MONDO

Verso Sinjar #1. La strada dissestata

Le fatiche che la delegazione di solidarietà con il popolo ezida sta incontrando nel tentativo di raggiungere Sinjar appaiono quasi come una metafora delle difficoltà che la popolazione stanziata nel Nord dell’Iraq sperimenta ogni giorno

La strada per Sinjar è frastagliata di posti di blocco. Il nord dell’Iraq – diviso nei governatorati di Ninive, Dohuk, Kirkuk, Erbil e Sulaimaniyah – è gestito e amministrato da strutture e fazioni diverse, almeno fin dagli anni ‘90: le autonomie regionali curde, legate al Kdr di Barzani da una parte e al Puk dei Talabani dall’altra, si assommano e confliggono con il controllo dell’autorità centrale di Baghdad.

A seconda della posizione, dunque, a pattugliare le vie settentrionali del paese – che si snodano fra distese brulle e ricche di petrolio, profili collinari più dolci e verdeggianti e i riflessi cromatici del fiume Tigri – si trovano peshmerga di differenti affiliazioni, le milizie sciite finanziate dall’Iran “Hejdî Şeebî”, membri delle forze armate nazionali. Oltre a presidiare la zona, garantendo una sorta di stabilità a seguito del cruento e confuso periodo di “guerra civile” sviluppatosi con l’invasione dell’Isis, ostacolano e impediscono gli accessi verso la regione del popolo ezida.

Arrivare a Sinjar, dove è appunto insediata la comunità che ha subito il terribile massacro da parte dello Stato Islamico nel 2014-2015, non sembra affatto semplice.

Ezidi ed ezide, una volta sottrattisi al giogo dei fondamentalisti grazie all’intervento delle truppe curdo-siriane di Ypg e Ypj e di guerriglieri e guerrigliere del Pkk, hanno iniziato a costruire e rafforzare la propria autonomia, formando anche le proprie truppe di autodifesa popolare. Va da sé che si tratti di un progetto inviso all’autorità centrale: il primo aprile di quest’anno è infatti scaduto l’ultimatum governativo per far ritirare le unità ezide e riprendere il controllo militare della zona. Il legame con i curdi del Rojava e con la realtà del Pkk, inoltre, rendono Sinjar oggetto degli attacchi della Turchia di Erdoğan, sempre più in buoni rapporti con l’autonomia a guida Barzani (con cui commercia in petrolio) e che non cessa di compiere raid aerei e bombardamenti.

Arrivare a Sinjar, allora, significa varcare una vera e propria frontiera. Non solo fra territori, culture e comunità diverse, ma anche fra diversi “modelli” di sviluppo politico e convivenza sociale. «Tutti questi controlli non hanno senso» – affermano convinte le persone che ci stanno guidando verso la regione ezida, mentre affrontiamo i posti di blocco. «Vogliono solo mettere pressione su chi cerca di portare solidarietà all’autonomia di Sinjar. Il governo centrale non attacca frontalmente, ma tenta di isolare e fiaccare la “resistenza” del popolo».

La realtà è che, a fiaccare la determinazione del popolo ezida, agiscono numerose oppressioni: da quelle secolari dovute alla fede della comunità di Sinjar, di ascendenza zoroastriana e perciò da sempre avversata da potenze musulmane e dall’impero ottomano, ai conflitti che scoppiano in continuazione per il controllo dei giacimenti petroliferi presenti nell’area, su cui lo Stato Islamico aveva tra l’altro basato la propria forza economica nel periodo di massima espansione, fino agli interventi strategici e all’influenza dei vicini Turchia e Iran, che riescono spesso a imporre la propria volontà alla debole autorità irachena, a sua volta in lotta fra i vari gruppi e le varie fazioni locali.

«Noi non riconosciamo i timbri dell’autonomia di Erbil», è infatti quanto ci viene detto a un certo punto, mentre veniamo fermati per un controllo dei passaporti al posto di blocco di Tal Afar, a soli 70 chilometri da Sinjar. Dopo un’attesa di circa tre ore nel caldo torrido e desertico della zona – dove nel 2017 si è combattuta un’importante battaglia fra le forze irachene e i fondamentalisti dello Stato Islamico – alle milizie sciite e turcomanne presenti si aggiungono membri delle unità speciali “Cêşa” e uomini dei servizi segreti.

Cellulari sequestrati, scortati dentro un centro militare nelle vicinanze – non senza un’accesa discussione – il messaggio è chiaro. «Dovete lasciare subito l’area», intima uno degli ufficiali. Non certo verso Sinjar, ma indietro: alle città di Mosul, ancora vistosamente puntellata di macerie, o di Erbil, dove ha preso le mosse il nostro viaggio.

Pur nel clima di tensione creato dall’ultimatum governativo, sono in corso trattative fra le autorità di Baghdad e l’autonomia di Sinjar affinché l’esperienza ezida possa essere pienamente riconosciuta e si possano costruire anche “canali d’accesso” semplici per chi vuole portare aiuto e solidarietà. Ma, in mezzo fra queste buone intenzioni, c’è – come si accennava – una strada dissestata da diversi interessi, influenze esterne, fazioni politico-religiose in confitto, gruppi militari e paramilitari di variegata appartenenza, ciascuno dei quali a costante e tenace presidio dei propri “pezzetti di terra e di potere” come si trattasse di tanti piccoli “feudi”.

In una simile situazione, per ezidi ed ezide, lottare per un’autonomia confederale solida e riconosciuta, allora, è quasi una questione di sopravvivenza.

Tutte le foto di Francesco Brusa