EUROPA

Guerra ai Confini

Gli attacchi di Parigi mostrano come, per i movimenti, la partita si gioca sui confini, sul cuore dell’Europa in fiamme, nella lotta contro il debito e per l’accoglienza. In un nuovo spazio, transnazionale, post-statale, perfino post-europeo, in chiave partigiana e di lotta.

Con questo testo vorremmo parlare dal nostro punto di vista di quanto successo a Parigi, di quali possono essere le conseguenze e le evoluzioni nel prossimo periodo, di quali passioni dominano il clima cittadino e di quali possibilità politiche abbiamo di fronte. Lo facciamo dal punto di vista di tre persone che hanno vissuto o vivono a Parigi, e ci inseriamo nel dibattito aperto dall’ottimo “E’ guerra civile mondiale?”: ci sembra che la pratica di “ascolto” alle lotte extra-europee che auspica quel testo sia un punto di partenza imprescindibile per distruggere il più grande dispositivo di impoverimento e morte, quel dispositivo che dimostra con la sua stessa esistenza il fallimento dell’Europa per come l’abbiamo immaginata: la guerra.

Da dove cominciare per raccontare il salto che si è compiuto questo venerdì 13 novembre 2015? Come descrivere un cambiamento di paradigma così profondo e esteso su piani così diversi? Altri hanno affrontato meglio di quanto potremmo fare il piano geopolitico e quello della fase storico-politica. Vogliamo invece provare a partire dalle passioni di chi attraversa ogni giorno la metropoli-Parigi, dalla geografia anche sentimentale e dal suo stravolgimento. Vorremmo parlare del bisogno forte di politica e di incontro che esplode dentro questa nuova geografia soffocante.

Cominciamo con un fatto banale. Poche ore prima di buttare giù queste righe, un fuoco d’artificio tirato da qualche ragazzino, o forse una lampadina che è esplosa in un bar, ha scatenato un’onda di panico rapidissima in tutti i quartieri attorno a République: centinaia di persone hanno cominciato a correre all’impazzata in preda al terrore e l’immagine della folla raccolta attorno ai cartelli “non abbiamo paura” si è sciolta come neve al sole. Questo episodio è sufficiente per raccontare come dopo gli ultimi attentati non sia più possibile guardare le strade della città allo stesso modo, come la sicurezza delle azioni più banali vada completamente ricostruita, come la paura diffusa abbia rimpiazzato la fiducia dei rapporti sociali consolidati.

Come mai questi attentati hanno così radicalmente colpito l’immaginario collettivo? Perché lo sbigottimento è tale da rendere possibile la svolta guerrafondaia appena annunciata da Hollande? Molte sono le risposte: hanno sparato nel mucchio, hanno colpito lo stile di vita dei giovani francesi della classe media, hanno agito in maniera coordinata e senza che l’intelligence riuscisse ad impensierirli… tutto vero, ma c’è un elemento ulteriore: i quartieri colpiti non sono soltanto quartieri “della movida”, sono anche quartieri con una certa caratterizzazione “progressista” nell’immaginario della città. A ridosso di Belleville e delle zone più meticce dentro il raccordo anulare, gli arrondissement dove sono avvenuti gli attentati vengono percorsi e vissuti dalla Parigi bianca e di sinistra, che si sente in qualche modo vicina a quel pezzo di società francese esclusa dal patto sociale, fatta di migranti di prima seconda o terza generazione, e spesso idealmente confinata nel luogo-feticcio delle “banlieues”. La carneficina del Bataclan mette a nudo che, de facto, non esiste alcuna vicinanza, che in Francia ci sono due società, e dentro quella extra-europea, mediorientale e africana, ex e neo colonizzata, si è sviluppato un progetto politico votato alla distruzione della società bianca-francese-europea-occidentale.

Nelle periferie europee si è sviluppato un cancro, di una violenza speculare a quella che l’occidente esporta con le sue guerre. E lo sviluppo di questa metastasi è qualcosa che interroga da vicino tutte le “sinistre”: abbiamo speso fiumi d’inchiostro per parlare del meticciato europeo, e non ci siamo accorti che dentro quella composizione meticcia nasceva un’ipotesi politica a noi totalmente e radicalmente ostile. Le nostre categorie hanno continuato a rimbalzare attorno alle parole “povertà” ed “oppressione”, come se queste potessero da sole spiegare i processi complessi che hanno dato forza e militanti a Daesh e al fondamentalismo islamico. In alcuni casi ci siamo spinti fino a parlare di “esclusione”, ma senza incrinare davvero i dispositivi di marginalizzazione che i nostri linguaggi contengono. Ecco allora che sotto la cortina paternalista si è dato un processo politico articolato, fatto di conflitti interni e di ipotesi contrapposte, e quando gli “esclusi” sono usciti dalla marginalizzazione ci siamo accorti che non aveva vinto un’ipotesi a noi amica, ci hanno lasciati attoniti e letteralmente senza parole.

Ricorre quest’anno il decennale delle grandi rivolte che infiammarono proprio le banlieues parigine. Tali fenomeni di riot urbano diffuso e generalizzato si sono presentati spesso in termini contradditori e spesso eccedenti molte delle nostre (forse troppo ferree) categorie d’analisi classiche: la messa a nudo dell’intollerabilità, l’esasperazione di fronte alla violenza della metropoli.

La costruzione di esperienze collettive, transnazionali, e di lotta, a partire da questo contesto, in generale violento e contraddittorio, ma che costituisce la base della metropoli, è forse una sfida che per le sue difficoltà è sempre rimasta non colta fino in fondo. È questa timidezza che non può continuare. Dentro questo sistema di relazioni, in cui la presenza di due società separate* è una realtà tangibile, la guerra è ormai un fatto scontato. Come rompere la separazione? Come costruire ponti reali? Come rendere reali ed efficaci quei concetti teorici finora rimasti forse fin troppo vaghi?

L’occasione viene dalla grande ondata migratoria che sta investendo l’Europa. Le guerre in Medio-Oriente, che hanno dato forza a Daesh, hanno anche causato un enorme flusso di persone verso il continente europeo, che rispondono all’arroganza distruttiva del potere, fuggendo. Persone che col loro movimento liberatorio mettono in crisi il sistema delle frontiere, corpi che con la loro esistenza in continuo attraversamento possono aprire ovunque le porte di una lotta per un nuovo sistema di diritti non più confinati entro i territori nazionali.

Non crediamo di fare un discorso utopistico, pensiamo invece che la lotta contro la guerra ritorni ad essere oggi un fatto essenziale. Pensiamo che questa lotta si debba dare oggi all’interno di un quadro globale, che segua il filo rosso che va dal Nord Africa al Medio Oriente, alla Palestina e al Kurdistan. A dieci anni dal delirio neocon che ha sconvolto Iraq e Afghanistan, dobbiamo trovare parole nuove per gridare ancora, contro l’asse social-fascista Hollande-Le Pen, “not in my name”. Ma lottare contro la guerra significa anche e innanzitutto lottare contro tutte le frontiere. Crediamo che su questo terreno ci siano già dei fronti aperti: in tutta europa moltissim* attivist* incontrano le battaglie dei migranti, li aiutano a passare le frontiere e si battono contro i paternalismi e gli umanitarismi (di stato e non) per creare un nuovo spazio comune che rivendichi la distruzione dei confini. Si tratta di portare ovunque questa tensione e questo sforzo, di contaminarsi senza paura. Si tratta di riconoscere in questi sforzi disseminati in tutte Europa l’indicazione di una strada per la costruzione di uno spazio comune nuovo.

Combattere contro la spinta centrifuga metropolitana in seno al vecchio continente, dunque, e insieme contro la stessa spinta di esclusione alle frontiere, per un ribaltamento del tavolo della politica europea, dal basso e dall’interno.

Oggi Hollande scimmiotta il Bush del 2001. I socialisti francesi si pongono alla guida di un arco parlamentare compatto, includendo di fatto anche il Front National in una nuova unità nazionale fascistoide** e provando a guidare una coalizione europea.

Allo stesso modo in cui la Germina ha guidato questa estate l’aggressione alla Grecia. Non si può infatti non vedere la profonda intimità, spesso in questi giorni trascurata, tra questa battaglia e quella per la messa in discussione del capitalismo finanziario e dell’ideologia del debito, cogliendo su questo punto un’altra occasione di connessione. Perché questa è la radice della violenza metropolitana, dell’individualismo e della miseria, che spalanca le porte a fascismi e fondamentalismi dalle banlieues parigine, alle periferie londinesi, fino ad Atene.

Ecco allora l’urgenza di mettere da parte lo sgomento e costruire l’occasione, di ribaltare la compattezza dei dominanti nella loro solitudine. I confini, il cuore dell’Europa in fiamme, la lotta contro il debito e per l’accoglienza ci dicono che la partita per i movimenti e la sinistra si deve giocare in un nuovo spazio, transnazionale, post-statale, perfino post-europeo, in chiave partigiana e di lotta.

Cerchiamo relazioni nuove e trasversali proprio quando la solitudine è sfruttata per costruire un mondo peggiore. La paura, si sa, è un’inevitabile ma triste passione umana; è a questa paura che oggi più che mai invade le nostre città e i nostri luoghi che dovremo rispondere, con lo sforzo di costruire nuove, forti, e collettive passioni di gioia. Contro i kalashnikov di Daesh, contro le bombe socialdemocratiche e contro ogni confine.

*Per chi osserva da sud delle Alpi, è giusto far notare che l’esistenza di luoghi completamente separati ai bordi delle nostre metropoli non ha la stessa incidenza che nell’esagono. Soprattutto, l’esistenza in Italia di spazi di libertà e di lotta, eredità della stagione di movimento degli anni ’60 e ’70, ha sempre permesso l’incontro di numerose soggettività “escluse”. Le metropoli francesi ci sembrano invece caratterizzate da un controllo biopolitico molto più marcato e repressivo, e quindi da un più difficile sviluppo di percorsi trasversali (e non marginali) di lotta.

**Scavalcandolo a destra con la proposta di modifica costituzionale, che permette di togliere la cittadinanza francese a persone con doppia cittadinanza