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Focus #1 / Un popolo, settantaquattro massacri. L’autodifesa ezida a Sinjar

La popolazione che abita i territori nord-occidentali dell’Iraq non ha subito soltanto il terribile genocidio da parte dell’Isis nel 2014. Ezidi ed ezide, infatti, sono una comunità discriminata praticamente da sempre, che si tratti del periodo ottomano o della caotica fase del post-Saddam

Se la condizione presente del popolo ezida è poco conosciuta, ancor meno si sa del passato di questa comunità che occupa il territorio di Sinjar, nel nord-ovest iracheno. Una popolazione fra le 500mila persone e 700mila persone, drasticamente calata in seguito al genocidio perpetrato dall’Isis nel 2014 fino ad arrivare al numero attuale di circa 300mila abitanti presenti nell’area, fra morti, rapiti e sfollati.

Eppure, non è certo la prima volta che ezidi ed ezide subiscono un crimine di così vasta portata. Anzi, stando alla parola di chi si trova in queste terre, quello compiuto dai miliziani dello Stato Islamico non è che il settantaquattresimo ferman, vale a dire il settantaquattresimo “ordine di massacro” emesso nei loro confronti (letteralmente, “decreto imperiale”).

Spesso invisi alla comunità islamica in quanto appartenenti a un culto considerato diverso dalle cosiddette “religioni del Libro”, per quanto seguaci di una confessione di ascendenza zoroastriana e gnostica sviluppatesi in seno all’Islam almeno per i primi tempi, ezidi ed ezide sono stati oggetto di numerose discriminazioni sicuramente già partire dal tredicesimo secolo.

Nel 1254, ad esempio, l’assiro convertito all’Islam Badr al-Din Lu’lu’, emiro della città irachena di Mosul, uccise 200 seguaci del culto ezida e decise di esumare dal tempio di Lalish a Ninive le ossa di Adī ibn Musāfir, personaggio di primo piano per la comunità ezida che vede in lui un’incarnazione della divinità dell’Angelo Pavone (Tawûsê Melek, divinità che di fatto corrisponde all’angelo caduto Satana, che però presso gli ezidi conserva una valenza totalmente positiva).

In seguito, in special modo durante l’impero ottomano, conflitti e scontri scoppiarono fra popolo ezida e turchi nonché fra popolo ezida e le stesse comunità curde, nonostante l’affinità etnica. Anzi, nel 1832, i mir curdi Bedir Khan Beg e Muhammad Pasha pare siano arrivati a uccidere circa 70mila ezidi ed ezidi, praticando sequestri e conversioni forzate. Similmente, il genocidio armeno e assiro dell’inizio del XX secolo ha coinvolto anche numerosi membri della comunità devota all’Angelo Pavone, provocando inoltre un alto numero di profughi.

Ma è forse col mandato britannico in Iraq successivo alla Prima Guerra Mondiale che, per ezidi ed ezide, si cristallizza una condizione di marginalità territoriale (e culturale) che perdura ancora oggi.

A quell’epoca (fine degli anni ‘10 – inizio degli anni ‘20), la regione del Sinjar si viene a trovare al centro di diversi interessi e strategie politiche: di accordo con i francesi, che controllano la zona siriana, gli inglesi cercheranno di utilizzare la comunità ezida – al tempo divisa fra diversi gruppi tribali spesso in conflitto fra loro, ma con la figura di Hamu Shiru che riesce a ottenere un generico controllo su quasi tutta la zona – soprattutto in funzione anti-turca, per contrastare cioè eventuali manovre espansionistiche di Atatürk.

Da qui il tentativo, poco riuscito, da parte delle forze britanniche di legare maggiormente a sé la popolazione di Sinjar creando delle milizie governative che integrino al proprio interno persone ezide. A partire dal 1924, però, prevalgono le dinamiche di scontro tribale, tali per cui nell’area si verificano scontri tra diverse fazioni ezide.

(tratto da Aspects of the social and political history of the Yazidi enclave of Jabal Sinjar (Iraq) under the British mandate, 1919-1932 di Nelida Fuccaro)

Dopo una certa attesa, il mandato britannico decise allora di bombardare la zona, provocando centinaia di morti: operazioni militari poco raccontate e anzi – come spiega la storica Nelida Fuccaro, fra i maggiori esperti dell’argomento, in scritti quali Aspects of the social and political history of the Yazidi enclave of Jabal Sinjar (Iraq) under the British mandate, 1919-1932 – spesso minimizzate da parte delle forze inglesi.

Così si arriva alla situazione attuale, che vede la comunità ezida ancora isolata e in qualche modo “confinata” nel lembo di terra attorno alla catena montuosa del Sinjar. Da una parte, la Turchia continua ad avere sulla zona mire se non espansionistiche, quantomeno di controllo e influenza.

Dall’altra, le autonomie curde del nord iracheno – rafforzatesi soprattutto durante gli anni ‘90 grazie all’intervento statunitense nella regione – e in particolare l’autonomia a guida del Kdr di Barzani si trovano in pessimi rapporti con ezidi ed ezide. I curdi iracheni, infatti, esprimono infatti sia una certa sudditanza nei confronti della politica, appunto, erdoganiana, sia una volontà di dominio che riguarda tutta la fascia settentrionale del paese, tra cui la zona di Sinjar.

La marginalizzazione del popolo ezida risulta molto evidente anche se si guarda al periodo del dopo-Saddam e in particolare al 2007, non troppo indietro dal momento presente. In quell’anno, verso la fine di aprile, inizia a circolare su Internet un video che diventa presto “virale”: si tratta del filmato dell’uccisione di Du’a Khalil Aswad, ragazza ezida lapidata a morte in un delitto d’onore circa due settimane prima presso la città di Bashika.

Si diffondono molto presto voci e dicerie sull’accaduto, non si sa quanto fondate: per alcuni il “movente” del femminicidio risiederebbe nella decisione da parte della ragazza di convertirsi all’Islam.

Fatto sta che di lì a poco si scatena una furia terribile nei confronti della comunità ezida: già il 22 aprile attentatori ignoti sequestrano un autobus di lavoratori di ritorno da una fabbrica tessile di Mosul.

Musulmani e cristiani vengono fatti scendere, mentre i 23 ezidi vengono portati nelle periferia est della città e fucilati. Ad agosto, invece, un letale attacco terroristico: nelle cittadine di Tilezer e di Siba Sheik Khidir vengono fatte esplodere alle prime ore del mattino ben quattro autobomba, che lasciano dietro a sé 796 morti e oltre 1500 feriti (si tratta del terzo attentato terroristico più sanguinoso della storia a livello mondiale).

Tutti crimini e rappresaglie che avvengono nel caotico contesto creatosi in Iraq dopo l’invasione da parte degli Stati Uniti, in cui odio interetnico e conflitti tribali sembrano subire una forte accelerazione così come pare verificarsi un aumento di violenza contro le donne.

È interessante riportare quanto diceva Mark Lattimer su “The Guardian” poco dopo l’uccisione di Du’a Khalil Aswad: «Dall’invasione del 2003, i progressi ottenuti negli ultimi cinquant’anni si stanno sgretolando. In gran parte del paese, le donne possono muoversi solo con una scorta maschile. Vengono abitualmente commessi stupri da parte di tutti i principali gruppi armati, compresi quelli legati al governo. Le donne vengono uccise in tutto l’Iraq in un numero senza precedenti».

Ezide ed ezidi si appellano alla Costituzione per essere tutelati. L’articolo 125 del testo iracheno elaborato nel 2005, infatti, menziona esplicitamente le diverse nazionalità ed etnie presenti sul territorio, affinché vengano garantiti a ciascun gruppo i propri diritti.

Tuttavia, pure a causa di una frammentazione della sovranità e della debolezza del governo centrale, è chiaro come tali propositi rimangano molto spesso sulla carta. L’autonomia, che il popolo ezida sta provando a costruire in seguito al massacro compiuto dall’Isis, è allora tutt’uno con l’esigenza di istituire anche le proprie forze di autodifesa. Grazie all’intervento del Pkk e all’aiuto fornito dalle unità curdo-siriane del Rojava, a Sinjar si sta provando ad andare in questa direzione.

Le unità delle Ybș e delle Yjș (create proprio in seguito alle violenze del 2007), divisioni rispettivamente maschile e femminile dei gruppi militari ezidi che si occupano della sicurezza esterna, così come le truppe delle Ezidxan Asayish (create dopo il massacro dell’Isis), che hanno come compito il mantenimento dell’ordine interno, rappresentano infatti un “patrimonio” imprescindibile della nuova società che si sta lentamente formando nella regione.

Non è un caso che con l’accordo del 9 novembre 2020 governo centrale e autonomia regionale curda chiedano proprio il ritiro di tale truppe, per assumere il controllo dell’area.

«È una decisione autoritaria presa senza consultarci – dichiarano quasi in coro Ybș, Yjș ed Ezidxan Asayish – un accordo fatto sulla nostra pelle». Non sarebbe certo una novità.

Tutte le immagini di Francesco Brusa

DINAMOpress è a Sinjar per incontrare il popolo ezida e per portare la propria solidarietà. Qui i contributi precedenti sull’argomento:

Verso l’incontro con il popolo Ezida

Verso Sinjar #1 / La strada dissestata

Verso Sinjar #2 / Macchie di verde

Verso Sinjar #3 / I numeri non sono importanti