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OPINIONI

Engels e l’espansionismo zarista – una lezione per il presente (Parte I)

Un testo engelsiano del 1890, che critica in anticipo i miti e le gesta di Putin e non aveva goduto troppo fortuna neppure in una certa fase della storia sovietica

Nel 1934 V.V. Adoratskij, sebbene godesse la fiducia di Stalin che nel 1931, dopo l’arresto e la condanna detentiva di D. Rjazanov (che sarà riprocessato e condannato a morte nel 1938), l’aveva posto a capo dell’Istituto Marx-Engels e nella redazione della MEGA, ebbe la cattiva idea di chiedere al georgiano l’autorizzazione a pubblicare sulla rivista “Il bolscevico” l’articolo La politica estera dello zarismo russo di Friedrich Engels, scritta fra il dicembre 1889 e il febbraio 1890 e pubblicata su “Die neue Zeit” nel maggio 1890.

A Stalin l’idea non piacque per niente, stese a caldo degli appunti piuttosto critici sull’ingenuità e lo scarso pragmatismo politico di Engels, in sostanza difendendo la politica estera zarista che aveva creato la moderna entità politica russa. Inviò quindi una circolare (restata inedita fino al 1941) a una ristretta cerchia di dirigenti, in cui sconsigliava la pubblicazione.

Alcune critiche stilistiche potevano essere pertinenti nel dettaglio, ma in generale quanto spiacque era la critica a una politica di potenza che in quegli anni veniva rivalutata (nella letteratura storiografica e nel cinema) sganciandola dalla politica interna dell’autocrazia, che Stalin aveva pur sempre combattuto in modo alquanto rude fra il 1905 e il 1917.

Possiamo immaginarci cosa di quel testo (e di analoghi scritti di Marx) pensi V.V. Putin, non solo privo per ragioni anagrafiche di un passato di militante rivoluzionario, ma dichiarato ammiratore del più reazionario e aggressivo degli ultimi zar, Alessandro III, che dopo l’assassinio del padre per opera di attentatori narodniki, aveva abbandonato qualsiasi timido riformismo interno e aveva “compensato” la stretta reazionaria con un rinnovato e brutale espansionismo estero.

Putin, inoltre, ha manifestato la sua avversione proprio a quel Lenin che, commemorando Engels nel 1895, ne aveva apprezzato proprio la polemica contro lo zarismo interno ed estero e nel 1918 aveva “sciaguratamente” inventato l’Ucraina riconoscendone l’autonomia e in seguito difendendola contro lo sciovinismo grande-russo.

Rileggiamo dunque qualche passo di quel censurato scritto engelsiano, segnalato e tradotto da Nicola Carella, che pone uno stretto rapporto fra critica dell’espansionismo zarista e sostegno al nascente movimento rivoluzionario russo, verso cui Marx si era volto con grande interesse alla fine della sua vita, derogando a precedenti tentazioni “occidentaliste” e sconfessando ogni interpretazione stadiale del processo rivoluzionario.

Scrive dunque Engels nel 1890, ai tempi del pre-putiniano Alessandro III:

«Non solo i socialisti, ma ogni partito progressista in ogni paese dell’Europa occidentale, ha un duplice interesse nella vittoria del Partito Rivoluzionario Russo. Primo, perché l’Impero dello Zar è il cardine della reazione europea, la sua ultima posizione fortificata e insieme il suo grande esercito di riserva; perché anche la sua mera esistenza passiva è una minaccia permanente e un pericolo per noi. In secondo luogo – e questo punto non viene a oggi sufficientemente ribadito – perché, con la sua incessante ingerenza negli affari dell’Occidente, paralizza e disturba il nostro normale sviluppo, e questo allo scopo di conquistare posizioni geografiche, che assicurerebbero alla Russia il dominio sull’Europa, schiacciando conseguentemente ogni possibilità di progresso sotto il tallone di ferro dello zar. […] Persino tra i rivoluzionari russi del resto esiste ancora un’ignoranza relativamente grande di questo lato della storia russa. Da un lato, perché nella stessa Russia è tollerata solo la vulgata ufficiale; dall’altro, così come moltissimi altri, perché disprezzano troppo il governo dello Zar, credendolo incapace di nulla che sia razionale. Incapace, un po’ per stupidità, un po’ per corruzione. E per quanto riguarda la politica interna russa ciò è abbastanza corretto; lì l’impotenza dello zarismo è chiara come il giorno. Tuttavia dobbiamo conoscere non solo la debolezza, ma anche la forza del nemico. E la politica estera è senza dubbio l’aspetto su cui lo zarismo è forte, molto forte».

Dopo aver segnalato la specificità per cui l’assai capace diplomazia russa era allora reclutata fra specialisti stranieri, quasi un moderno Ordine dei Gesuiti – un elogio forse oggi eccessivo per il rozzo Lavrov – e aver dichiarato una certa ammirazione per l’abilità con cui, ancor più degli eserciti, i ministri degli esteri e gli ambasciatori erano riusciti a irretire i governi occidentali, Engels rileva il successo di tale politica di espansione mondiale della sovranità russa presso l’opinione pubblica  interna, attribuendolo, con un filo di “orientalismo”, allo stato stagnante dell’economia e della cultura russa:

«così facendo ha anche rafforzato il potere dello zarismo in patria. Per il pubblico sciovinista la gloria della vittoria, le conquiste che seguono altre conquiste, la potenza e il fascino dello zarismo, superano di gran lunga tutti i peccati, tutto il dispotismo, tutta l’ingiustizia e tutta la sfrenata oppressione. Le roboanti chiacchiere dello sciovinismo compensano pienamente tutte le umiliazioni domestiche».

D’altra parte l’abilità manovriera della diplomazia russa sostituisce, il più possibile il ricorso alla guerra, dato che il Paese è quasi inconquistabile, dunque fortissimo nella difesa, quanto debole sul piano dell’offensiva, per difficoltà logistiche e per l’enorme corruzione dei suoi generali e ufficiali. Di qui la straordinaria importanza assunta dalla propaganda e dall’intrigo nei secoli XVIII e XIX sul fronte balcanico e caucasico.

«La Russia doveva quindi solo proclamare il suo dovere di proteggere l’oppressa Chiesa greca e gli slavi calpestati, e il campo per la conquista – nel nome della “liberazione degli oppressi” – sarebbe stata a portata di mano.  Allo stesso modo c’erano a sud del Caucaso piccoli Stati cristiani e cristiani armeni sotto sovranità della Turchia, per i quali l’impero zarista poteva posare da “salvatore”. E poi, proprio in questo sud, un premio, superiore a qualsiasi altro che l’Europa potesse offrire, allettava più di tutti il bramoso conquistatore: l’antica capitale dell’Impero Romano d’Oriente, la metropoli dell’intero mondo greco-ortodosso, la città il cui nome russo già esprime il primato sull’oriente e il prestigio che investe il suo possessore agli occhi della cristianità orientale — Costantinopoli-Zargrad. Zargrad come terza capitale russa insieme a Mosca e Pietroburgo: questo significava non solo supremazia morale sulla cristianità orientale, ma anche il passo decisivo verso la supremazia sull’Europa. Significava il comando esclusivo del Mar Nero, dell’Asia Minore, della penisola balcanica. Avrebbe dato possibilità, ogni volta che lo zar avesse voluto, la chiusura del Mar Nero a tutte le navi mercantili e a tutti gli eserciti tranne quelli russi, la sua trasformazione in un polo navale russo e un luogo di manovra esclusivo per la flotta russa, che da questo sicuro rifugio poteva passare attraverso il Bosforo fortificato e ivi tornare tutte le volte che voleva. […] Il comando della penisola balcanica porterebbe la Russia fino all’Adriatico. E questa frontiera a sud-ovest sarebbe stata indifendibile, a meno che la frontiera russa non fosse corrispondentemente avanzata lungo tutto l’ovest, e la sfera del suo potere si fosse estesa considerevolmente. Ma in questo caso le condizioni erano, se possibile, ancora più favorevoli», data la disgregazione della Polonia dopo le varie spartizioni e i suoi contrasti con la Russia Bianca, l’Ucraina e la Lituania.

Pietro il grande fu l’artefice di questa politica, giocando abilmente anche sul contrasto fra polacchi cattolici e slavi ortodossi confinanti, in primo luogo ucraini, e approfittando della momentanea debolezza tedesca dopo la guerra dei Trent’anni. L’alleanza con La Prussia, uscita dalla lunga crisi tedesca, e una spolverata di illuminismo facilitarono il compito a Caterina II.

«Niente avrebbe potuto essere più utile a Caterina di questi suoi vicini principi “illuminati”. “Progresso” e “illuminismo” erano il verso di pappagallo dello zarismo russo in Europa durante il XVIII secolo, proprio come lo sarò la liberazione delle nazioni oppresse nel XIX. Nessuna spoliazione, nessuna violenza, nessuna oppressione da parte dello zarismo, ma tutto è stato perpetrato in nome del “progresso”, “illuminismo”, “liberalismo”, “la liberazione degli oppressi”. E gli infantili liberali dell’Europa occidentale – fino a Mr. Gladstone – ancor’oggi ci credono, mentre gli egualmente stupidi conservatori credono altrettanto fermamente nelle stupidaggini sulla difesa della legittimità, sovranità, del mantenimento dell’ordine, della religione, dell’equilibrio del potere e della sacralità dei trattati – che sono tutti concessi contemporaneamente enunciati dalla dottrina ufficiale della Russia. La diplomazia russa era cioè riuscita ad ammorbidire i due grandi partiti borghesi d’Europa. Essere legittimisti e rivoluzionari, conservatori e liberali, ortodossi e “progressisti”, tutto insieme contemporaneamente, è permesso alla Russia, e solo alla Russia. È facile immaginare il disprezzo con cui la diplomazia russa guardi dall’alto in basso l’”acculturato” occidente».

Una volta neutralizzata la Polonia e preparata per le successive spartizioni, Caterina si volge al fronte sud e sud-occidentale.

«La Turchia non era stata certo dimenticata. Le guerre russe con la Turchia si verificano sempre in quei periodi in cui c’è pace sulla frontiera occidentale della Russia e, se possibile, quando l’Europa è occupata altrove. Caterina condusse due di tali guerre. La prima portò alle conquiste intorno al Mar d’Azov e all’indipendenza della Crimea; quattro anni dopo, quella regione venne trasformata in una provincia russa. Il secondo conflitto, invece, estese la frontiera russa dal Bug al Dniester. Durante queste guerre gli agenti russi incitarono i greci a ribellarsi contro la Turchia. Naturalmente, i ribelli alla fine furono mollati in asso dal governo russo. […]

Lo scoppio della Rivoluzione francese fu un altro colpo di fortuna inaspettato per Caterina. Lungi dal temere che le idee rivoluzionarie potessero diffondersi in Russia, vedeva nella Rivoluzione solo una nuova opportunità per afferrare per le orecchie gli altri Stati europei così che la Russia avesse mano libera. […] La Rivoluzione diede a Caterina la migliore opportunità possibile – con il pretesto di combattere la Francia repubblicana – di incatenarli di nuovo entrambi alla Russia e, allo stesso tempo, mentre erano impegnati alla frontiera francese, di fare nuove incursioni in Polonia. Sia l’Austria che la Prussia caddero nella trappola. E sebbene la Prussia dal 1787 al 1791 avesse recitato la parte di alleato della Polonia contro Caterina, appena in tempo ci ripensò, e in questa occasione rivendicò addirittura una quota maggiore del bottino polacco. E malgrado anche l’Austria dovesse essere compensata con una fetta di Polonia, ciononostante Caterina riuscì comunque di nuovo a mettere le mani sulla maggior parte del malloppo. Quasi tutta la Russia Bianca e la Piccola Russia erano così riunite alla Grande Russia.

Ma questa volta ci fu un rovescio della medaglia. Mentre il saccheggio della Polonia impegnava, nel 1792-94, una parte importante delle forze della Coalizione, esso indebolì il suo potere di attaccare la Francia, fino al punto che la Francia non divenne abbastanza forte da ottenere la vittoria da sola.

La Polonia cadde, ma la sua resistenza aveva salvato la Rivoluzione francese, e la Rivoluzione francese diede inizio a un movimento contro il quale anche l’impero zarista è impotente. […] Nella politica di Caterina troviamo tutti gli elementi salienti dell’odierna politica russa, nettamente definiti: l’annessione della Polonia, anche se per il momento una parte del bottino dovette essere consegnata ai suoi vicini; la marchiatura della Germania per la prossima spartizione; Costantinopoli, il grande, mai dimenticato, lento da ottenere, traguardo finale; la conquista della Finlandia a protezione di Pietroburgo; la Svezia da indennizzare dalla Norvegia, che Caterina offrì a Gustavo III, a Fredrikshamn; l’indebolimento della supremazia britannica sui mari, con limitazioni da imporre tramite trattati internazionali; l’incitamento di rivolte tra i cristiani e i Rayah in Turchia; infine, l’ampia provvista fatta di una fraseologia sia liberale che legittimista da usare a seconda dell’occasione come polvere negli occhi di coloro che credevano agli slogan, gli “acculturati” filistei occidentali e la loro cosiddetta opinione pubblica.

Alla morte di Caterina, la Russia possedeva già più di quanto il più selvaggio sciovinismo nazionale avrebbe mai osato chiedere. Tutti coloro che portavano un nome russo, esclusi solo i pochi Piccoli Russi austriaci, si trovarono sotto lo scettro del suo successore, che aveva ormai il pieno diritto di chiamarsi Autocrate di tutti i Russi.

Non solo era stato guadagnato, infatti, l’accesso al mare; sul Baltico come sul Mar Nero ora possedeva un ampio litorale e porti numerosi. Non solo finlandesi, tartari e mongoli, ma pure lituani, svedesi, polacchi e tedeschi erano sotto il dominio russo. Cosa desiderare di più?»

Ancor più fruttuoso risultò il confronto fra Alessandro I e Napoleone, al cui termine i russi divennero gli arbitri della Restaurazione europea e gli inventori della Santa Alleanza – una cospirazione dei sovrani contro il loro stessi popoli.  Il giudizio di Engels è nettissimo:

«Ma più importante di tutto questo fu la posizione che lo Zar occupò a quel punto in Europa. Egli non aveva più rivali nel continente. Aveva Austria e Prussia a rimorchio. La dinastia borbonica francese era stata da lui reinsediata, ed era quindi ugualmente obbediente. La Svezia aveva ricevuto da lui la Norvegia come ricompensa per la sua politica amichevole. Anche la dinastia spagnola doveva la sua restaurazione molto più alle vittorie di russi, prussiani e austriaci, che a quelle di Wellington, che, dopotutto, non avrebbe mai potuto rovesciare l’impero francese. Mai prima d’ora la Russia aveva ricoperto una posizione così dominante. Ma aveva mosso un altro passo oltre i suoi confini naturali. Se lo sciovinismo russo ha una qualche – non dirò giustificazione – ma una sorta di scusa per le conquiste di Caterina, non può esserci nulla del genere riguardo a quelle di Alessandro. La Finlandia è finlandese e svedese, la Bessarabia rumena, il regno di Polonia polacco. Qui non si trattava più dell’unione di etnie sparse e affini, tutte chiamate russe. Qui non osserviamo nient’altro che la conquista sfacciata di territorio straniero con la forza bruta, nient’altro che un semplice furto».

Per un verso, si imponeva in Europa occidentale il principio di legittimità contro I Droits de l’Homme et du citoyen rivoluzionari e il nazionalismo romantico, per l’altro riprendeva l’espansione balcanica contro i turchi, sobillando i contadini serbi e bulgari (che non se la passavano tanto male) e i commercianti greci (ansiosi di sviluppare il capitalismo).

Osserviamo qui di passaggio che le valutazioni all’ingrosso engelsiane filo-polacche e ostili agli slavi del sud sono uno dei punti più problematici del suo pensiero e risentono ancora dello scenario politico del 1848. Comunque, la doppia linea di reprimere le ribellioni contro i poteri legittimi del trono e dell’altare in Europa e di incoraggiare quelle cristiane contro la Turchia – finalizzate ad aprirsi la strada verso Costantinopoli – ebbe successo dopo molte traversie e solo dopo la sua morte e l’avvento al trono del brutale Nicola I, che espanderà la presenza russa nel Caucaso e nell’area danubiana.

La rivoluzione del febbraio 1848 fu però la prima campana a morto dello zarismo e dell’egemonia diplomatica russa a spese dell’Europa. La svolta decisiva fu lo scoppio della guerra di Crimea (1853-1856), importante anche per la politica italiana risorgimentale, e cui Engels dedica varie pagine che hanno evidenti connessioni anche con il recente conflitto ucraino, che intorno al controllo della Crimea ha ruotato..

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