ITALIA

Finanziaria del governo Meloni: economia di guerra contro la forza lavoro

La Finanziaria ora in discussione unisce perfettamente la guerra contro il lavoro (fisco squilibrato a favore dei ricchi e della rendita e sostegno a una politica di bassi salari e occupazione povera) e l’impiego delle magre risorse in un’economia di guerra, in consonanza con la scelta europea di austerità e crescenti investimenti bellici in armi americane

Una delle principali critiche mosse alla nuova legge di bilancio del governo Meloni riguarda il ritorno all’austerità. In questi giorni è stato detto, non senza ragione, che questa manovra avrà scarsissimi effetti sulla crescita economica, polverizza le misure, senza affrontare i problemi strutturali del nostro modello di sviluppo nel contesto incerto dell’economia globale. Mancano concrete iniziative di sostegno al sistema di welfare pubblico. Le timide e parziali riforme fiscali rischiano persino di avere effetti regressivi, senza alcuna possibilità di attenuare le esplosive diseguaglianze di reddito.

È una legge di bilancio fortemente segnata dalla volontà del governo di applicare rigidamente i vincoli del nuovo Patto di Stabilità e Crescita, entrato in vigore nel 2024.

A luglio dello stesso anno, ricordiamo, è stata attivata per l’Italia, insieme a un gruppo di altri sei paesi europei, la procedura per «disavanzo eccessivo» (Francia, Belgio, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia). Le nuove regole comunitarie impongono a molti governi di ridurre i disavanzi pubblici al fine di mantenere la traiettoria di contrazione del debito, in un mondo segnato dalla rapida rincorsa al riarmo.

La discussione sulle nuove regole fiscali europee, in un continente dove le forze conservatrici e tardo-fasciste accumulano consensi, meriterebbe un approfondimento specifico. Quello che qui si proverà a fare, invece, è leggere questa legge di bilancio alla luce dell’attuale regime di guerra globale. Non si tratta solo di considerare il riordino della spesa pubblica a favore della difesa e della sicurezza e la conseguente contrazione di quella a favore degli ambiti civili. La questione di fondo è che questa nuova «economia di guerra» sembra orientare complessivamente le decisioni sul bilancio nazionale.

Le «logiche e mentalità belliche si sono insinuate e dominano sempre più le relazioni economiche, sociali e politiche» – scrivono recentemente Mezzadra e Hardt – «creando un’atmosfera di guerra».

Diventa sempre più difficile distinguere il confine tra le politiche industriali e di sviluppo con le strategie militari. Le decisioni che riguardano le politiche fiscali di redistribuzione dei redditi da lavoro, al contempo, sono strettamente connesse alla trasformazione delle catene del valore tedesche. Come suggerito da Cynthia Enloe in Twelve feminist lessons of war, la dimensione della guerra si intreccia con l’ordine patriarcale. Non è un caso che nella legge di bilancio, le politiche per la riproduzione sociale, solo per fare un altro esempio, sono segnate da una logica morale conservatrice e familista.

Debito pubblico ed economia di guerra

Dicevamo: la strategia del governo è, in primo luogo, quella di imprimere una drastica ed eccessiva riduzione del disavanzo primario. Secondo le stime del MEF contenute nel Documento programmatico di finanza pubblica (DPFP), approvato al Consiglio dei Ministri il 2 ottobre (che anticipa la preparazione della legge di bilancio), il rapporto deficit/PIL nel 2026 scenderà al 2,8%, al di sotto della soglia del 3% prevista dalle regole europee. L’indebitamento netto continuerà a calare nel biennio successivo, arrivando nel 2028 al 2,3 % del PIL, distanziandosi dalla soglia limite stabilita dai Trattati.

Secondo i dati sui conti pubblici rilasciati a settembre dall’Istat, nel 2024, il rapporto deficit/PIL è stato portato al 3,4% (dal 7,2% dell’anno prima, con le manovre espansive della fase pandemica alle spalle), con una discesa che continuerà anche nell’anno in corso.

La politica economica del Ministro Giorgetti a tutti gli effetti incarna la torsione conservatrice delle politiche fiscali neoliberiste.

Il forte disordine globale, il poderoso rallentamento dell’industria tedesca e, più di recente, l’incertezza dovuta ai dazi di Trump, sono solo una parte dei dati di contesto. La politica fiscale fortemente restrittiva del governo Meloni, sin dal suo insediamento, ha significativamente contribuito al risultato di un’economia asfittica. Il PIL reale, secondo le stesse previsioni del governo nel DPFP, si posizionerà allo 0,5% nell’anno in corso, per poi salire ad appena lo 0,7% nel 2026. La verità è che i pochi decimali di crescita previsti per il prossimo anno sono interamente attribuibili al residuo di spesa dei fondi PNRR. In assenza di queste risorse straordinarie, il contributo della legge di bilancio avrebbe un impatto negativo di 1,8 punti di PIL.

Questa è solo una parte del problema. La debolezza dell’economia è stata interamente scaricata sulla forza lavoro. La tanto decanta politica di «risanamento dei conti» di Giorgetti si è resa possibile solo grazie a una redistribuzione a favore dei profitti e della rendita. La riduzione del disavanzo è il prodotto di una crescita iniqua e sbilanciata delle entrate fiscali, oltre che della sforbiciata di una parte dei crediti edilizi (super bonus) e altre forme di contenimento della spesa. L’aumento del gettito è spiegato dalle nuove entrate dovute alla crescita dell’occupazione dipendente, che oltre a essere povera e precaria è anche più fortemente tassata di altre fonti di reddito.

In secondo luogo, le maggiori entrate per lo Stato si sono realizzate grazie al poderoso e odioso fenomeno del fiscal drag che opera sui redditi da lavoro, come conseguenza di un effetto perverso delle regole di tassazione nelle fasi inflattive. Il risultato è che le retribuzioni, a causa dell’aumento dei prezzi, oltre a perdere potere di acquisto, hanno subito una sorta di pressione fiscale ombra-aggiuntiva a vantaggio dei redditi da capitale e della ricchezza.

Giungiamo, così, a uno dei campi di maggiore tensione all’interno dell’architettura macroeconomica neoliberale sul piano internazionale. Ancor di più in questa nuova congiuntura segnata dalla guerra.

Il governo ha stimato che il rapporto percentuale del debito sul PIL nel 2025 si attesterà intorno al 136,2% (in risalita rispetto all’anno precedente), per poi crescere nel 2026 al 137,4%. Il rialzo del rapporto debito/PIL è la doppia conseguenza della stagnazione dell’economia e dell’aumento della spesa per interessi, che arriverebbe fino al 4,3% del PIL nel 2028, a fronte di una contrazione degli investimenti pubblici nell’«economia fondamentale» (strade, ferrovie, ospedali, scuole, università, ricerca, etc…), essenziali per la nostra riproduzione sociale.

Nel contesto della pandemia il livello del debito pubblico è aumentato in tutte le economie avanzate. Secondo il Fondo monetario internazionale nel 2025 il rapporto Debito/PIL in Ue sarà dell’83,1% (dal 79% nel 2019), in Francia salirà al 117%, in Germania passerà al 64% (dal 58,6% nel 2019), in UK sarà del 103,4%, negli Usa di Trump il 125%. Per l’”Economist” aleggerebbe sulle economie avanzate lo spettro di una inedita «crisi fiscale», del tutto diversa da quella degli anni ’70 raccontataci da James O’Connor, nel contesto delle imponenti lotte sociali. Il rapporto Debito/PIL nelle economie avanzate si attesta adesso intorno al 110%, prossimo al massimo storico, raggiunto solo durante le guerre napoleoniche, quando l’impero inglese inflisse un duro colpo ai francesi, creando le condizioni all’avvio dell’«età degli imperi» che giunse rovinosamente fino alla Grande guerra.

È una articolata sequenza storica che porta a questo risultato e che ha stimolato alcuni cambiamenti strutturali nella forma di accumulazione capitalistica. Prima la crisi finanziaria del 2007-08, poi la pandemia, in ultimo, la guerra in Ucraina e in Medio Oriente. Al cuore di questa sequenza la crisi inflazionistica e soprattutto i repentini cambiamenti delle politiche monetarie. A ciò si aggiunge la fortissima tensione che investe la radice e le prospettive politiche dello statuto stesso delle banche centrali, così come le abbiamo conosciute nella stagione neoliberale. L’attacco aggressivo di Trump al governatore Powell della Fed è solo la dimostrazione, più esplicita, di questo processo profondo.

In poco meno di venti anni si è passati da un modello di accumulazione fondato sull’indebitamento privato, a un altro, che vede nella nuova constituency del deficit spending “finanziarizzato” e del debito pubblico il nuovo motore della crescita. Un motore tutt’altro che stabile. Anzi, gli ingranaggi sono continuamente bloccati da attriti e forme di resistenze, se non da vere e proprie crisi. Come quando all’annuncio dei dazi di Trump nel Liberation day di aprile, gli operatori finanziari hanno risposto con uno «sciopero degli investimenti» mettendo a repentaglio la tenuta dei Treasury americani, principale salvagente del mercato finanziario globale.

Di fronte a questi rischi di crisi di fiducia che potrebbero creare problemi alle finanze pubbliche il governo italiano, in linea con le teorie economiche dominanti presso la Commissione europea, risponde che il modo migliore per placare gli animal spirits della finanza sarebbe quello di ridurre tendenzialmente e in modo indiscriminato il debito, soprattutto in una fase stagnante. Senza considerare, semmai, che la soluzione risiede piuttosto nel «segreto laboratorio» della produzione della moneta e della sua circolazione, ovvero sul terreno dei sistemi di finanziamento del debito pubblico, ripensando dalle fondamenta un «governo della moneta» pienamente democratico.

È in questa condizione di profonda incertezza che, l’Italia e i paesi europei, hanno intrapreso il loro cammino verso il riarmo, per rispondere al nuovo target Nato stabilito durante il summit all’Aja di giugno, dove i paesi aderenti si sono impegnati a portare la spesa per la difesa al 5% del PIL entro il 2035.

Verso un nuovo keynesismo militare finanziarizzato?

La contrazione del disavanzo primario, portata oltre le raccomandazioni del Consiglio europeo di aprile, ha uno scopo principale, quello di recuperare i margini contabili necessari per finanziare la spesa militare.

Stimare la spesa per la difesa non è semplice. Nella legge di bilancio ci sono allocazioni finanziarie esplicite, altre meno. Sono assegnate direttamente al Ministero della Difesa, ma anche al MEF e al MIMIT. Serve, dunque, adottare un metodo di revisione della spesa. Anche le poste attribuite palesemente alla Missione «Difesa e sicurezza del territorio», solo per fare un esempio, vanno scorporate della parte destinata alla sicurezza civile. L’osservatorio MIL€X propone da anni una metodologia di calcolo.

Per il 2026 le risorse a disposizione per la sola spesa militare diretta arriverebbero complessivamente a 33,9 miliardi di euro circa, con un incremento del 2,8% rispetto all’anno precedente (nel 2017 erano 23,3 miliardi di euro a valori correnti).

In dieci anni, dal 2014 al 2024, la spesa militare in percentuale del PIL è aumentata del 30,7% in Italia, più della Francia +13,2%, ma molto meno della Germania +78,1% e, soprattutto, della Polonia (+119%) e degli altri paesi dell’est Europa. È un processo che specialmente nel nostro continente si è intensificato con l’invasione russa della Crimea, accentuatosi poi negli ultimi anni. Si tratta, pertanto, di tenere insieme le dinamiche storiche così come le rotture e le accelerazioni.

Questa, però, resta solo una parte delle risorse disponibili a scopi militari. La nuova strategia Nato, ampiamente affrontata nel dibattito pubblico, è stata declinata e preparata in anticipo (marzo 2025) da una comunicazione della Commissione europea, che ha previsto la possibilità di attivare la «clausola di salvaguardia» inserita nel Regolamento UE 1263/2024, che consente agli stati membri di deviare dalla traiettoria della spesa per le spese militari aggiuntive fino al 2028.

Il governo Meloni, nel già richiamato DPFP, ha confermato che richiederà il ricorso al Security Action for Europe (SAFE), il nuovo strumento finanziario europeo istituito per sostenere gli investimenti nella difesa. Il Piano vale complessivamente 150 miliardi di euro e la Commissione a settembre ha pre-assegnato all’Italia una quota di 14,9 miliardi. Il SAFE sarà finanziato grazie all’emissione di obbligazioni sui mercati finanziari e le risorse saranno trasferite agli Stati membri sotto forma di prestiti garantiti dal bilancio europeo. «Entro la scadenza del 30 novembre» – si legge nel DPFP – «dovrà essere inviata alla Commissione la richiesta formale di prestiti accompagnata da un Piano dettagliato con i programmi da finanziare, se possibile mediante commesse condivise con altri Stati membri».

La novità, per usare un’espressione di Daniela Gabor, è che siamo dinanzi a un intervento pubblico che assume le caratteristiche del de-risking State. La spesa pubblica rivolta all’aumento della capacità produttiva dei «sistemi d’arma» (anche attraverso partnership strategiche tra la Leonardo e la tedesca Rheinmetall, ad esempio), per la protezione delle cosiddette infrastrutture critiche, per l’innovazione e il rafforzamento della base industriale nelle applicazioni dual use, è impiegata allo scopo di minimizzare i rischi di investimento privati e opera sempre più coerentemente dall’interno dei flussi finanziari internazionali. In questo senso, intendiamo che il «keynesismo militare», non è più quello osservato durante la guerra fredda, ad esempio, poiché interagisce più dall’interno con le logiche di un complesso digitale-militare-industriale fortemente finanziarizzato.

L’altra questione con cui fare i conti è che l’orizzonte neo-austeritario del nuovo Patto di Stabilità e Crescita e la spesa pubblica espansiva per la difesa coesistono. Sono due facce di questa Europa sempre più autoritaria.

D’altronde, non è neppure la prima volta in assoluto che queste due tendenze si intrecciano sul piano storico. Pur escludendo qualsiasi confronto diretto tra due epoche irrimediabilmente diverse, l’economista e politico italiano Maffeo Pantaleoni, consigliere e sostenitore di Mussolini nonché membro del Senato, in un articolo dal titolo esplicito «Finanza fascista» del 1923, caldeggiava per un forte rigore di bilancio secondo la più tradizionale logica liberista e, allo stesso tempo, sosteneva il mito guerresco dell’impero in armi attraverso la spesa pubblica espansiva. Sia il nazionalismo che il fascismo venivano ricondotti da Pantaleoni all’ortodossia liberista, nella speranza di realizzare un’autentica «restaurazione capitalistica» connessa ai propositi di una destra storica, con una vocazione illiberale e antidemocratica.

La guerra contro la forza lavoro

Il recente Rapporto mondiale sui salari (2024-25) dell’ILO conferma la pesante «crisi salariale» italiana. Negli ultimi diciassette anni i salari reali italiani hanno accumulato la perdita più elevata nell’ambito dell’economie avanzate del G20, con una contrazione pari a -8,7%. Pochi giorni fa l’Istat ha pubblicato le stime sulle retribuzioni contrattuali nel III trimestre dell’anno. A fine settembre risultano 46 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica, che coprono poco più della metà dei dipendenti (56,9%, pari a circa 7,5 milioni). Sono 29 i contratti collettivi in attesa di rinnovo, coinvolgono circa 5,6 milioni di persone, il 43,1% dei dipendenti. Se non corressimo il rischio di abusare troppo in espressioni militaresche, a ragione avremmo diritto a dire che la forza lavoro in Italia subisce gli effetti di una «guerra dei trent’anni».

In questo quadro, particolarmente grave, il governo introduce tre principali misure fiscali, del tutto insufficienti (4 miliardi di euro per il 2026-28 in totale):

  • riduce l’aliquota IRPEF nello scaglione 28-50 mila euro, che passerebbe dal 35% al 33% (che costa 2,9 miliardi di euro nel 2026);
  • introduce una imposta sostitutiva al 5% per gli incrementi retributivi dovuti all’attuazione di rinnovi contrattuali (del 2025-2026), ma solo per i redditi lordi inferiori a 28 mila euro (appena 0,5 miliardi di euro nel triennio 2026-28);
  • per il 2026-27 l’imposta sostitutiva per i premi di risultato è decurtata dal 5% al 1%, mentre il limite agevolabile salirebbe da 3 mila euro a 5 mila euro annui (pari a 0,6 miliardi di spesa nel prossimo triennio).

Al di là dalle dichiarazioni propagandistiche della maggioranza, sono gli stessi documenti ufficiali del MEF a dimostrare che queste misure non avranno nessun effetto positivo sulle diseguaglianze e la povertà.

Secondo le stime del ministero dell’economia l’impatto della legge di bilancio lascerà completamente inalterato il rapporto tra il reddito posseduto dal 20 per cento della popolazione con reddito più alto, rispetto al reddito posseduto dal 20 per cento della popolazione con reddito più basso (pari a 5,7% dal 2026 al 2028, in linea con l’anno precedente). Così come non cambierà nulla per l’incidenza della povertà assoluta familiare, che non si smuoverà dall’attuale 8,4%.

Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che si tratti solo di misure insufficienti. Modificare i salari solo attraverso la leva fiscale redistributiva, premiando soprattutto in modo esorbitante la componente accessoria dei premi di risultato (l’intramontabile mito padronale della produttività individuale del lavoro), non significa solo fare poco. Significa, piuttosto, agire nella struttura della retribuzione, favorendo un modello di contrattazione che nel medio e lungo periodo continua a impoverire ancora di più i salari e le pensioni. È facile pensare che i governi conservatori, autoritari o espressamente tardo-fascisti vanno con la mano pesante contro chi lavora.   

È più difficile saper riconoscere che le destre non rispondono solo a interessi capitalistici e logiche politiche “arretrate”, ma piuttosto possono essere in grado di imporre nuove regole di produttività della forza lavoro e, dunque, innovazioni sul terreno dello sfruttamento.

È per tutte queste ragioni che diventa fondamentale contrastare la politica economica di questo governo, anche perché a questi elementi si aggiunge il problema del sostanziale definanziamento delle risorse per il welfare (sanità, ricerca, scuola, etc…). L’«economia del genocidio», per usare un’espressione della relatrice speciale dell’ONU per la Palestina Francesca Albanese, è il risultato di una complessa concatenazione di politiche sul piano internazionale, che come descritto, hanno un impatto significativo sulle politiche economiche europee.

Per questo l’energia delle mobilitazioni a favore del popolo palestinese è difficilmente separabile dalle lotte sociali necessarie, qui, in Italia e in Europa.

La copertina è di Flickr (dominio pubblico)

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