MONDO

#GazaUnderAttack – Non è solo uno in più

Un ricordo di Rushdi Tamimi, manifestante di 31 anni, ucciso a seguito degli scontri con l’esercito a Nabi Saleh, Palestina.

In questo momento così difficile per la Palestina, e fremendo di preoccupazione e angoscia per la tregua che sembra non arrivare, credo sia importante ricordare una persona, morta lunedì 19 novembre, di cui nessun media di rilievo ha parlato.

È giusto ricordarla perché i morti, in questo ennesimo assurdo attacco, sono anzitutto persone, sono vite e sono storie, non possiamo ridurle a numeri.

Rushdi Tamimi aveva 31 anni. Era del villaggio di Nabi Saleh, un paese di 200 abitanti, 15 chilometri a ovest Ramallah.

A Nabi Saleh, da tre anni, ogni venerdì si manifesta per raggiungere un pozzo d’acqua, sottratto alla popolazione locale per darlo in uso alla vicinissima colonia di Halamish.

A Nabi Saleh la resistenza popolare è forte, ricorda molto la prima intifada, e come allora coinvolge tutti gli abitanti, uomini, donne, bambini, anziani. Arriva a manifestare a Nabi Saleh anche la gente dei villaggi circostanti.

Proprio per questo la repressione da parte dell’esercito israeliano è tremenda, la più dura tra tutti i villaggi della West Bank in cui è in atto la “popular struggle”, la resistenza popolare. In tre anni il saldo è di due morti e centinaia e centinaia di arresti e feriti.

E ogni venerdì ci sono pioggie di lacrimogeni, c’è la skunk bomb, cioè idranti che sparano una miscela tremenda di sostanze chimiche e maleodoranti sulle case, e poi proiettili, di gomma e non, contro le persone.

A Nabi Saleh, fin dall’inizio della Resistenza, le donne sono protagoniste. Nariman, la sorella di Rushdi, è sempre in testa a trascinare le manifestazioni.

Ogni venerdì a Nabi Saleh arrivano a manifestare anche decine di ragazze e ragazzi israeliani che si oppongono all’apartheid, vengono sopratutto da Tel Aviv.

Marciano a fianco dei palestinesi del villaggio e hanno con loro relazioni importanti, fatte di rispetto, conoscenza, consapevolezza della complessità del rapporto tra “colonizzato” e “colonizzatore”, ma anche relazioni fatte di scambio, contatto costante, spesso di amicizia e affetto, e sopratutto desiderio di lottare assieme contro l’occupazione, contro il muro, contro la separazione forzata.

Anche venerdì scorso, 16 novembre, sono arrivati, in tanti come sempre. Il villaggio questa volta era sotto assedio fin dalle prime ore del mattino, con check-point a bloccare le tre strade di collegamento, ma gli attivisti israeliani sono arrivati comunque, a piedi, camminando per ore tra campi di olivi e terreni incolti.

Anche venerdì scorso la manifestazione di Nabi Saleh è stata duramente repressa nel sangue. Accade sempre: quando scoppiano le “crisi” a Gaza, i cortei in West Bank sono ancora più ferocemente attaccati. Ci sono stati diversi arresti (compresa una volontaria italiana dello SCI) e molti feriti, tra cui Rushdi.

Tre giorni dopo, Rushdi è morto in ospedale per le ferite gravissime riportate durante il corteo di venerdì, mentre aiutava i ragazzini a uscire dalle nuvole di gas lacrimogeno.

Queste le immagini:

Che ogni giorno muoiano decine di persone a Gaza è un pensiero in sé insostenibile. Ma la morte di Rushdi, per il microcosmo di Nabi Saleh, per ciò che quel microcosmo rappresenta, è per me devastante anche sul piano simbolico.

Nabi Saleh dimostra che tutto quello che ci raccontano in tv sono ignobili falsità. Sono insostenibili, in questi giorni, i giornali e i commentatori che descrivono popoli che non si riescono a parlare, che non riescono a convivere, che si odiano.

È insopportabile sentire analisti che discutono della “difficoltà a trovare la via per la pace”, dell’”importanza del dialogo” e di simili fandonie. Non sopporto più chi dice che il problema è “la religione”, “la cultura”, “il fanatismo”, “il rapporto tra oriente e occidente”.

In Palestina, con il pieno sostegno della comunità internazionale, c’è un violento regime di ingiustizia economica e sociale e una oppressione atroce. La gente in Palestina sarebbe pronta non solo a convivere, ma anche a vivere bene assieme se ci fosse giustizia, se la terra, l’acqua, i diritti, fossero per tutti e tutte.

Se non ci fossero i muri. Se solo finisse la propaganda mediatica e l’ossessione per l’odio verso l’altro dei politici.Se solo finisse l’occupazione israeliana e la rete di soprusi che essa provoca.

Per raggiungere questi obiettivi, a Nabi Saleh e in altri villaggi da anni la gente lotta, assieme, per mettere fine all’ingiustizia, certo. Ma sopratutto lotta per dignità.

Martedì 20 novembre, a Nabi Saleh ci sono stati i funerali di Rushdi. Spero che tutti gli uomini e le donne che erano lì, sia israeliani che palestinesi, non perdano la voglia e il coraggio di Resistere.

Avrei voluto essere lì, per dire che sto con loro, oggi più che mai.

[Foto: funerali di Rushdi Tamimi. Nabi Saleh, Palestina, 20-11-2012]