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George Romero e i morti viventi

Un omaggio al regista mitico, alla sua filmografia, tra zombi di ieri e di oggi.

“Darkness falls across the land/The midnight hour is close at hand/Creatures crawl in search of blood/To terrorize y’awl’s neighborhood”. (Vincent Price [1] – voce fuori campo nel videoclip Thriller di Michael Jackson)

È morto a 77 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro, il regista di culto George A. Romero, anche sceneggiatore, montatore, attore, direttore della fotografia e fumettista statunitense nato a New York nel 1940, da padre cubano e madre di origine lituana. Per tutti “the Father of the Zombie Film.”

È ormai parte dell’immaginario collettivo il suo film La notte dei morti viventi del 1968, considerato anche il film che ha codificato il zombie movie. Spesso erroneamente definito il primo film di genere, ma, in realtà bisogna risalire a L’isola degli zombies (White Zombie) del 1932, diretto da Victor Halperin e interpretato dalla mitica star dell’horror, Bela Lugosi, il primo lavoro nella storia del cinema a presentare la figura dello zombie. E come non menzionare, del resto, anche un cult come I Walked with a Zombie (1943) del regista noir Jacques Tourneur, che narra la storia di una infermiera alla ricerca di un mondo parallelo per guarire la sua paziente che vive in uno stato catatonico, in un viaggio nel labirinto della psiche umana nelle Indie occidentali. Come ben sintetizzava Tourneur, autore di Cat People e tra i registi preferiti di Martin Scorsese [2] e capostipite dei film b-movie di qualità a basso budget, nel raccontare l’arte filmica:  “Quando gli spettatori sono seduti al buio e riconoscono nei protagonisti dello schermo le loro stesse incertezze, accettano le situazioni più incredibili e sono disposti a seguire il regista ovunque egli intenda condurli”.

Ed è quel che ha fatto Romero in Night of the Living Dead, film ispirato al romanzo fantastico I am legend di Richard Matheson (1954), in cui un solo uomo è rimasto sulla terra dominata dai vampiri. Romero ha mutuato la figura del vampiro, che in origine veniva proprio e letteralmente da un datore di lavoro succhiasangue e dispotico, anche se poeta geniale come Lord Byron. [3]

Da astuti e brillanti succhiatori di sangue a creature quasi totalmente prive d’intelligenza e spinte solo dalla sanguinaria voglia di uccidere per nutrirsi di carne umana, per poter sopravvivere.

Il cannibalismo è, in effetti, la migliore metafora nella società capitalistica, pratica individualistica ed egoista per eccellenza. È in fondo la società stessa che ha ben imparato a divorare “i suoi figli e le sue figlie” dai tempi di Crono con Zeus, Era, Poseidone, Ade, Demetra, Estia. Il dipinto di Francisco Goya è sempre lì nelle nostre teste a ricordarcelo. Un’immagine senza tempo, ma pur sempre attuale ed efficace.

Senza tempo… Nel 1969, mentre Romero era in macchina, portando la prima copia stampata de La notte dei morti viventi a New York, disse che dalla radio annunciarono l’omicidio di Martin Luther King.

Il film suddetto è ambientato in Pennsylvania, il centro degli Stati Uniti in piena guerra, e gli zombi sembravano un grottesco riferimento al conflitto in Vietnam, i suoi orrori, le sue stragi, le sue morti, e il bianco e nero ormai quasi anacronistico echeggiava i classici cinegiornali di guerra in bianco e nero.

La guerra era ovunque. Tom Savini –futuro storico collaboratore di Romero (e di Dario Argento), creatore di molti dei suoi macabri e fantastici effetti speciali, nonché regista del remake La notte dei morti viventi (1990) e attore feticcio di Tarantino in molti film – fu proprio un fotografo sul campo della guerra del Vietnam. La violenza che vide fu di ispirazione anche per tutti i lavori successivi nel trucco del cinema horror (Zombi, Friday the 13th, Creepshow, Trauma).

Nel film è ben presente anche il razzismo radicato nel continente americano, in quegli anni di segregazione razziale (anche di fatto). Uno dei protagonisti del film è interpretato dall’attore afroamericano Duane Jones che riesce a sopravvivere agli zombi, ma viene poi ucciso da un gruppo di cittadini bianchi del sud…

Nel film Zombi (Dawn of the Dead) del 1978 ad un certo punto, il gruppo di protagonisti rimasti, si rifugia all’interno di un gigantesco centro commerciale e decide di sbarrare le porte al mondo esterno. Lì in fondo, ci sono tutti i viveri necessari per ricreare una sorta di Decameron negli anni dell’esplosione del consumismo. Le scene sono state girate, tra l’altro nel vero Monroeville Mall al 200 di Mall Circle Drive, Monroeville, Pennsylvania.

In quegli anni i mall (termine utilizzato nel Nord America), diventavano sempre più numerosi, in tutto il mondo, anche in Italia.

Nella metà del XX secolo, territori sconfinati, sobborghi che sorgevano nei rivoli del nulla, il boom dell’automobile negli Stati Uniti, ecco che si andava configurando un stile nuovo anche nello shopping center, lontano dal centro della città. Area di passaggio, “luogo protetto”, avulso dall’elemento urbano, i primi centri commerciali progettati includono Market Square, Lake Forest, Illinois (1916) e Country Club Plaza, Kansas City, Missouri (1924). Un nuovo paesaggio extraurbano prendeva forma.

Dalla fine della seconda Guerra mondiale, il modello Town and Country Drive-In Shopping Center, una piccola città sfavillante e asettica ad uso e consumo delle famiglie. Dal 1956, l’architetto austriaco emigrato negli Usa, Victor Gruen, inventa l’idea di un complesso commerciale di grandi dimensioni e completamente al chiuso, un luogo protetto, simile a un agglomerato di frammenti fortificati, in cui poter ricreare continuamente la messa in scena di una nuova estetica consumistico-edonistica sempre in evoluzione, secondo la tendenza postmoderna a incoraggiare nicchie di mercato che riguarda sia le abitudini dei consumatori, sia le forme culturali, avvolge l’esperienza sub-urbana contemporanea in un’aura di “libertà di scelta” a patto che si abbiano i soldi per permetterselo.

Nel film sopra citato, ad un certo punto, quando gli zombi arrivano al luogo sacro delle loro reminescenze umane, ovvero il centro commerciale, l’ambiente si rivela, anche visivamente, per quello che è, ovvero un luogo completamente asettico, un non-lieu.

Un altro frame, forse in questi anni è riuscito a riprodurre quel senso di estraneità sociale e umana e di atomizzazione, The Lobster (2015) del regista greco Yorgos Lanthimos, nella scena in cui Colin Farrell e Rachel Weisz, devono fingere di essere una coppia per poter sopravvivere, all’interno di un contesto edificato con vetro e metallo, proprio il centro commerciale.

L’invasione degli zombi non ci parla di creature soprannaturali, dell’ “invasione degli ultracorpi”, degli individui colpiti dalle radiazioni o da altre armi chimiche. I veri protagonisti – come raccontava Romero – non sono gli zombi ma gli umani, il sistema in cui la quotidianità delle relazioni di potere si riproduce in una situazione di emergenza. È quello che ha voluto comunicare in parte anche la puntata Men against fire (2016) del telefilm Black Mirror, in cui la prospettiva – e la sua percezione –  di chi possa essere realmente “un parassita” si può ribaltare.

Ad Amburgo, poche ore prima dell’inizio del meeting del G20 il gruppo di attivisti “1000 Gestalten” ha dato vita a una performance art in grigio di grande impatto, inscenando una metaforica “marcia degli zombi”, ma come scritto anche qui, le migliaia e migliaia di persone venute da tutta Europa in quelle giornate, non erano il corpo estraneo della città.

Non c’è troppo bisogno, in verità di squarciare veli di Maia o disinnescare particolari microchip dal cranio per rendersi conto chi siano quei – relativamente pochi – ma potenti parassiti della terra che si alimentano del corpo e del cervello della collettività per continuare ad esistere.

[1] Vincent Price: attore storico di film horror, ricordato per la caratteristica voce dalla dizione perfetta. Il suo ultimo film è stato Edward mani di forbice, nel ruolo dell’inventore.

[2] Nel documentario di M. Scorsese, A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies (1995), ci sono vari riferimenti a J. Tourneur nella parte: The director as smuggler.

[3] Il primo romanzo (pubblicato nel 1819) che ha re-inventato in epoca moderna la figura del Vampiro è di John Polidori, segretario e medico personale del poeta George Byron, si dice ispirato alla sua figura. Dopo una notte tempestosa nella villa di Byron, trascorsa a raccontare e inventare storie horror, gli ospiti furono ispirati nella trascrizione dei loro futuri e immortali romanzi. Così la giovane Mary Shelley che era presente in quella fantasmagorica notte scrisse è inventò la figura di Frankenstein e John Polidori quella del Vampiro.