ITALIA

Genova non è sola

L’ennesima tragedia ci ricorda che viviamo sull’orlo del precipizio. Il territorio, le case, le infrastrutture costruite ovunque e lasciate senza controllo e manutenzione crollano sulle nostre vite.

Immagini da film di fantascienza apocalittica. La lunga campata del viadotto autostradale si abbatte sulla ferrovia e le costruzioni sottostanti. Le auto che lo percorrevano piombano giù per 45 metri e si accartocciano insieme al cemento sgretolato. Un camion resta immobile al limite del baratro. La pioggia cade incessante sulla tragedia.

Non è un film, purtroppo, ma quello che è successo il 14 agosto 2018, su una delle autostrade italiane più trafficate. La stavano percorrendo in molti, diretti alle località lungo la costa ligure. Il numero delle vittime è in continuo aggiornamento e provoca dolore e sgomento in tutti noi. L’ennesima tragedia, ancora si parla di fatalità.

Sappiamo tutti che non è così.

A Genova è crollato il viadotto Morandi. Una struttura a stralli in cemento armato precompresso. Il progettista è stato uno dei più noti studiosi delle strutture in cemento armato e delle possibilità che offrivano di realizzare nuove forme spaziali con costi ridotti. Materiale da costruzione relativamente giovane il cemento armato, del quale non si conosce ancora la reale resistenza all’usura del tempo e delle sollecitazioni alle quali viene sottoposto. IL Ponte di Brooklyn, chiamato anche così per la vaga somiglianza con il celebre ponte americano, aveva una lunghezza totale di 1182 metri e la campata maggiore raggiungeva 210 metri, con un’altezza di 90 metri.

Una costruzione imponente, inaugurata nel 1967, che già nove anni fa era stata indicata, in uno studio commissionato da Autostrade per l’Italia alla società di ingegneria Spea, come a rischio. Era stata anche ipotizzata la sua demolizione, segnalando che il ponte Morandi era il tratto più trafficato della A10, con 25,5 milioni di transiti l’anno, traffico in continua crescita. Qualche intervento di consolidamento era stato fatto negli anni, e altri ne erano previsti, non tale da impedire l’improvviso collasso. Il numero delle vittime aumenta di ora in ora.

Siamo costretti ancora una volta ad assistere impotenti al disfacimento di quanto abbiamo costruito e non siamo stati in grado di mantenere e gestire, mentre si continua a parlare di grandi opere infrastrutturali che si vorrebbero realizzare.

Chi non ricorda l’opposizione al progetto della Gronda di Genova?

Un nuovo tracciato autostradale lungo 72 km per collegare l’area cittadina (Genova Est, Genova Ovest, Bolzaneto) con l’A26 a Voltri e con l’A10 a Vesima. Data la complessità dal punto di vista orografico del territorio attraversato, il nuovo sistema viario si dovrebbe sviluppare quasi interamente in sotterraneo e prevedere 23 gallerie, la realizzazione di 13 nuovi viadotti e l’ampliamento di 11 viadotti esistenti. A settembre 2017 è stato emesso il Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti che approva il progetto definitivo e dichiara la pubblica utilità dell’opera. Questa nuova bretella autostradale si sarebbe dovuta immettere nell’A10 proprio a ridosso del ponte crollato. Non alternativa a quel tratto autostradale come oggi dicono, ma il suo raddoppio.

Ancora si discute del Terzo Valico, opera ritenuta irrinunciabile, per collegare il Mediterraneo con il Mare del Nord da Genova a Rotterdam. Un tratto ligure di 53 km, di cui oltre 37 in galleria, per consentire il transito di treni merci. Gallerie nei comuni di Genova, Campomorone e Ceranesi in Liguria, e Fraconalto, Voltaggio, Gavi e Arquata Scrivia in Piemonte e nei comuni di Serravalle Scrivia e Novi Ligure in provincia di Alessandria.

Tutti comuni appartenenti a un territorio estremamente vulnerabile, come indicato dal rapporto Ispra sul dissesto idrogeologico. Il 91% dei comuni italiani si trova in zona a rischio idrogeologico, cioè in un’area in cui il pericolo di frane è elevato e la pericolosità idraulica è di livello medio.

Il problema non è tanto il rischio di frane in sé, fisiologico in un paese occupato per quasi tre quarti da rilievi montuosi e collinari, quanto la possibilità che questi fenomeni si abbattano su edifici abitati. Sono oltre 550.000 gli edifici costruiti in aree dove la pericolosità da frana è elevata o molto elevata e in cui vive circa un milione di persone. Abbiamo consentito che 7 milioni di italiani risiedano in territori vulnerabili.

Quello di oggi non è il primo crollo che si verifica, l’elenco è lungo:

Il 18 aprile 2017 si è verificato il crollo del viadotto della tangenziale di Fossano in Piemonte inaugurato nel 2000.

Il 9 marzo 2017 il ponte che era in corso di ristrutturazione lungo l’autostrada A14 Adriatica tra Camerino e Ancona Sud, nelle Marche è crollato.

Il 28 ottobre 2016 un cavalcavia sulla provinciale 49 Molteno-Oggiono cede al passaggio di un Tir sulla superstrada Milano-Lecco.

Il 10 aprile 2015 è una frana innescata da un periodo di prolungato maltempo la causa del crollo di un pilone del viadotto Himera sull’Autostrada A19 Palermo-Catania.

Il 7 luglio 2014 crolla un tratto del viadotto Lauricella lungo la statale 626 tra Ravanusa e Licata, in provincia di Agrigento.

Il 23 dicembre 2014 il viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, inaugurato con tre mesi di anticipo sui tempi previsti, dopo appena dieci giorni viene giù.

Il 22 ottobre 2013 a causa di un nubifragio crolla il ponte a Carasco sul torrente Sturla.

Il 18 novembre 2013 l’alluvione che colpisce la Sardegna fa crollare un ponte sulla provinciale Oliena-Dorgali.

Elenco impressionante, ma parziale che potrebbe continuare a lungo, come quello di frane e alluvioni che si sono verificate in ogni regione.

Genova, ancora lei, il 10 ottobre 2014 era stata colpita duramente dall’esondazione dei torrenti Bisagno, Sturla, Fereggiano, Noce e Torbella. La città è cresciuta costruendo sui fossi dopo averli tombati per rendere tutto il territorio disponibile alla rendita immobiliare. Il 60% dei torrenti è coperto dalle strade. Il pericolo di un’alluvione diventa concreto ad ogni ondata di pioggia. La conseguenza di tutto questo è stata pagata duramente. In quarant’anni 60 persone hanno perso la vita.

Come a settembre del 2015 quando la provincia di Piacenza fu devastata dalle esondazioni improvvise del Nure e del Trebbia, dovute al maltempo e ad ammassi di detriti, che causarono danni ingenti e la morte di tre persone. Oppure le esondazione dei torrenti e del fiume Albegna che hanno colpito i centri abitati di Albinia e Marsiliana, come la piena del Chiarone che ha provocato il crollo di un ponte a Capalbio.

A Sapri nel 2010 una frana, definita come evento non prevedibile e classificato come eccezionale, si è verificata lungo la statale Tirrenica, a sud-est dall’abitato. Dalla parte alta del versante, in corrispondenza di una delle scarpate si è staccato un masso ciclopico del volume di circa 2.000 metri cubi, che è scivolato verso valle, andando a terminare la propria corsa a circa 30 metri dalla sede stradale.

Nell’isola di Ischia la mattina del 30 aprile 2006, dopo tre giorni di piogge molto intense, una colata di fango e detriti ha distrutto un’abitazione in località Arenella, provocando 4 vittime, alcuni feriti e 200 sfollati.

Eventi alluvionali e franosi colpiscono la Sardegna, dove l’81% dei comuni è esposto a rischio idrogeologico.

Ancora una fatalità dietro l’altra? Come è avvenuto in occasione dei terremoti che hanno cancellato interi paesi?

Precipitazioni intense e prolungate che si abbattono su un territorio impermeabilizzato dall’intervento umano, dove le costruzioni impediscono alla pioggia di infiltrarsi nel terreno con un rapido aumento delle quantità di acqua che vengono immesse nei fiumi, dove la presenza di detriti e vegetazione, dovuti alla mancata cura dei corsi d’acqua, impediscono il regolare deflusso.

Nel nostro paese il rischio di frane e alluvioni è vasto, quanto quello sismico. Si è costruito su falde acquifere superficiali, lungo le pendici dei vulcani ancora attivi, in zone franose o ad elevato rischio sismico. Ci sarebbe bisogno di programmare investimenti sulla manutenzione del patrimonio così duramente ferito. Pensare alla messa in sicurezza idrogeologica e sismica di quello che si può salvare. Intervenire con le demolizioni in tutti quei casi che costituiscono un rischio prevedibile.

Una sola grande opera deve essere programmata e finanziata: la messa in sicurezza del territorio e la verifica delle condizioni strutturali degli edifici e delle infrastrutture. I costi per fare tutto questo sono elevati, ma non si può più rinviare.

Altrimenti avremo ancora funerali di stato, giorni di lutto cittadino, brevi biografie di chi è rimasto sotto le macerie, qualche accenno a sogni di vita spezzati e … avanti un altro!