editoriale

Fra splatter e cinepanettone

Che film avvincente ci fanno vedere, ma senza né capo né coda

Tre storiacce si annodano inestricabili, tre vicende di crisi irrisolte, di catastrofi annunciate e sempre procrastinate: il collasso di Berlusconi e del berlusconismo, la frammentazione del Pd e la tenuta delle larghe intese. Su tutti e tre i casi aleggia la mano di Napolitano, ma alla radice sta la violenza di una crisi che ha spinto l’Italia ai margini delle decisioni, l’ha commissariata affidandola a un pilota automatico che ne rende irrilevante il marasma politico e il degrado civico.

Prendiamola alla lontana, dal dicembre 2010, quando il governo Berlusconi entra in agonia per la defezione di Fini e l’incapacità di reagire alla crisi e per di più viene investito da una forte contestazione sociale che tocca il culmine, proprio il giorno della fiducia, con le manifestazione del 14. Napolitano manovra per allungare i tempi e consentire il “riacquisto” della maggioranza con Scilipoti e &, così che l’attesa caduta del pagliaccio sarà dilazionata di quasi un anno, fin quando la Bce si sarà stufata della commedia e piazzerà, sempre auspice il Quirinale, un uomo suo al vertice, costringendo i due opposti poli a collaborare a denti stretti. Con la caduta di Monti e le elezioni, Napolitano sarà costretto a varare il governo di larghe intese in cui i due poli si assumono responsabilità politiche, sempre per eseguire il programma della lettera Bce dell’agosto 2011. Il mantenimento di questo assetto à talmente necessario che la frammentazione di ciascuno dei due poli (del centro, che però non conta un cazzo), pur derivandone come conseguenza, nondimeno non deve interferire troppo con la stabilità del governo.

Napolitano garantisce, da vero giocoliere, tre processi centrifughi in modo da tirare a campare, smorzando per di più le furie del Cavaliere, che ha paura di finire al gabbio, e le smanie del bischero fiorentino, che ha fretta di diventare sindaco d’Italia prima che i suoi nemici interni lo logorino, nella più lineare tradizione del Pd: Prodi, Veltroni, Bersani, ecc.

Quando Berlusconi rischia di essere espulso dalla politica, il Quirinale lo tiene buono con vaghe promesse e organizza una secessione alfaniana che, unitamente a discrete pressioni di Borsa, lo ammansisce e limita i danni da consultazioni anticipate, lasciandogli tuttavia bastante forza da bilanciare l’offensiva di Renzi contro le larghe intese e da costringere Letta a mettere la faccia sulla difesa della traballante Cancellieri: se quella si dimette, chi ci mettiamo? Magari dobbiamo prenderci Nitto Palma, visto che tuttora Forza Italia non ha formalmente staccato la spina e potrebbe esigere una rappresentanza al governo?

Il governo di larghe intese era stato concepito e promosso da Berlusconi come un bis del governo Monti: incastrare il Pd, giocare il ruolo di governo –per garantirsi la salvezza dell’Amato Leader e degli interessi economici suoi e dei compari (Verdini in testa), nonché il mantenimento delle sciagurate promesse elettorali (abolizione dell’Imu)– e presentarsi infine al voto nel ruolo di oppositore delle tasse e della dittatura europea. Gioco quasi riuscito, sulle spoglie di Bersani, sennonché la magistratura l’ha fatto saltare con la condanna in Cassazione (i bravi giudici si erano stufati di porgere l’altra guancia) e perfino il masochismo del Pd non poteva arrivare al punto di passarci sopra. Il PdL a quel punto si è classicamente spaccato fra ministeriali (meglio un uovo oggi che una gallina domani) ed elettoralisti accaniti ((con una gallina vecchia e incandidabile). Che ci sia stata la manina di Napolitano ci si può giurare, come sul fatto che il medesimo desideri tenere i due spezzoni di destra ancora ravvicinati, per impedire colpi di testa di chi volesse, in quota Pd, far saltare le larghe intese (bene supremo di stabilità) giocando su maggioranze improvvisate, spacciate magari per sinistra a beneficio del sempre abboccante (e ridente) Sel.

E il Pd? La cura Napolitano ha finito per distruggere quello che ne restava dopo il tradimento a Prodi dei 101 e le pugnalate alle spalle contro Bersani. L’ultimo (fantasmatico) partito che sopravviveva dall’epoca della I Repubblica è scoppiato in mille pezzi con il congresso e le lacerazioni sulla legge di stabilità e sul caso Cancellieri. Il 46,7% a Renzi fra i tesserati significa in primo luogo che l’apparato –il principale residuo del passato– non è più in grado di controllare il commercio delle tessere e il voto di circoli e iscritti, insomma ci si può fare una croce sopra. Forse ancora abbastanza refrattario, soprattutto nelle grandi città, per mettergli i bastoni fra le ruote, non certo per aggregare e far valere una forza politica autonoma. Il progetto illuminista e rétro di Fabrizio Barca si è dissolto e il suo suggeritore è scomparso. D’Alema si asserraglia nel rancore ed emette profezie a getto continuo, puntualmente smentite dai fatti e dai numeri. Si sorvoli su Cuperlo, più invisibile del fatuo Civati. Renzi, d’altra parte, è blairiano nell’anima, ma senza uno straccio di programma: non che la gente non abbocchi, ma troppi marpioni sono saltati sul suo carro e il Grande Decisore e Rottamatore sembra avviarsi a un destino di loquace burattino, forse pure a impigliarsi nelle reti dell’apparato impotente ma vischioso di cui sopra.

Lo scandalo Cancellieri ha assemblato le tre storiacce: Letta e Napolitano hanno difeso l’indifendibile per non fare cadere il governo, ma così hanno conferito peso e unità ai due pezzi litigiosi e complici della destra e hanno mandato in mille pezzi discordi e rissosi il Pd, accrescendo il potere di ricatto sul governo di Renzi, che l’8 dicembre presenterà il conto, dopo essere divenuto segretario per plebiscito dell’unico partito in cui votano gli iscritti, i simpatizzanti, gli elettori e chiunque passi per strada. Renzi ha in testa un partito acchiappatutto, ma la maniera in cui sta arrivando al comando gli consente al massimo una campagna elettorale (se cade nel 2014), non un progetto di legislatura. Beh, che ci sarebbe di diverso da Berlusconi? Che Berlusconi ha riunificato una destra fino allora esclusa dal potere, mentre Renzi dissolve l’unico residuo partito primo-repubblicano (non parliamo di sinistra, socialdemocrazia o Pse), con un carisma molto più superficiale ed effimero del predecessore e senza avere i suoi soldi in proprio.

Torniamo alla domanda iniziale, cui in qualche modo abbiamo già anticipato una risposta. Perché quei tre processi –il crollo delle larghe intese oggi già trasformate in piccole intese, la scissione della destra, la spaccatura del Pd– restano possibilità ripetutamente annunciate e mai concretizzate? Cosa li trattiene dal precipitare in una chiarificazione indispensabile per riattivare una dialettica politica di tipo ordinario? Proprio l’inverosimile distacco fra il dibattito parlamentare e la situazione reale del paese (metteteci la precarietà, la diseguaglianza, la disoccupazione, il dissesto idrogeologico o quello che volete), fra ceto rappresentativo – non rappresentanti, ma gente che prende stipendi e benefit dalle istituzioni rappresentative,– e supposte loro constituency, interessi rappresentati, proprio questo, in tempi di crisi, consente che tutto si svolga al rallentatore, nel disagio e nella passività montante. Il ceto politico prende decisioni solo marginali, spartisce la poca ricchezza e la molta miseria obbedendo alle direttive della finanza e dei suoi apparati sovranazionali, quindi le loro liti interne sono velenose, interminabili e inconcludenti, anzi ogni reale cambiamento è solo che pericoloso per la “stabilità”.

Se poi qualcosa scricchiola nella pace sociale, a maggior ragione si moltiplicano sussurri e grida nelle assemblee elettive e nei talk show.

Accade, nel nostro cinepanettone (i tempi canonici si avvicinano) come nei video sado-maso in cui alla fine si mostrano i protagonisti sorridenti per tranquillizzare spettatori e censura che si tratta di finzione e non di snuff movie. Quelli i subalterni li vivono ogni giorno sulla loro pelle, con la crescente tentazione di prendere la parola e di ribellarsi. Impazienti e indelicati.