approfondimenti

ITALIA

Facciamo che… reinventiamo la scuola

La seconda tavola rotonda promossa e organizzata dall’associazione L’Erbavoglio è dedicata alla scuola e alla didattica a distanza, indagando come quest’ultima stia trasformando i luoghi dell’educare e il rapporto educativo. Nel rapporto complesso tra educazione, scuola e società, come combinare in modo virtuoso il sapere pedagogico plurale di docenti, alunni/e, genitori? Come immaginare un nuovo modo di fare scuola? Quali nuove forme di apprendimento, accesso e crescita dovremmo pretendere? Ne discutiamo con Giulia Barra e Carla Gueli, insegnanti impegnate nella ricerca, animatrici del gruppo Dietro la lavagna – Gruppo scuola Zazie nel quartiere Pigneto di Roma; Patrizia Cinti, sociologa e docente alla Sapienza Università di Roma; e le Cattive maestre, collettivo romano di docenti di diversi ordini di scuola, precarie e di ruolo

La pandemia ha imposto in maniera emergenziale la didattica a distanza per tutti i cicli della formazione. Cosa s’intende esattamente per didattica a distanza? Fino a che punto è possibile organizzare lezioni e attività con la DAD?

 

Carla Gueli, Giulia Barra (CeG) La didattica a distanza è una soluzione emergenziale messa in campo a seguito delle misure di distanziamento sociale dovute al coronavirus. Gli elementi critici sono tantissimi, ma non dobbiamo sovrapporli a una critica sull’uso della tecnologia nella scuola, che di per sé ha molte potenzialità. Le problematiche messe in luce dalla DAD ci consentono di riflettere sulla scuola in senso più ampio, cosa che già nei mesi precedenti all’emergenza avevamo cominciato a fare negli spazi di Zazie nel Metrò, in un percorso che cercava di mettere in connessione esperienze e riflessioni sulla scuola differenti (Dietro la lavagna – Gruppo scuola Zazie). Entrambe attualmente abbiamo un punto di vista sulla questione che non è diretto, ma mediato dal fatto che in questa fase della nostra vita siamo temporaneamente in distacco dalla scuola per occuparci di ricerca. Stiamo proseguendo questa riflessione facendo rete con le tantissime esperienze che fanno lo stesso in questo periodo. Molti docenti e famiglie che in questo momento sono direttamente coinvolti nella DAD sentono l’emergenza di una riflessione su cosa sta accadendo, anche se i bisogni quotidiani, la pianificazione delle lezioni e le relazioni filtrate da uno schermo richiedono energie, un tempo e una dedizione che poco spazio lasciano ad altro. C’è chi preferisce parlare di  didattica “dell’emergenza” e “dell’assenza”, per sottolineare che lo strumento tecnologico da solo non basta a “fare scuola”.

Come detto, il momento di emergenza ha amplificato l’esistenza di problemi organizzativi, formativi, istituzionali precedenti a questa situazione, li ha resi più visibili e ne ha portati di nuovi. Nonostante ciò, da questi due mesi di DAD raccogliamo anche delle suggestioni che ci mostrano alcune potenzialità degli strumenti tecnologici, come ad esempio l’uso che può esserne fatto a vantaggio della formazione degli adulti lavoratori che per varie ragioni non riescono ad accedere a una didattica in presenza. L’auto-formazione tecnologica, faticosa e rapidissima (e a costi zero per il ministero), che il corpo docente ha dovuto affrontare su questi aspetti si configura come un cambiamento che non è di per sé negativo ma che va indirizzato. Il vero problema è quindi per noi non tanto la didattica a distanza o l’uso della tecnologia in sé ma quali valori, quali visioni di scuola sottendono la pratica didattica.

 

Patrizia Cinti (PC) il sistema delle scuole potrebbe essere preparato, se è stata realizzata in modo efficace la formazione verso la didattica digitale degli anni passati e se c’è un nucleo di innovatori della didattica nelle singole scuole. Dal punti di vista formale, in ogni scuola il collegio dei docenti o lo stesso dirigente scolastico hanno nominato un Animatore Digitale e poi tre docenti del team digitale. Inoltre, proprio gli stessi dirigenti hanno seguito un percorso di formazione su questi temi. Ma questo, ovviamente, da alcune scuole è stato visto come un’opportunità di innovazione, da altre come un enorme fastidio, da evitare il più possibile. Per cosa sia la didattica a distanza direi che valgono le stesse cose che si stanno sperimentando con il lavoro a distanza: da un lato il telelavoro e dall’altro lo smart working. Non sono sinonimi: nel primo non cambiano orari e sistemi gerarchici e si continuano a privilegiare norme e procedure, nel secondo il lavoratore lavora per obiettivi e risultati. La didattica a distanza, allo stesso modo, può essere una noiosa lezione frontale e tradizionale, oppure un modo nuovo di fare didattica che pone veramente al centro lo studente e il gruppo in apprendimento. E può essere un’opportunità per coinvolgere studenti e genitori, oppure uno schermo parlante.

 

Cattive Maestre (CM) Sono pochissime le scuole che avevano sperimentato l’utilizzo di piattaforme di e-learning prima del 9 marzo in Italia. Il Piano Nazionale per la Scuola Digitale inaugurato con la Buona Scuola di Renzi e attuato nel triennio 2016/2019 non è stato sufficiente a recuperare l’arretratezza delle infrastrutture informatiche, né a garantire una formazione adeguata agli/alle insegnanti né ad attivare progetti di alfabetizzazione per l’intera comunità scolastica all’uso di nuovi strumenti. La didattica a distanza imposta dall’emergenza è stata scaricata ai singoli istituti, impreparati e colti alla sprovvista, senza indicazioni precise dal MIUR. Hanno prevalso di conseguenza iniziative frettolose, parziali, spesso confuse. Ogni dirigente, ogni scuola e persino ogni insegnate ha dato all’espressione “didattica a distanza” interpretazioni diverse. La DAD è uno strumento, limitato e problematico, di gestione di questa emergenza.

 

 

Con la DAD sembra impossibile separare il contesto familiare da quello scolastico. Come questo modifica le forme di apprendimento, di autonomia e indipendenza (dalla famiglia, dai genitori soprattutto), di crescita personale di ragazzi/e?

 

CeG: La scuola, per ragazzi e ragazze, bambini e bambine, è anche il luogo dove non ci sono i genitori, dove sperimentano la loro personalità nelle relazioni con compagni e adulti. E il processo educativo si fonda anche su questo. Con la DAD, nel caso ad esempio della video lezione, la presenza degli altri componenti della famiglia mentre si è connessi stravolge completamente questa componente. Più sono piccoli gli alunni, più evidentemente la presenza del genitore assume un’importanza maggiore. Inutile parlare di nativi digitali: la maggior parte dei bambini di oggi sa forse usare delle app su un cellulare, ma non è assolutamente autonoma nell’uso di un computer e questa autonomia si raggiunge ancora più difficilmente se qualcuno non ci segue nel cammino.

In una fase del genere sarebbe necessario costruire una relazione su questo tema con le famiglie, che sono anche loro attraversate da nuovi drammatici bisogni. Se ci riferiamo poi ai più piccoli, il coinvolgimento degli adulti è imprescindibile. Immaginare di costruire un ambiente classe anche a distanza, costruendo momenti di relazione tra i compagni in cui gli insegnanti hanno il ruolo di mediatori, è molto difficile e non si improvvisa: è necessaria ovviamente la conoscenza delle caratteristiche di base della didattica dei gruppi e degli strumenti tecnologici, ma anche una capacità inedita nel far interagire questi due aspetti. Dal nostro punto di vista anche in questa fase è necessario un confronto sia tra docenti che tra docenti e famiglie per continuare a mantenere viva la comunità di classe e scolastica.

 

PC: In questo periodo anche e soprattutto gli adulti e i genitori con figli piccoli stanno riorganizzando il loro tempo. Naturalmente, per alcuni questo è un problema affrontabile e risolvibile, perché hanno tempi, spazi e tecnologie adeguate, ben ripartite tra i membri della famiglia. Per altri il problema è difficile da affrontare e risolvere perché la famiglia è monogenitoriale, oppure entrambi i genitori devono fare un lavoro a distanza e le tecnologie sono insufficienti o i tempi si sovrappongono. Poi ci sono i casi in cui in famiglia ci sono persone fragili che hanno bisogno di assistenza e gli operatori che si occupano di loro non possono essere presenti. Ma questo è un periodo in cui, ancora di più, è necessario chiedersi cosa i bambini stanno apprendendo, cosa sentono e cosa pensano. E poi, ci siamo chiesti se questo momento non possa essere anche un’occasione per esercitare pienamente la genitorialità? Essere d’esempio per i nostri figlie mostrandoci capaci di “contenerli” e di gestire noi stessi lo stress oppure la noia. Per i bambini in età prescolare credo che la lettura, singola o con i pari, di filastrocche fiabe sia sempre un momento di apprendimento molto utile. Le fiabe italiane anche più terrificanti, se lette da un adulto di riferimento, aiutano a esprimere paure ed emozioni, a provarle in un contesto protetto, quindi esorcizzarle.

 

CM: Dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di primo grado è imprescindibile che le famiglie si assumano l’onere di seguire i propri figli in questo tipo di didattica a distanza. Minore è l’età dei bambini, maggiore è la necessità di un aiuto da parte dei genitori. Per partecipare alle attività di DAD è necessario saper utilizzare i dispositivi informatici, le diverse applicazioni e le piattaforme, e possedere le strumentalità a esse legate: saper costruire una comunicazione orale, una scritta, saper organizzare un discorso attraverso un video o un ipertesto. Nella scuola dell’infanzia e primaria queste strumentalità si acquisiscono poco a poco nel corso degli anni e con molto lavoro.

I bambini più piccoli sono generalmente abituati a un uso delle tecnologie informatiche limitato all’intrattenimento. Molti, non solo non sono capaci di gestire la mole di operazioni necessarie alla DAD ma spesso non possiedono il linguaggio della comunicazione attraverso i device, che permetterebbe loro almeno di mantenere relazioni con il gruppo dei pari. Per un bambino di 3 o 4 anni, ma anche di 6 o 7, può essere complesso sostenere una telefonata o una video chiamata con i nonni o gli zii, figuriamoci con un altro bambino della stessa età o con una classe intera in video conferenza. A quelle età lo strumento principale di comunicazione con il mondo e di relazione con gli/le altri/e è principalmente il corpo, quel corpo che ora è rinchiuso in casa e può significativamente “connettersi” solo con chi gli è fisicamente accanto.

 

La DAD impone la disponibilità di alcune tecnologie costose (computer, connessione internet), le competenze nel saperle usare e anche capacità nel gestire le relazioni con altri/e tramite il computer. Quanti saranno davvero inclusi e chi sarà tagliato/a fuori per mancanza di mezzi e/o di competenze che la DAD presuppone? Come si riconfigura il diritto allo studio quando internet e la tecnologia diventano beni necessari ma non garantiti dalla scuola dell’obbligo?

 

CeG: Da nord a sud Italia, nelle periferie delle città come nelle scuole del centro, esistevano già situazioni di estrema difficoltà che mostravano l’inadeguatezza del sistema scolastico italiano: bastava guardare a situazioni in ogni ordine di scuola dove nei contesti più poveri la semplice frequenza quotidiana degli studenti era già un traguardo ambiziosissimo. Per non parlare di casi estremi come le strutture per l’educazione per adulti, con numeri incredibili di iscritti rispetto al personale docente. Insomma, non è che la scuola come l’abbiamo sempre conosciuta non avesse problemi, ma è evidente che questa situazione sta amplificando le problematiche preesistenti e non sta garantendo il diritto allo studio. Abbiamo già delle evidenze drammatiche rispetto a quali fasce sono state tagliate fuori in questa emergenza: sicuramente le famiglie più colpite sono quelle che già prima avevano uno scarso rapporto con la scuola o con la tecnologia per ragioni economiche e culturali.

In più, si stanno alimentando nuove forme di dispersione scolastica e un allargamento della forbice tra i livelli di apprendimento nelle classi: dove non è avvenuta tempestivamente una ricognizione e una dotazione di strumenti in comodato d’uso gratuito, o dove gli insegnanti sono intervenuti poco nel curare il rapporto con le famiglie, la gestione del percorso è rimasto nelle mani dei genitori, che ovviamente hanno risorse e possibilità molto differenti tra loro.

Inoltre, anche dove le dotazioni tecnologiche erano adeguate, le indicazioni ministeriali sulla DAD non prevedevano soluzioni specifiche per le esigenze degli alunni con Bisogni Educativi Speciali, un’altra fascia ad alto rischio di esclusione.

 

PC: A queste domande non posso che dare una risposta non tranquillizzante. Le statistiche e le ricerche europee ci vedono negli ultimi posti in quanto a competenze digitali e possesso di reti informatiche. Siamo i maggiori possessori di mobile, ma non i più competenti, purtroppo. Per questo sono molto d’accordo con la richiesta che l’accesso ad internet sia garantito dalla Costituzione, ma per ora il digital divide è una triste realtà, tra noi e l’Europa, tra le aree metropolitane e le zone rurali, tra ceti e classi sociali.

 

 

CM: La DAD evidenzia e amplifica disuguaglianze sociali già esistenti. I/le bambini/e e ragazzi/e completamente esclusi dalle attività a distanza sono i più vulnerabili socialmente, coloro che non hanno a disposizione gli strumenti necessari per partecipare, che non hanno le competenze indispensabili (digitali, linguistiche, relazionali) né famiglie in grado di aiutarli/e, che non hanno spazi e tempi di vita adeguati e conciliabili con le attività della didattica a distanza. Molti/e di loro erano a rischio dispersione scolastica anche prima dell’emergenza, un rischio che l’emergenza aggrava. Da un monitoraggio del MIUR risulta che — dopo il primo mese — il 94% degli alunni sia stato raggiunto dalla didattica a distanza. Ci piacerebbe sapere cosa si intende per “raggiunto”. Le scuole hanno fatto grossi sforzi per contattare quanti più alunni/e possibili e spesso ci sono riuscite utilizzando gli strumenti più vari: dalle piattaforme ai social network, dalla telefonata alla cugina dell’alunno introvabile alla raccomandata ufficiale. Tuttavia, chi fa il nostro mestiere sa che un’alunna “raggiunta” non è un’alunna che partecipa costantemente. E che le percentuali di partecipazione sono molto più basse di quel 94%. Il governo ha stanziato 85 milioni per sovvenzionare infrastrutture digitali e piattaforme di e-learning per le scuole, per dare in comodato d’uso dispositivi digitali e connessione internet a ragazzi/e che non ne hanno e per la formazione del personale. Fondi insufficienti e mal ripartiti che andranno a finire nelle tasche dei colossi del digitale. Bisognerà trovare strategie per non lasciare nessuno indietro perché il lockdown causerà difficoltà a lungo termine per chi è stato escluso dalla DAD.

 

 

L’educazione si è orientata sempre più (almeno in teoria) verso la condivisione di spazi di dibattito, nell’apprendimento condiviso e l’apprendimento tra pari. La DAD potrebbe segnare il ritorno in forza della scuola delle nozioni? Come avviene la valutazione a distanza da parte degli insegnanti? Quali i parametri per valutare comportamenti, atteggiamenti e il rendimento scolastico?

 

CeG: La DAD imposta dal ministero è stata una misura emergenziale di cui probabilmente non si poteva fare a meno. Questo però non deve impedirci di riflettere sui rischi dell’assenza di un discorso pedagogico sul suo utilizzo. Di per sé l’uso della tecnologia nella didattica non è buono o cattivo: può essere il pretesto per la riproposizione dei modelli più autoritari di insegnamento, come anche l’occasione per applicare nuove metodologie che stimolano le differenti intelligenze e le nuove curiosità di ragazze e ragazzi.

Le domande che sono emerse via via nel fronteggiare le questioni che nell’emergenza si ponevano ci hanno restituito l’idea di scuola che sottintendevano. Quante ore di lezione bisogna prevedere? Deve essere consentito che i ragazzi seguano le lezioni in pigiama? I docenti devono farsi vedere in video dagli alunni? Per ragionare su come sfruttare le potenzialità di una didattica a distanza utile a sostenere quella in presenza, le domande devono essere altre: quali metodologie didattiche possono essere applicate in una situazione di distanza per costruire la classe come comunità di ricerca, in dimensione ludica? Quali gli strumenti tecnologici più appropriati? L’emergenza ha fatto ricorrere a piattaforme chiuse e poco collaborative: per evitare la riproposizione di una didattica frontale probabilmente serve una ricerca seria sugli strumenti, sfruttando ad esempio risorse open source.

Anche rispetto alla questione della valutazione entra in gioco l’idea di scuola. Un insegnante può non dare i voti? Per molti docenti questo si configura come un’amputazione del proprio ruolo, della propria credibilità professionale. Eppure qualunque seria riflessione pedagogica mette al centro un discorso molto più complesso sulla valutazione, esaminando in maniera complessa, l’inutilità del considerare i voti isolatamente. Questa situazione mette in luce un modello di  scuola che esiste nella mente di molti docenti (e di molti genitori e dirigenti) che vede il voto quasi come un feticcio. Una valutazione complessa si fonda invece sulla condivisione del senso stesso del valutare, sul fatto che questo possa essere un processo condiviso con gli studenti anche attraverso l’autovalutazione, favorendo così un atteggiamento attivo e critico.

 

PC: Su questo rischio di ritorno alla scuola delle nozioni credo di aver già risposto. Sulla valutazione credo che il tema sia di nuovo quello che i pedagogisti più attenti ribadiscono da sempre e oggi ancora di più. La valutazione sull’apprendimento di contenuti è proprio indispensabile in questo periodo di crisi? Oppure dovremmo porre più attenzione allo sviluppo armonico dei bambini, oggi e sempre.

 

CM: In questi mesi sui quotidiani, sui social e nelle riviste di settore si sta sviluppando un dibattito tra insegnanti che, destabilizzati e alle prese con nuove tecniche, si interrogano su quanto questo momento di crisi e di necessaria messa in discussione del metodo didattico possa rappresentare un’opportunità di cambiamento. Di fatto la didattica a distanza è mediata dalle piattaforme e — come sostiene Maurizio Mazzoneschi in Didattica a distanza fuori dall’emergenza: «Se una piattaforma per la didattica a distanza è progettata in modo rigido, non consente di aggiungere contenuti agli studenti, di scrivere in maniera collaborativa, non permette la relazione tra gli studenti, è evidente che sarà molto difficile fare didattica in maniera cooperativa. Inoltre, se la relazione pregressa fra insegnante e studente è esclusivamente frontale, improntata a impartire una lezione passibile di valutazione, la didattica a distanza tenderà a esacerbare le carenze della didattica in presenza». Come per tutto il resto, anche sulla valutazione ogni scuola si è dovuta riorganizzare per conto proprio poiché le note del MIUR finora sono state molto generiche. A poco più di un mese dalla chiusura dell’anno scolastico non abbiamo nessun parametro, né griglie di valutazione o indicatori riferiti alla DAD. A parte le dichiarazioni della ministra, spesso contraddittorie, non sappiamo nulla sulle modalità di svolgimento degli esami di Stato né se dovremo valutare con voti numerici o con giudizi. Ma come e cosa si valuta a distanza? Come si fa a valutare la partecipazione alle videolezioni o la costanza nello svolgimento dei compiti per casa di tutti/e se ci sono alcuni/e che hanno difficoltà a farlo perché non hanno a disposizione i dispositivi, l’accesso alla rete, una camera tranquilla e silenziosa, un genitore che li/le aiuti?

 

 

Negli ultimi anni – complice il costo dell’educazione, la mancanza di lavoro o anche scelte soggettive – si è diffuso anche in Italia il movimento della cosiddetta “educazione a casa”. Credi ci siano delle pratiche educative positive di questo movimento o altre forme di educazione al di fuori degli spazi statali/privati che potrebbero essere utilizzate adesso nella fase emergenziale e durante la ripresa?

 

CeG: Non crediamo che tra le motivazioni principali che portano a scegliere  l’ “educazione a casa” ci sia un fattore di tipo economico. Abbiamo l’impressione che questo tipo di scelte siano portate avanti da chi manifesta una particolare sensibilità su alcuni aspetti dell’educazione, giudicando in tal senso inadeguato il sistema scolastico, sia pubblico che privato. Chi promuove la nhome schooling solitamente lo fa da una prospettiva libertaria, con l’obiettivo di garantire un’educazione di qualità per i propri figli e per proteggerli da una serie di dinamiche autoritarie dell’istituzione scolastica.

Ma la scuola è anche il luogo dove si incontrano le diversità, una ricchezza che non si deve perdere. A nostro parere le sperimentazioni in ambito didattico e organizzativo sono fondamentali. Temi come il rispetto delle attitudini degli studenti, l’uso di processi conoscitivi induttivi, o un approccio differente alla valutazione dei percorsi, devono essere finalmente colti e trasferiti strutturalmente nella scuola pubblica, garantendo a tutti i bambini e le bambine, ragazzi e ragazze, un approccio orientato alla scoperta, alla libertà e all’autonomia. Certamente è una sfida complessa, ma è quella che ci interessa.

 

PC: Da sociologa non credo che i bambini possano apprendere senza socializzare. E socializzare significa stare con chi è differente da noi, non con chi ci somiglia del tutto. Avere, accanto al genitore, anche un educatore con il quale confrontarsi è fondamentale, per scegliere quale adulto vogliamo diventare.

 

CM: Per quanto in questo momento bambin* e ragazz* siano completamente nelle mani dei loro genitori, occorre chiedersi se questi ultimi possano davvero assumere il ruolo degli/delle insegnanti. Quanti genitori, ad esempio, sono in grado di organizzare l’ambiente di studio — dove, quando, per quanto tempo — proporre e spiegare le attività didattiche, creare negli alunni-figli la giusta motivazione per disporli al lavoro, impostare un metodo di studio adatto, monitorare correzioni e auto–correzioni, offrire aiuto pur rispettando l’autonomia e il margine d’errore entro il quale poter “inciampare”, tracciare il limite tra possibilità e potenzialità dei/delle bambin*/ragazz*? Ma soprattutto, quanti di loro sono in grado di costruire una relazione educativa che sia in grado di accogliere le parole, i corpi e le emozioni dando loro voce, in un momento complesso e faticoso come questo?

La home schooling richiede non solo tutta questa professionalità, ma soprattutto la disponibilità di tempi, spazi e materiali adeguati (e non solo tecnologici), tutti elementi che molte famiglie in questo momento non hanno. Il rischio, come spesso accade per molte pratiche educative alternative, è che diventi un privilegio per pochi. Mentre la scuola deve essere di tutte e tutti.

 

“Facciamo che” la pandemia è passata, facciamo che dobbiamo – dopo tale esperienza – reinventare la scuola, che ragionevolmente dovrà o non potrà dimenticare questo capitolo: come dovremmo immaginarla?

 

CeG: L’emergenza sanitaria ci ha messo di fronte tutti i limiti di quello che c’era prima, e per molti l’interruzione del quotidiano sta diventando l’occasione di immaginare come tante cose forse si possano fare in modo differente. Anche la scuola è attraversata da questo nuovo processo immaginativo. La possibilità di un cambiamento passa attraverso la nostra capacità di osare, di immaginare e pretendere relazioni differenti che siano alla base di una nuova scuola. Su questo desiderio si stanno confrontando in molti, e sta nascendo una rete di realtà che cominciano a descrivere possibili traiettorie. Riprendendo teorie e pratiche che da decenni ormai puntano su un apprendimento basato sull’esperienza diretta, un esempio molto interessante sono le proposte che riguardano l’uso e l’organizzazione degli spazi all’aperto o al chiuso della città come luoghi per accogliere processi conoscitivi nuovi. Una misura che potrebbe risolvere i problemi legati alle misure di sicurezza contro la diffusione del virus, ma anche innescare una rivoluzione per una scuola differente.

 

PC: Questa è una domanda alla quale molti autorevoli pedagogisti stanno rispondendo che la scuola stessa deve apprendere cosa sta apprendendo. In altre parole, la scuola non potrà e dovrà fare finta di niente. Le sperimentazioni devono essere portate avanti sostenendo le pratiche che hanno dato più risultati positivi. Seguendo alcuni gruppi di insegnanti mi giunge la conferma che alcuni giovani molto “resistenti” alla scuola tradizionale stanno invece mostrando capacità inaspettate. Altri, al contrario, mostrano lacune sulle competenze digitali delle quali la scuola deve tenere conto, se vogliamo scalare le classifiche europee che ci vedono tristemente in fondo. Se poi i genitori si sono scoperti più interessati al tempo scuola dei figli, questo è per me molto positivo. A patto che rispettino un dato molto importante, essenziale e inevitabile: a loro compete l’esercizio della genitorialità, ma gli insegnanti rimangono i professionisti dell’apprendimento.

 

CM: A immaginare e riorganizzare la scuola del futuro ci sta già pensando il MIUR, pur se in una direzione che si allontana molto dalla nostra. L’entusiasmo nei confronti della riuscita della DAD e delle possibilità delle nuove tecnologie ci fa intravedere una scuola che, anche fuori dall’emergenza, manterrà alcune modalità di questo momento. Una scuola che ammette l’apprendimento anche non in presenza, che scavalca gli spazi collegiali di discussione e decisione dei docenti — categoria sempre ritenuta dal senso comune impreparata e privilegiata. Una scuola che evita di investire sulle strutture scolastiche, che aumenta il controllo sul lavoro dei docenti, delle alunne e degli alunni attraverso la gestione dei loro dati. Noi immaginiamo una scuola in cui gli spazi chiusi delle aule scolastiche vengano messi in discussione attraverso diverse forme di didattica, ma non il luogo “scuola” in sé, che resta lo spazio principale di socializzazione e d’apprendimento. Che venga ripensata la valutazione, soprattutto se espressa in termini numerici e di controllo sull’operato di studenti e studentesse. Che l’uso delle tecnologie possa supportare la didattica, ma con una reale distribuzione delle risorse informatiche e un’adeguata formazione di tutte le figure coinvolte. Che si rifletta insieme su cosa realmente significhi e come concretamente si realizzi l’inclusione e il diritto all’istruzione per tutti e tutte e in che modo.

 

Articolo apparso sul blog de La Tana dei Cuccioli 

Qui, il link alla prima tavola rotonda pubblicata su DINAMOpress

Immagini di Miltos Manetas