SPORT

Febbre a 90 – 12a puntata

Requiem for a Zeman.

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di Agostino Sotgia.

Fa tristezza vedere Zeman esonerato a metà campionato. Fragoroso è il rumore che fa il fallimento, almeno finora, del “Progetto Roma” del tandem Unicredit/Usa. Soprattutto dispiace. Ci vuole tempo per rifare le fondamenta e ricostruire ma è innegabile che la partenza, con 2 allenatori sbagliati, non è delle migliori.

A pagarne le conseguenze ora è stato Zeman, forse alla sua ultima chance di una carriera di luci e ombre, esoneri ed entusiasmo, processi ed epurazioni. E dispiace che il calcio di serie A abbia perso un personaggio, spesso troppo caricato, su cui lo stesso boemo ha costruito vittorie e sconfitte.

Zeman se ne va, col suo sogno del calcio all’attacco. Una città divisa in 2 tra chi lo amava e chi lo detestava. Tra quelli che vorrebbero divertirsi e quelli che vogliono vincere, come se la Roma avesse una storia fatta di vittorie e di trofei.

Andandosene via si porterà con sé quell’alone da guru che a Roma ha sempre fatto appeal sui suoi tifosi. In fondo agli italiani l’uomo forte, il santone, il guru, uno che li rappresenti, è sempre piaciuto. E Zeman era tutto questo. E questo, probabilmente, è stato il più grande errore.

Scettico dall’inizio che fosse l’uomo giusto per una piazza come la Roma, sono rimasto sorpreso da come il Boemo ha gestito il suo rapporto comunicativo. Dall’alto della sua esperienza ero sicuro che almeno su quello avrebbe riportato la giusta distanza e il giusto senso delle cose ma così non è stato. Ho la sensazione che lo Zeman di oggi sia un po’ troppo chiuso nel suo personaggio, un po’ troppo chiuso in se stesso, come se questi anni lontani “dal calcio che conta” lo avessero riempito di rancore più del dovuto.

La gestione del gruppo e la gestione dei rapporti con la stampa sono stati a dir poco deludenti. I giocatori, a differenza delle esperienze passate, non hanno mai sposato il progetto Zeman, mentre nel suo rapportarsi con i media, ho trovato spesso assolutamente incomprensibile il suo non sottrarsi mai da nessuna polemica. Passati i primi mesi a togliersi sassolini dalle scarpe e a polemizzare con la Juventus e “i poteri del calcio”, dopo la rovinoso sconfitta di Torino, ha cominciato una battaglia con alcuni giocatori della sua rosa. Una battaglia che tatticamente poter aver senso ma che non è stato capace di portare dalla sua parte, danneggiando ulteriormente tutto. Fino ad attaccare frontalmente la stampa romana (e qui non si può dargli torto) la sera della conferenza stampa, la sua ultima da allenatore della Roma. Il perché di questi errori non li so, non li capisco, non avrei neanche gli strumenti per farlo, però così è andata.

I tifosi che smettono di sentirsi romanisti per diventare zemaniani è uno degli effetti che quest’uomo provoca. Eppure, nonostante quel che si dica, il calcio è uno sport semplice, in cui non esiste un modello vincente, dove piedi e testa devono girare alla stessa velocità e intensità. Zeman non è un guru e sbagliano chi personalizza troppo il tutto. Zeman è un bravo allenatore, uno che sa insegnare calcio e che sa farsi amare anche dai propri giocatori. In questa esperienza romanista non è riuscito nelle cose che sapeva fare meglio: coinvolgere un gruppo di calciatori e farli entusiasmare attraverso il suo modo di giocare e interpretare calcio.

Ora chissà se quei romanisti diventati zemaniani, che arrivavano allo stadio con magliette con la faccia di Zeman come alcuni vanno alle manif con le t-shirt raffiguranti Che Guevara, torneranno a essere tifosi della Roma o no. Poco importa. Abbiamo visto andare via e ritornare anche Nils Liedholm, possiamo sopportare anche questo. Le separazioni fanno parte del calcio.

D’altrocanto ho sempre pensato che la scelta fatta a giugno dalla dirigenza romanista fosse sbagliata. La sensazione è che hanno puntato facile dopo la deludente stagione del “projecto”, andando a prendere un uomo che pensavano di conoscere, come se gli anni non passassero mai, che avrebbe riportato entusiasmo e abbonamenti, capace di saper lavorare sui giovani in cui la Roma giustamente punta, perché in fondo i tifosi sono una massa di coglioni. E chi fa calcio e gestisce il calcio lo sa bene.

Ma il sogno di Zemanlandia sprofonda, così come sprofonda un progetto, ambizioso troppo ambizioso, in cui l’onnipresente Unicredit continua a vantare interessi fortissimi e a spostare equilibri, e la dirigenza americana sembra quantomeno inadatta per navigare nel mare di squali di cui è fatto il calcio in Italia. Pensavano di venire qui, costruire una squadra che sapesse vendere un brand, muovare entusiasmo attraverso la costruizione di uno stadio, fare del business, come si fa in tutte le parti del mondo, attraverso lo sport. Ma l’Italia è una anomalia e il calcio ne è uno specchio. Vuoi avere peso politico? Alleati con Galliani, come fece Franco Sensi dopo aver cacciato Zeman. Vuoi costruire uno stadio, come si fa dappertutto? Sì ma il costruttore ce lo mettiamo noi (Parnasi/Unicredit) e invece di uno stadio ti costruiamo un quartiere, in cui lo stadio sarà soltanto quel valore in più da far pesare sul prezzo delle case stesse.

In fondo la Roma è un’anomalia sul panorama italiano: nessuna squadra muove un “indotto” fatto di quotidiani, trasmissioni radiofoniche e televisive, che muovono soldi e interessi difficilmente quantificabili. E allora ecco che durante questa gestione societaria, c’è stata una parte di questo “indotto” che siccome era legata alla vecchia dirigenza o trasmette o scrive per chi spingeva per un’altra proprietà, schierarsi e fare guerra a Baldini e agli americani, rei probabilmente di aver ridotto il loro giro di interessi.

Ora bisogna cucire le ferite e ripartire. E’ finito il tempo dei guru, di disneyland, di brand e di business. Cercare di fare le cose diverse in Italia è impresa difficile, soprattutto se si vuol farli in completa autonomia. Altri oltre a Zeman o a Luis Enrique hanno sbagliato e prima o poi sarà tempo di bilanci. Spero proprio che la voglia di cambiamento che ha annunciato 2 anni fa la nuova dirigenza sia sincera e ostinata. Ne varrebbe la pena, ma tocca credere in quel che si fa.