, allora Hong Kong diventerà probabilmente un punto di rottura del conflitto. Nel mezzo della pandemia, i cui primi casi sono apparsi a Hong Kong nel gennaio 2020, il governo di Hong Kong ha avviato un giro di vite sulle opposizioni e ha chiarito a chi avrebbe organizzato le proteste che le manifestazioni avrebbero incontrato la forza brutale della polizia, cosa già vista nel corso delle marce e sit-in dell’anno appena passato.

Nello stesso tempo, i leader del Partito Comunista Cinese e i suoi rappresentanti a Hong Kong hanno fatto pressione sul governo locale per introdurre la controversa legge sulle “minacce alla sicurezza nazionale”.

Il Congresso degli Stati Uniti e l’amministrazione Trump avevano risposto alle proteste dello scorso anno facendo passare lo “Hong Kong Human Rights and Democracy Act”, che prevede sanzioni per chi viola i diritti umani a Hong Kong, e la possibile revoca dello status speciale di Hong Kong in merito al commercio (e ciò significherebbe che Hong Kong sarebbe trattata come le altre città cinesi riguardo alle politiche di scambio e investimento). C’è da aspettarsi che tutte e due le opzioni si realizzino se le proteste a Hong Kong riprenderanno forza e se le relazioni fra Stati Uniti e Cina peggioreranno su diversi fronti.

 

 

Le enormi manifestazioni di massa che hanno attirato l’attenzione del mondo nel 2019 non dovrebbero ripetersi uguali in termini di scala e durata, ma è ben ragionevole aspettarsi grandi marce e raduni (approvati o meno) nell’estate del 2020. Le elezioni per il Consiglio legislativo  si terranno a settembre, con la possibilità che ci siano violenze collegate alle elezioni. È ragionevole pensare che la polizia continuerà a usare le sue strategie di coercizione sulla folla dei manifestanti, con gas lacrimogeni, pallottole di gomma, o peggio. Proprio da poco (10-11 maggio) la polizia antisommossa ha bloccato dei pacifici manifestanti con lo spray al peperoncino in diversi centri commerciali, arrestandone circa 200, tra cui due studenti giornalisti di 12 e 16 anni.

 

Molti prevedono una nuova ondata di proteste nell’estate, ma queste si troveranno in un contesto globale cambiato dalla pandemia e dal crollo delle relazioni fra Stati Uniti e Cina. Le misure di controllo della pandemia adottate dal governo di Hong Kong potranno essere usate per dichiarare illegale ogni protesta e giustificare le misure di polizia contro i “raduni illegali”.

 

Il governo di Hong Kong, ovviamente col supporto di Pechino, sembra contare sull’opportunità offerta dalla pandemia per attaccare l’opposizione e usare la forza bruta contro ogni segnale di raduno di manifestanti nelle strade e negli spazi pubblici della città. Tale calcolo sembra basarsi sull’assunto per cui il resto del mondo, Stati Uniti compresi, sono affaccendati a sufficienza con la crisi della Covid-19 per interessarsi a ciò che accade a Hong Kong. Ma tale calcolo non mette in conto la crescente disaffezione degli americani per la Cina, una accesa campagna elettorale statunitense che prenderà di mira ogni elemento legato alla Cina e una tendenza a scivolare verso una nuova Guerra Fredda. In tale contesto, l’esibizione della brutalità poliziesca contro i dimostranti e la persecuzione delle opposizioni a Hong Kong potrebbero attirare l’attenzione globale e spingere gli Stati Uniti e altri governi a rispondere con le sanzioni o con altre misure.

 

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Mentre il governo di Hong Kong ha perso il proprio status formale coloniale col trasferimento della sovranità dall’Inghilterra alla Cina nel 1997, il governo della regione amministrativa speciale di Hong Kong (HKSAR) insiste con l’agenda del Partito Comunista Cinese nell’ imporre misure impopolari a una cittadinanza che è sempre più separata dalla Cina, particolarmente fra i nati subito prima e dopo il 1997. A metà aprile di quest’anno, Luo Huining, il nuovo Direttore scelto da Pechino dell’Ufficio di collegamento col governo centrale ha chiesto al governo di Hong Kong di far passare la legge che identifica e sanziona chi minaccia la sicurezza nazionale. La bozza di questa legge suscitò le prime proteste di massa già quando venne presentata la prima volta nel 2003. L’occasione in cui Luo ha fatto questa richiesta è stata durante il “giorno dell’educazione della sicurezza nazionale”, giorno così designato dal governo cinese.«Molti abitanti di Hong Kong», ha declamato, «hanno una debole idea di cosa sia la sicurezza nazionale». Ha detto che la legge sulla sicurezza nazionale deve essere fatta passare «al più presto».  Carrie Lam, il capo dell’esecutivo di Hong Kong, ha aggiunto delle proprie osservazioni in questo giorno di “festa” notando come le proteste illegali saranno considerate come minaccia alla sicurezza nazionale (insieme ai discorsi d’odio e agli atti di terrorismo). Alcuni giorni dopo, il 18 aprile, la polizia di Hong Kong ha arrestato 15 membri dell’opposizione, tra cui il più anziano statista dei pan-democratici, l’ottantunenne Martin Lee. Lui e gli altri sono stati accusati di aver partecipato a una protesta illegale dello scorso anno. Sono in attesa del giudizio del tribunale per il 18 maggio.

Gli arresti hanno provocato una condanna internazionale, dall’Ufficio dei diritti umani dell’ONU, l’International Bar Association e, significativamente, dalla Casa Bianca di Trump. Il Procuratore Generale William Barr ha definito gli arresti come un «assalto allo stato di diritto» che «dimostrano ancora una volta come il Partito Comunista Cinese non sia affidabile». Bisogna però supporre che l’assalto allo stato di diritto che Barr stesso fa negli USA significa che utilizza due pesi e due misure. Ma la sua dichiarazione (insieme alla risposta del Segretario di Stato Mike Pompeo) era chiaramente parte di un nuovo tentativo di tirare in ballo il Partito Comunista Cinese per la mala gestione iniziale dei casi di coronavirus a Wuhan e per la repressione dell’opposizione e delle proteste a Hong Kong. Anche se non sono inesatte, queste dichiarazioni fanno di tutto per rafforzare le asserzioni del Partito Comunista per cui l’opposizione e le proteste di Hong Kong sono tutt’uno con le “forze ostili” (cioè il governo statunitense e le ONG), forze che aiutano e sostengono le proteste per fomentare l’instabilità ovunque possano farlo in Cina. Pompeo ha dichiarato il 6 maggio che il rapporto del Dipartimento di Stato al Congresso per valutare il grado di autonomia di Hong Kong dalla Cina (come richiesto dal Hong Kong Human Rights and Democracy Act) è posticipato. Presumibilmente il rapporto deve essere aggiornato sui recenti avvenimenti di Hong Kong.

 

Ciò che Pompeo e gli altri del governo statunitense non sono riusciti a capire è che la situazione di Hong Kong non è semplicemente interpretabile come un altro “movimento per la democrazia”. Le proteste somigliano invece molto più a un complicato movimento contro un potere quasi-coloniale.

 

L’aspirazione al suffragio universale (cioè l’elezione diretta del capo dell’Esecutivo e una legislatura maggiormente rappresentativa) sono infatti una parte importante delle richieste dell’opposizione. Ma come in molte lotte anti-coloniali, la popolazione è divisa tra chi sente maggiore lealtà verso il centro imperiale – o che semplicemente accetta l’inevitabilità dello status quo e si oppone alle azioni di chi protesta – e chi invece si richiama a una identità separata e addirittura a una radicale richiesta di indipendenza. Episodi di violenza, che generalmente vedono la polizia reprimere la folla di dimostranti, dànno più forza a nuove proteste con la creazione così di nuovi anniversari e martiri da commemorare. Tale concatenazione può generare un ciclo di proteste lungo gli anni, con conflitti violenti, arresti e prigionia.

 

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Pandemia e proteste si sono incontrate la prima volta nel 2003, l’anno del coronavirus SARS, ritenuto proveniente dalla provincia del Guangdong, generò una crisi sanitaria a Hong Kong da marzo a giugno, durante questa crisi ci furono 1750 casi con 286 residenti di Hong Kong morti. Proprio durante quella pandemia, Pechino fece pressione sul capo dell’esecutivo di allora, Tung Chee-hwa, per far passare la legge sulla minaccia alla sicurezza nazionale, in linea con l’articolo 23 della Basic Law (è la stessa misura su cui sta insistendo Pechino ora). Una marcia mai vista prima di mezzo milione di persone si tenne il 1 luglio del 2003 a dimostrare l’opposizione alla nuova proposta di legge proprio il giorno del sesto anniversario del “ritorno” di Hong Kong alla Cina. Tung fu così costretto a ritirare la legge. Dopo la SARS, usare le mascherine in pubblico divenne cosa comune, specialmente durante i periodi di influenza. Prima della SARS ci fu la diffusione del virus H5N1 alla fine del 1997 (il primo caso fu identificato a maggio), vennero chiuse le scuole e il nuovo governo di Hong Kong dovette supportare la ricerca sulle epidemie e le infrastrutture necessarie per la salute pubblica.

 

 

Nel decennio successivo alla SARS, il governo di Hong Kong ha stretto ulteriormente i suoi legami con la Cina continentale grazie al “Closer Economic Partnership Agreement” (CEPA), firmato il 29 giugno del 2003, appena qualche giorno prima della protesta del 1 luglio. CEPA conferiva  alle compagnie e agli operatori finanziari accessi preferenziali ai mercati della Repubblica Popolare. Allo stesso tempo, mise le basi per la rapida espansione del turismo che alla fine porterà 51 milioni di turisti provenienti dalla Cina continentale ogni anno in una città che conta una popolazione di 7,4 milioni di residenti.

Come hanno attestato diversi studiosi di Hong Kong, questo rafforzamento del commercio, del turismo e dell’immigrazione dalla Repubblica Popolare ha dato vita a un movimento “localista”. Il termine (che traduce con difficoltà “bentu”, per cui varrebbe anche la traduzione “nativo”) è stato utilizzato in diversi contesti prima del 1997, ma come Sebastian Veg ha dimostrato, attivisti e accademici hanno ridato vita al termine dentro al movimento di protezione del patrimonio locale del 2006, che era indirizzato a bloccare l’abbattimento dello Star Ferry e del Queen’s Pier. Il discorso localista non era esplicitamente anti-coloniale, non si rifaceva all’indipendenza, ma sottolineava la specificità della storia e cultura locale intesa come diversa da quella della Cina continentale. I movimenti localisti organizzarono molte mobilitazioni nel 2010, tutte collegabili alle future proteste del 2019. Fra queste c’era la campagna per bloccare la demolizione di un villaggio nei Nuovi Territori (la zona a ridosso della frontiera con la Cina continentale, ndt) che si trovava sul percorso della ferrovia espressa Canton-Shenzhen-Hong Kong.

La protesta non riuscì a bloccare il progetto e i residenti furono trasferiti a forza, ma il fatto accrebbe l’ansia per il rafforzamento dell’integrazione con la Cina continentale. Quando si tenne la sessione del Consiglio legislativo per approvare il finanziamento del progetto, circa diecimila dimostranti fecero un sit-in fuori dal palazzo del Consiglio. Alcuni irruppero nel Consiglio, qui la polizia usò lo spray al peperoncino per sgomberare l’area. Nel 2012, le proteste fecero valere nuovamente la specificità dell’identità di Hong Kong con un movimento, guidato dal sedicenne Joshua Wong, creato per opporsi alle misure del governo di Hong Kong che volevano introdurre “l’educazione morale e patriottica” (vale a dire la versione della storia scritta dal Partito Comunista Cinese) nel curriculum scolastico. I dimostranti fecero una grande marcia e sit-in nella piazza antistante il palazzo del Consiglio. La protesta ebbe successo e il governo ritirò la riforma del curriculum scolastico.

Il sentimento localista fu anche evidente durante il movimento degli ombrelli del 2014. Anche note con l’appellativo originale di Occupy Central with Love and Peace (OCLP), le proteste iniziarono in risposta all’annuncio di Pechino per cui la revisione del sistema elettorale negava ancora ai cittadini di eleggere direttamente il Capo dell’Esecutivo.  Fu anche descritto da uno dei suoi iniziatori, Benny Tai, come «localist democracy movement». Il riferimento, ancora una volta, era alla cultura locale insieme alla lingua, alla storia e molti altri elementi. Gli studenti legati alla protesta lanciarono il boicottaggio delle lezioni e a fine settembre occuparono la piazza antistante il governo centrale. Furono assaliti dalla polizia con lo spray al peperoncino, e loro si difesero con gli ombrelli dai lacrimogeni e dallo spray, per questo presero il nome di movimento degli ombrelli. Il movimento, che si dispiegò in tre luoghi durante 79 giorni, finì a dicembre, a causa di attriti e della strategia governativa di fomentare la disapprovazione per l’occupazione di spazi pubblici, tanto che vi furono contro-manifestazioni di cittadini contrari ai disagi recati alla circolazione e alla vita quotidiana.

 

Il periodo successivo al movimento degli ombrelli ha visto una vasta repressione da parte di Pechino e del governo di Hong Kong, e allo stesso tempo l’intensificarsi del sentimento localista.

 

L’opposizione o i pan-democratici sono divisi su diverse dimensioni, ma quella fondamentale è generazionale e politica, i più giovani attivisti rifiutano le strategie elettorali e di partito tipiche dei più anziani democratici a favore invece dell’azione diretta, mentre un terzo campo più esplicitamente localista comprende candidati e partiti che competono per i seggi nella legislatura appellandosi apertamente all’indipendenza di Hong Kong (il governo di Hong Kong ha messo fuorilegge  questi partiti e ha addirittura proibito a rappresentanti eletti di prendere il seggio nella legislatura del 2016.) Nello stesso tempo, Pechino ha lanciato un’ampia contro-mobilitazione, con la richiesta dell’arresto dei leader del movimento OCLP, dei leader studenteschi del movimento degli ombrelli e altro ancora. Forse per la troppa fiducia derivata da queste pressioni e da queste misure, Carrie Lam ha deciso di usare il caso di un omicidio a Taiwan che ha coinvolto un cittadino di Hong Kong per introdurre la legge sull’estradizione agli inizi del 2019.

 

 

Durante la repressione del periodo 2016-2018, il settore della sanità di Hong Kong fu encomiato per i suoi standard mondiali. Nell’indice di Bloomberg sull’efficienza sanitaria del 2018, Hong Kong è stata classificata al primo posto, l’indice comprende l’aspettativa di vita, i costi pro-capite della sanità, la quota di spesa sanitaria sul PIL. (In questo indice gli Stati Uniti si trovano vicino al fondo della lista di 56 economie a reddito medio e alto). Ma i 100.000 lavoratori della sanità prima al mondo degli ospedali di Hong Kong si sono ben presto trovati nel mezzo delle battaglie fra dimostranti e polizia.

Quel che è presto diventato il movimento di protesta più grande della città, è iniziato con marce contro la legge sull’estradizione nell’aprile 2019. La settimana precedente la prima lettura della legge nel Consiglio legislativo, si è tenuta una marcia di un milione di persone il 9 giugno. Quando la legge è passata alla seconda lettura pochi giorni dopo, il 12 giugno, i dimostranti si sono riuniti fuori dal Consiglio, qui la polizia ha provato a disperderli con 150 candelotti di lacrimogeni, una quantità che eccede di gran lunga gli 87 utilizzati durante il movimento degli ombrelli del 2014. In risposta alla palese tattica repressiva della polizia di Hong Kong, una marcia con una partecipazione stimata tra il milione e mezzo e due milioni di manifestanti si tenne il 16 giugno, la più grande nella storia della città. Le grandi manifestazioni e raduni di dimostranti negli spazi pubblici, una eredità del 2014, hanno presto dato vita a nuove tattiche, proteste e raduni improvvisi in luoghi simbolicamente importanti come i centri commerciali legati alle compagnie della Cina continentale, centri di collegamento dei trasporti che collegano alla Cina continentale e così via.

 

A metà dell’estate del 2019 risultò chiaro che le proteste non erano guidate da nessun gruppo formale o portavoce, e quindi erano senza leader.

 

Le app dei social media sono state usate per mobilitare velocemente grandi numeri di dimostranti, provvedendo le necessarie informazioni sulla posizione della polizia, negozianti simpatizzanti e il supporto medico dei volontari. Sono un esempio di ciò che recentemente gli studiosi di movimenti sociali hanno chiamato “connective action”, basata sulla condivisione delle informazioni tramite le piattaforme piuttosto che tramite le convenzionali forme di “collective action” che richiedono organizzazioni gerarchiche per l’uso di risorse utili alla mobilitazione dei partecipanti.

Un altro tratto distintivo delle proteste del 2019, e collegato all’uso delle app dei social media, è stata l’età dei partecipanti. Un recente studio di Francis L.F Lee e colleghi conferma ciò che molti resoconti dello scorso anno anno avevano già notato. In base ai sondaggi fatti a 12,231 persone in 19 occasioni tra il 9 giugno e la fine di agosto, il 61% erano sotto i 29 anni. Ma l’osservazione più indicativa è che l’11,8% dei dimostranti sondati erano sotto i 19 anni. (Un altro 22% tra i 20 e 24 anni).

 

 

Durante l’estate le proteste sono proseguite, con scene drammatiche di delinquenti (mafia locale pro-Pechino) che hanno attaccato i passeggeri della metropolitana, i dimostranti che hanno occupato l’aeroporto, e uno sciopero generale che ha bloccato il trasporto pubblico, a cui il governo ha risposto con i metodi del periodo coloniale inglese. A seguito di episodi di violenza durante la manifestazione del 1 ottobre (festa nazionale della Cina), Carrie Lam ha annunciato che l’uso di mascherine in pubblico era proibito, così da poter identificare meglio i dimostranti a arrestarli con le tecnologie di sorveglianza. Per giustificare questa misura che viola le libertà civili, ha invocato la Emergency Regulation Ordinance, che fu introdotta dal governo coloniale inglese nel 1922 per far finire lo sciopero dei marinai. (Un opinionista del “South China Morning Post” notò lo scorso anno come il governatore di quel tempo, Reginald Strubbs, mostrò maggiore competenza  rispetto a Carrie Lam nel porre fine allo sciopero, il governatore infatti portò al tavolo della trattativa le due parti e i lavoratori ottennero sostanziali aumenti salariali). Il 5 ottobre, il giorno dopo l’entrata in vigore del divieto di indossare le mascherine, si vide la polizia antisommossa occuparsi di chi indossava le mascherine negli spazi pubblici. Il divieto fu portato alla corte di tribunale per la dubbia costituzionalità, l’appello finale nell’aprile del 2020 stipulò come la polizia possa arrestare chiunque indossi una mascherina durante un assembramento illegale.

 

Da allora, il divieto di indossare la mascherina è diventato irrilevante grazie alla massiccia risposta dei cittadini ai tentativi pasticciati del governo di affrontare la diffusione del coronavirus.

 

Carrie Lam era a Davos al World Economic Forum quando sono emersi i primi casi, fu lenta nell’agire dopo il rientro, ritardò la chiusura delle frontiere con la Cina e all’inizio rifiutò addirittura di indossare la mascherina. Ma nonostante questi ritardi, la città con una così alta densità di popolazione ha avuto solo 1039 casi di Covid-19 e quattro morti fino ai primi di maggio del 2020. La popolazione non ha attribuito il successo nel controllo della diffusione al governo, ma all’azione della comunità dei medici e delle organizzazioni della società civile. A febbraio, i lavoratori della sanità hanno lanciato uno sciopero per chiedere la distribuzione gratuita delle mascherine e la chiusura dei confini con la Cina.

La Emergency Regulation Ordinance non ha solo messo fuorilegge la mascherina ma ha anche proibito ogni raduno di grandi dimensioni. Nel marzo 2020, mentre miglioravano i casi di Covid-19, Lam ha annunciato la proibizione di raduni superiore a quattro persone. Quando tutti i casi erano ormai sotto controllo a inizio maggio, ha annunciato l’estensione del divieto fino a fine maggio, permettendo raduni fino a otto persone. Alla vigilia degli anniversari delle proteste a giugno, non è affatto detto che il Governo accetterà la richiesta di indire manifestazioni. (Per esempio, la marcia che si tiene ogni anni per ricordare il massacro di Tiananmen del 4 giugno è stata proibita)  Imperterriti, i dimostranti (con le mascherine) faranno marce e raduni nelle strade e nei luoghi simbolici della città. E ugualmente la polizia di Hong Kong sarà mandata per arrestare chi protesta. Anche il minimo atto di violenza contro la proprietà commesso da dai manifestanti sarà utilizzato come segno evidente della necessità per Hong Kong di dotarsi della legge di difesa nazionale per punire chi minaccia l’ordine pubblico: punire quelli che sono stati considerati come “virus politico”, queste le parole utilizzate il 6 maggio dal funzionario del Partito Comunista Cinese incaricato dei rapporti con Hong Kong.

 

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Le possibilità di arrivare a dei compromessi sulla riforma elettorale, le inchieste sulla condotta tenuta dalla polizia durante le proteste, e l’amnistia per chi è stato arrestato per aver preso parte alle proteste “illegali” appaiono ora, nel momento di un ulteriore giro di vite del governo di Hong Kong, ancora più lontane rispetto allo scorso anno. Se alcuni osservatori occidentali paventano un intervento militare che ripete le scene del 4 giugno del 1989 di Pechino, è evidente invece che una diversa forma di intervento è già stata intrapresa.

 

La versione originale dell’articolo è apparsa sul sito The Asia-Pacific Journal

Traduzione italiana per DINAMOpress a cura di DG.