ITALIA

Giancarlo Sturloni: «Covid-19, l’informazione istituzionale è inadeguata»

A quasi un anno dall’inizio della pandemia, la comunicazione istituzionale continua a mostrare carenze di organizzazione strategica e di coerenza narrativa.

L’inizio della campagna vaccinale nel nostro paese segna un momento strano. Sembra di percepire la “luce in fondo al tunnel” della crisi pandemica, con la conseguente infusione di speranza, ma allo stesso tempo abbiamo a che fare con dati allarmanti, con i contagi in rialzo e i decessi giornalieri che sono più di 500. Come comunicare correttamente questo stato di incertezza misto a fiducia?

Che ruolo gioca la comunicazione istituzionale – dal livello governativo a quello provinciale – nell’approccio della cittadinanza verso l’emergenza pandemica? Lo abbiamo chiesto a Giancarlo Sturloni, saggista e divulgatore scientifico che si occupa a vari livelli di gestione e comunicazione del rischio

 

È quasi passato un anno dall’inizio della pandemia. Come ti sono sembrate le strategie di comunicazione messe in campo sinora dalle istituzioni?

Premetto che sono ancora stati prodotti studi analitici a riguardo, per cui posso basarmi solo su impressioni ricavate dall’osservazione dei canali istituzionali. Sicuramente esiste una carenza di fondo. La comunicazione istituzionale durante questo periodo non è stata assente, ma certamente si è rivelata inadeguata a un evento epocale come quello di una crisi pandemica.

I social non sono stati utilizzati sfruttando la loro caratteristica principale, cioè la possibilità di attivare un dialogo con gli utenti, mentre le informazioni generali sono state disperse in mille rivoli e in tanti indirizzi web diversi, dal sito del Governo alla pagina del Ministero della Salute, dal sito Protezione Civile fino a quella dell’Istituto Superiore di Sanità. Insomma, si è verificata una incapacità da parte istituzionale di “presidiare” i vari canali di comunicazione e di produrre un discorso forte e continuo sulla crisi pandemica.

 

Non sono state sfruttate tutte le possibilità e non siamo stati messi di fronte a una voce coerente e autorevole. Il problema è che così si crea un vuoto comunicativo, che viene poi riempito da altre voci spesso meno affidabili.

 

Nonostante si siano osservati anche progressi rispetto al passato, soprattutto per quel che riguarda un approccio più trasparente da parte del Ministero della Salute e della Protezione Civile, mi sembra dunque che ci sia stata, come accennavo all’inizio, una carenza nella comunicazione istituzionale: di organizzazione strategica, di coerenza narrativa e, probabilmente, di personale dedicato che potesse assicurare una maggiore efficacia.

 

Si tratta di una specificità italiana? In altri contesti si è agito meglio?

È difficile da dire. Sicuramente nel nostro paese non c’è una cultura della comunicazione del rischio radicata: basti pensare che neanche i dipartimenti di prevenzione regionali hanno delle professionalità apposite.

Questo succede perché la comunicazione scientifica non viene generalmente considerata un elemento strategico e ciò si ripercuote un po’ su tutti i livelli, da quello governativo fino alle Regioni e alle Province: solitamente le amministrazioni locali si affidano a uffici stampa e portavoce esperti di comunicazione politica, non di gestione del rischio o di sanità pubblica. Anche per via di una tale sovrapposizione di istanze, non si possono attuare delle distinzioni nette in merito alla situazione negli altri paesi.

 

Si sono verificati tanti scenari, molto diversi fra loro. Negli Stati Uniti, per esempio, c’è un’attenzione verso la comunicazione molto elevate ed è possibile usufruire di risorse ingenti.

 

Eppure, la quasi totalità dello spazio comunicativo è stata occupata da Donald Trump, ai cui canali di espressione è riconducibile – come sostiene una ricerca della Cornell University di New York – circa il 38% delle bufale cospirazioniste sulla pandemia che si sono diffuse in questi mesi. C’è dunque un elemento politico che, per forza di cose, va a influenzare quello comunicativo.

 

Questo vale anche per i vaccini, di cui si parla molto negli ultimi tempi?

L’ingresso dei vaccini sulla “scena comunicativa” ha rappresentato un deciso cambio di narrativa. Attorno all’inizio della campagna vaccinale si è creata una sensazione molto forte di speranza diffusa, perfettamente comprensibile, che però è andata a oscurare tutto il resto: a dicembre, mentre si parlava quasi esclusivamente dei vaccini, abbiamo perso di vista il fatto che nel nostro paese il tracciamento dei contagi è saltato e che la pandemia continua a essere fuori controllo.

La stessa conta giornaliera dei morti, che continuano a essere tantissimi, è passata in secondo piano! Ora, è chiaro che – come detto – si tratta di un processo in una certa misura anche spontaneo e naturale, ma dall’altra parte corrisponde anche a una scelta di comunicazione istituzionale.

Se i vaccini vengono presentati come l’uscita in fondo al tunnel, è chiaro che verranno percepiti così. Al contrario, esistono ancora numerose incognite: non sappiamo se proteggono dal contagio, quante persone saranno disposte a vaccinarsi, quanto a lungo durerà l’immunità, oltre al fatto che c’è un 5% di persone per cui sarà inefficace.

Solo che, per dirla con una battuta, è arrivato prima il vaccino che la campagna di informazione istituzionale a riguardo. Siamo di fronte a una campagna vaccinale senza precedenti e abbiamo bisogno di sforzo comunicativo senza precedenti che finora non si è visto.

 

In più si è scelto di presentare il vaccino come la soluzione definitiva, ma in realtà si sarebbe dovuto dire che ora abbiamo un importante strumento in più da affiancare agli altri già a nostra disposizione per combattere la pandemia.

 

Uno strumento chiaramente cruciale, ma di certo non risolutivo nel breve periodo in cui invece è necessario non sminuire l’importanza delle altre misure di prevenzione, dal distanziamento sociale al tracciamento dei contagi.

 

Foto di copertina dal profilo Flickr del Dipartimento Protezione Civile