ITALIA

Il fallimento di Banca Marche, il rancore sociale e il consenso razzista

Esiste un rapporto tra le torbide pulsioni di destra che si agitano nelle Marche, di cui Fermo e Macerata sono state le punte emergenti, e il fallimento di Banca Marche? Tra il consenso razzista attorno all’attentato di Traini e la distruzione di un tessuto economico e sociale?

Quando si indaga il disagio sociale strisciante delle Marche, regione di grande risparmio, piccola impresa e considerevole propensione al gioco d’azzardo, non si può trascurare l’effetto devastante che ha avuto il fallimento di Banca Marche, con conseguente applicazione nel 2016 del bail-in, vago, lento e assai parziale rimborso di alcuni dei danneggiati e il contenzioso trasferito con poche speranze all’Ubi Banca, che nel 2017 l’ha riassorbita insieme a Banca Etruria, Carife e CariChieti.

Delle vicende di Banca Etruria molto si è parlato, anche per l’evidenza mediatica del ruolo della famiglia Boschi e le connessioni con il Giglio Magico renziano (la crisi è stata micidiale nell’aretino, ma benefica per l’Italia, per quanto contribuito all’esito del referendum e alla caduta del Bullo di Rignano), ma ricordiamo che le perdite di Banca Marche sono pari a tre quarti del totale di tutte le quattro banche in questione. Fra il 2010 e il 2013 l’istituto è abbastanza in equilibrio e positivamente collegato al territorio, ma viene travolto dalle spregiudicate manovre del suo gruppo dirigente, e scarsamente o tardivamente sottoposto alla vigilanza di Bankitalia e Consob. Nel 2017, fallendo ogni ricapitalizzazione e dichiarando default, gli amministratori più compromessi vengono estromessi e vanno a processo presso il tribunale di Ancona.

Il commissariamento nel 2013 e la messa in liquidazione nel 2015, secondo le nuove regole europee, ha salvato i correntisti entro il limite di 100.000 € ma non gli azionisti e i detentori di obbligazioni subordinate (quelle con rendimenti vantaggiosi emesse dalla stessa banca).  Teniamo conto che, a parte le solite disinvolte offerte di alti tassi a clienti sprovvisti di adeguata propensione al rischio, era costume di quella, come di molte altre banche popolari, collegare in modo più o meno imperativo la concessione di prestiti e mutui alla sottoscrizione di azioni e obbligazioni. Il rapporto con il territorio, con le sue tentazioni di clientelismo politico consociativo, era intrecciato con la manipolazione di una platea di medi risparmiatori che svolgono o svolgevano attività imprenditoriali (più i soliti mutui casa). L’ideale per una bolla, gonfiata da crediti “amicali” inesigibili (spesso mascherati con garanzie consistenti in ulteriori finanziamenti), rischiosi investimenti immobiliari (con il gruppo Anemone-Balducci, tra i più malfamati e condannati della nostra storia economico-politica recente) e aggravata da truffe individuali, come la manomissione parziale del sistema informatico e gli auto-prestiti elargiti al dg Massimo Bianconi e altri.

Falliscono i vari salvataggi che avrebbero dovuto garantirne la “marchigianità”: la stessa crisi del 2008, che aveva reso insolvibili molti degli imprenditori fin troppo generosamente finanziati prima e soprattutto dopo, rendeva poco plausibile trovare candidati salvatori locali, per esempio Vittorio Merloni, che nel 2014 chiude addirittura le sue attività nel settore elettrodomestici. Si arriva così al solito calvario dei correntisti/obbligazionisti/azionisti fregati, che vedono svanire in una notte (il 22 novembre 2015, per la precisione) i risparmi di una vita e cercano disperatamente qualche risarcimento, prendendosela con la Banca e con i politici e istituzioni locali che avevano passivamente assistito allo sfascio e, anzi, spesso accreditavano stipendi e pensioni in quella sede, fornendo una tacita garanzia di sicurezza. Ma soprattutto il peggio doveva ancora venire: da quella data cessano del tutto i finanziamenti alle imprese locali (unica fonte per un tessuto diffuso, un modello spesso vantato di distretto industriale e di artigianato specializzato). Inutile aggiungere che il prezzo del risanamento collegato all’assorbimento nell’Ubi è lo smantellamento di buona parte di una rete di filiali che assicuravano occupazione e servizi in regione. Che la banca subentrante possa farsi carico di ulteriori risarcimenti è una favola, visti i protocolli di liquidazione.

Rispetto alla visibilità dei truffati di Banca Etruria, che hanno ricevuto un potente sostegno mediatico in funzione antirenziana, i marchigiani sono stati tosati senza troppe proteste e per cifre ben maggiori. Ma certo con un incremento di disagio, oltre ai colpi della crisi sul manifatturiero, che sta trasformando molecolarmente la “quarta regione rossa” – tanto sicura che nel collegio di Pesaro-Urbino è stato paracadutato Minniti – in un’area di torbide pulsioni di destra, di cui Fermo e Macerata sono state le punte emergenti. Parliamo non dell’occasionale origine e residenza di sbandati, ma dell’inopinato consenso che hanno ricevuto nella società civile locale e nei pavidi amministratori.

È del resto un classico che le ferite ricevute per le disfunzioni del sistema capitalistico – tanto più in quanto neppure oggetto di una resistenza corporativa – vengano sfogate contro capri espiatori. Gli ebrei (ricchi e poveri) nella Germania di Weimar, i migranti (poveri) nelle Marche e in Italia. Con il consueto corollario dell’ebreo stupratore e avvelenatore del sangue tedesco negli anni ‘20 e ‘30, del migrante stupratore e spacciatore ora da noi.