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“Opera senza autore” di Donnersmarck

Dopo la parentesi hollywoodiana di “The Tourist”, il regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck esce in sala con il suo ultimo e ambizioso lavoro “Opera senza autore” (“Werk ohne Autor”), tornando sulle tracce del suo film d’esordio, “Le vite degli altri”. Circa trent’anni di storia tedesca su cui viene ricamata la vicenda privata di un pittore di Dresda. Una riflessione sul rapporto tra arte e vita, bellezza e verità

Se sia l’arte a imitare la natura o piuttosto la natura a imitare l’arte è una grande questione sin dall’alba del pensiero occidentale, fonte preziosa di aneddoti e storie. Nel suo ultimo lavoro in concorso per il Leone d’oro, il regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck sollecita il dubbio mettendolo in scena sull’ampio palcoscenico della storia tedesca in un arco temporale che va dal nazismo agli anni Sessanta del Novecento. Una questione che ha a che fare con verità e bellezza, etica ed estetica, creazione e contemplazione; categorie classiche che in quest’opera di circa tre ore servono al regista per creare l’universo del racconto.

Il punto di vista e l’intenzionalità sono altresì chiamati in causa ripetutamente. Mai distogliere lo sguardo, viene ripetuto come fosse un motto salvifico (il titolo inglese del film è infatti “Never Look Away”). Uno dei temi, dunque, argomenta come guardare, come mettere a fuoco il passato per arrivare alla comprensione dell’armonia cosmica che regola le cose presenti. Una ginnastica dell’osservazione che permetta di trasformare il trauma personale e collettivo in atto di creazione.

Varrebbe forse la pena riformulare l’antica questione così: l’arte aiuta a svelare o impone un modello?

 

 

Kurt Barnert (Tom Schilling) è un bambino dalla spiccata sensibilità che negli anni Trenta vive a pochi chilometri da Dresda. Ventenne attraversa gli anni del realismo socialista da studente dell’accademia nella Germania dell’Est per poi fuggire nell’Ovest il decennio successivo in cerca di libertà espressiva e di nuovi stimoli. La grande ossessione latente in questo percorso biografico, riflesso dell’identità tramortita della Germania, è incarnata nella figura del professor Seeband (Sebastian Koch), ginecologo del Terzo Reich che contribuì al delirio eugenetico dello sterminio nazista dei disabili e dei malati e che trent’anni dopo continua a esercitare sotto mentite spoglie.

Si dice che i grandi sappiano raccontare con semplicità storie complesse, che sappiano comunicarne il senso senza l’aiuto di particolari guizzi stilistici, senza dimostrazioni artificiose. Ebbene, Florian Henckel von Donnersmarck, ha tutte le sembianze dei grandi narratori, anche se con questo film decide di rimanere sulle frequenze del grande pubblico senza osare come potrebbe.

Il regista, Premio Oscar per Le vite degli altri, torna dodici anni dopo con un film di cui firma ancora una volta la sceneggiatura, spostando l’attenzione dalla percezione uditiva a quella visiva.

Certo, è difficile tenere il sofisticato livello dell’esordio del 2006 con cui fu acclamato come uno dei più promettenti registi europei, ma quella che sembra – come descritta da molti – una scrittura televisiva si potrebbe anche leggere come la scelta di affrontare secondo una logica lineare un materiale storico impegnativo che viene ricamato dalla microstoria di Kurt, tratta per altro dalla biografia dell’artista tedesco Gerhard Richter.

 

 

È certamente un racconto di formazione in tre atti, accompagnato dalle bellissime musiche dell’ormai celebre compositore tedesco Max Richter, in grado di procedere per ben 188 minuti senza che si senta il peso di una tale durata.

È ambizioso maneggiare un tale materiale narrativo, come ambizioso è affrontare il tema della verità recuperando le categorie classiche per riflettere sul presente. Del resto, il regista sembra suggerire chiaramente e con un certo sarcasmo l’insensatezza del superamento dell’arte figurativa in favore dell’ossessione per l’idea legata al successo dell’arte contemporanea. Kurt, infatti, nonostante il trasferimento nella parte Ovest del paese, dove la pittura viene descritta come tecnica desueta e quasi morta, dopo un’estenuante ricerca dalla mossa (artistica?) vincente, tornerà al ritratto familiare per far emergere gli elementi critici del suo passato e trovare così la bellezza nella verità del suo dramma. Se l’autore Kurt, dunque, non scompare affatto dietro le sue opere regalando piuttosto pezzi di biografia al proprio pubblico e venendo così acclamato come promessa dell’arte contemporanea, è piuttosto Florian Henckel von Donnersmarck che decide, con una regia quasi invisibile, di mettersi completamente al servizio del racconto e presentando così la sua opera senza autore.