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MONDO

Afghanistan, il femminismo liberale al servizio del potere – seconda parte

Il femminismo neoliberale, esportato in Afghanistan e in altre parti del mondo dalle Ong che focalizzano sull’empowerment e la libertà imprenditoriale delle donne, è tra i vettori più efficaci del neocolonialismo statunitense

Gli Usa hanno trovato un rimedio drastico per contrastare le società patriarcali,
fino ai tempi dell’Iraq e dell’Afghanistan: bombardarle.

Raffaele Alberto Ventura, Barbie non esisterebbe senza Oppenheimer:
sono i due volti dell’egemonia americana
, “Domani”, 17 agosto 2023

Qui la prima parte dell’articolo.

Repubblica”, 17 agosto 2023

Secondo Daniela Hamaui, che firma l’articolo uscito sull’edizione cartacea di “Repubblica” il 17 agosto, «Shabnam Nasimi, attivista afghana ed ex-consulente del ministero inglese per il Reinsediamento e per quello dei Rifugiati, in un articolo per il “Guardian” mette in guardia dalla “sconcertante narrativa che suggerisce che i talebani siano forieri di sicurezza e stabilità”. E racconta come il 31 luglio il Dipartimento di Stato americano ha rilasciato una dichiarazione su un incontro tra funzionari Usa e alti esponenti talebani riconoscendo che c’è stata una diminuzione degli attacchi terroristici su larga scala contro i civili afghani». Aggiunge: «Ma se gli attentati nei mercati o nei centri delle città sono diminuiti, sono invece aumentate le gravi violazioni dei diritti umani contro le donne, le minoranze e chi si oppone al regime. E tutto sotto il nostro silenzio e la nostra indifferenza».

È da notare che citando Shabnam Nasimi per contrastare la narrazione che vorrebbe che i talebani siano forieri di sicurezza e stabilità – cosa che in sé potrebbe anche sembrare ovvia considerando che il paese non è in guerra – la giornalista Daniela Hamaui contraddice in parte ciò che scrive il suo stesso giornale due giorni prima con Alberto Cairo (secondo cui «La sicurezza è migliorata, non più guerra con scontri continui, si viaggia senza rischi, la corruzione è diminuita, gli attacchi suicidi ridotti. Si parla di contratti economici con la Cina, di buone relazioni con in Paesi arabi, di crescita delle esportazioni e di riduzione dei campi di oppio»).

In secondo luogo, fatto più grave è che Shabnam Nasimi, l’attivista citata dalla giornalista Daniela Hamaui, non ha scritto alcun articolo per il “Guardian”1. L’unico articolo a firma sua uscito per la testata inglese, datato 20 dicembre 2022, è stato rimosso il 6 gennaio 2023 per plagio.

Il dato importante è che le accuse di plagio sono state mosse nel contesto di una più generica denuncia dell’operato di questa “attivista” afghana che, con modi di fare poco trasparenti, è riuscita a diventare la persona più ascoltata dal governo inglese su questioni che riguardano le relazioni con il suo paese, nonostante sia osteggiata dalla sua stessa comunità in Gran Bretagna. Nasimi è la fondatrice di un’organizzazione che si chiama «Conservative Friends of Afghanistan» – sul sito è in posa accanto a Boris Johnson – che tra le altre cose promuove un «UK-Afghanistan Business Forum», che si occupa di agevolare la collaborazione tra il Regno Unito e le imprese afghane, assistendole in questioni legate a: «import/export, franchising, marketing digitale, requisiti legali del Regno Unito e imprenditoria».

Perché Daniela Hamaui su “Repubblica” cita un articolo che sembra non esistere a firma di una donna che, sebbene fortemente contraria alla possibilità che vi sia un dialogo istituzionale tra paesi occidentali e l’Afghanistan, si occupa, in qualità di “attivista”, di «rinforzare lo scambio e il commercio e promuovere gli investimenti in Afghanistan»?

L’articolo che Hamaui cita in realtà esiste, ma si trova sul sito del quotidiano inglese “inews”, datato 10 agosto 20232. In secondo luogo l’articolo in questione è a doppia firma. La seconda autrice è Annie Pforzheimer, ex-diplomatica presso il Dipartimento di Stato americano. Tra le altre cose anche vice-segretario di Stato aggiunto per l’Afghanistan fino a marzo 2019 e dal 2017 al 2018 vice capo missione a Kabul. Ha svolto ruoli di spicco presso il Consiglio di sicurezza nazionale; l’Ufficio per le operazioni di sostegno alla pace, le sanzioni e l’antiterrorismo dell’Ufficio per gli affari dell’organizzazione internazionale; è stata consigliere politico presso le ambasciate statunitensi in Afghanistan.

È un articolo di opinione che ribadisce il fermo rifiuto di dialogare con i talebani e di andare nella direzione del riconoscimento ufficiale dell’Emirato: le autrici prendono posizione dentro una spaccatura che si sta generando nei paesi occidentali che vede sempre più politici ammettere il fallimento delle strategie adottate sinora e la necessità di dialogare con il regime, nonché la necessità per l’UE di sottrarsi alle scelte dettate dalla politica estera americana.

(da commons.wikimedia.org)

“Repubblica” non spiega che l’incontro tenutosi tra funzionari Usa e alti esponenti talebani il 31 luglio è uno dei molti incontri tenuti in vista della stabilizzazione della situazione economica – il processo di audit a cui è sottoposta la banca afghana – e dell’impegno per contrastare il terrorismo. Infatti esiste un dialogo tra Stati Uniti e regime talebano che non riguarda gli aiuti umanitari o i diritti delle donne ma la sicurezza e il controllo delle attività di terrorismo. È su questo terreno che secondo alcuni rischiano di “consolidarsi” le relazioni tra i due paesi. La preoccupazione per questo scenario è argomentata meglio in un altro articolo di Annie Pforzheimer e Shabnam Nasimi datato giugno 2023 in cui le autrici menzionano i risultati di alcuni rapporti, tra cui quello dell’ufficio di monitoraggio delle sanzioni dell’Onu secondo cui in Afghanistan al-Qaeda e altri gruppi stanno «ricostruendo la capacità operativa». Tra questi anche l’Isis-k, che i talebani combattono. L’articolo dunque menziona i contatti tra la CIA e i talebani – un incontro annunciato pubblicamente si è tenuto a ottobre tra il vice della CIA e il capo dell’intelligence afghana. Un funzionario della Difesa statunitense ha dichiarato in un’intervista: «non me la sento di dire che abbiamo ipotecato il nostro antiterrorismo a un gruppo come i talebani, ma […] in un certo senso, abbiamo obiettivi reciprocamente vantaggiosi», motivo per cui molti ipotizzano una collaborazione molto più serrata e continuativa, e per nulla pubblica, tra la CIA e i talebani.

Ad ogni modo, secondo Annie Pforzheimer e Shabnam Nasimi le prove contenute nel rapporto dell’Onu mostrano che chi due anni fa sosteneva fosse possibile contenere la ricostruzione delle reti terroristiche in Afghanistan con una capacità antiterroristica a distanza si sbagliava. «Andando via, gli Stati Uniti hanno tradito e interrotto le loro reti di informazione in Afghanistan». L’errore è stato lasciare il paese.

In un’intervista concessa nel 2021, con riferimento ai legami con al-Qaeda e all’isolazionismo dei talebani, Pforzheimer si chiedeva: «La questione dei soldi è il grande punto interrogativo. Possiamo noi, la comunità internazionale, “comprarci” i talebani per renderli più compiacenti? Purtroppo credo di sì, ma molte persone soffriranno da qui a quel momento».

Poiché nulla di tutto ciò è stato discusso in maniera approfondita dalla stampa italiana il 15 agosto, riportare il parare di Shabnam Nasimi – non una donna afghana qualsiasi e non un’attivista – su “Repubblica”, attribuendolo a un articolo uscito sul “Guardian”, senza menzione alcuna al contesto in cui questa opinione si esprime – il disaccordo a livello internazionale sulla strategia da perseguire – ha come effetto quello di mettere a tacere, quasi preventivamente, anche il dibattito che si sta dando a livello europeo, per esempio, e che riguarda gli errori commessi in Afghanistan e la necessità di smarcarsi dalle scelte imposte dalla politica estera statunitense. Un rapporto dell’UE, pubblicato a febbraio del 2023, afferma che «La rapida presa di potere dei talebani nell’agosto 2021 ha colto di sorpresa l’Unione europea (UE). In risposta, l’UE ha sviluppato un approccio basato sui “bisogni primari” e ora sostiene le iniziative delle Nazioni Unite per alleviare le sofferenze umane e appoggiare l’attività delle organizzazioni non governative sul campo. Questo studio si chiede come, dopo oltre 20 anni di azione internazionale, l’UE si sia trovata in questa situazione. […] L’Afghanistan è stato il principale beneficiario degli aiuti umanitari e allo sviluppo dell’UE negli ultimi due decenni, ma gli esercizi di state-building dell’UE non hanno tenuto conto della crescente insicurezza all’interno dell’Afghanistan e dei cambiamenti nella strategia degli Stati Uniti. Il Paese non avrebbe dovuto essere trattato come una “tabula rasa” su cui erigere un nuovo Stato moderno; né la costruzione della pace avrebbe dovuto essere rifiutata perché comportava la negoziazione con i talebani»3.

La possibilità politica che questa frattura apre anche a livello di distanziamento dell’Europa dalle scelte – e le ritirate – imposte dagli Stati Uniti – o dalla minaccia di terrorismo imparentata alle politiche estere statunitensi – è stata perlopiù ignorata dalla stampa italiana nella misura in cui non è stata raccontata.

Anche quando gli articoli manifestano una conoscenza approfondita della situazione in Afghanistan, la narrazione “dominante”, incentrata sulle donne, tende a rendere invisibili, o quanto meno inoffensive, molte delle componenti della crisi afghana. È una narrazione si appoggia alle voci di singole donne a cui è chiesto di narrare la propria sofferenza, causata dal regime talebano, e che limitandosi a ciò produce un’implicita equiparazione tra qualsiasi forma di dialogo con il regime – magari teso alla stabilizzazione economica del paese e all’uscita dalla sua dipendenza umanitaria – a una collaborazione che lederebbe le libertà femminili.

(foto di Lance Cpl. Jessica S. Gonzalez, commons.wikimedia.org)

Le due Ong sentite dalla stampa italiana

Le due Ong sentite dalla stampa italiana ad agosto sono state Nove onlus e Pangea: per la prima ha parlato Livia Maurizi su “Domani”, Alberto Caro su “Repubblica”, mentre “Avvenire” pubblicava le lettere arrivate per suo tramite, oggi raccolte in un libro da cui è stato anche tratto un documentario; “Repubblica” online e “Il Sole 24 Ore” si affidavano invece a Pangea. (Meriterebbe una riflessione a parte l’utilizzo delle Ong al posto di inviati, come è il caso invece del “Corriere della Sera”4, ma anche il ruolo della “testimonianza” che spesso sostituisce sia l’informazione che l’analisi).

“Il Sole 24 Ore”, intervistando Simona Lanzoni di Pangea, scrive che «Nessun governo straniero ha finora formalmente riconosciuto il regime talebano ma “a tendere si andrà in quella direzione”, dice Lanzoni con rammarico. Aggiungendo: “l’idea è che, riconoscendoli, i talebani si debbano adeguare a certi standard. In realtà è la narrazione che continua a essere sbagliata: significa legittimare l’idea che le donne siano subordinate, dando un esempio negativo a tutti gli altri Paesi”». Già nel 2022 il presidente di Pangea dichiarava a “Il Foglio” che «barattare diritti con il regime talebano era un gioco pericolosissimo» e che «sulla pelle delle donne» si stava giocando «lo scontro intestino tra moderati e integralisti». Tuttavia l’ammissione che nel 2023 questo scontro sia stato perso continua a non esserci5.

Ciò che hanno in comune queste due onlus è un’impostazione specifica che focalizza sull’empowerment socio-economico delle donne, ovvero sulla valorizzazione dell’indipendenza delle donne come agente di cambiamento sociale.

Secondo Pangea, che ha «sviluppato un programma pensando a come poter inserirsi nella visione e la concezione discriminante e retrograda sul ruolo della donna nella società afghana», questa concezione può essere ribaltata «facendo delle donne un perno dello sviluppo e del benessere all’interno della propria famiglia e quindi della comunità in cui vivono a partire dall’economia per poi arrivare ai diritti e al benessere dell’individuo». Nove onlus lavora nella stessa convinzione – occupandosi di «vocational Training, soft skills development and business marketing course». Ammette tuttavia che «dopo la presa dell’Afghanistan da parte dei talebani, gran parte delle donne che lavoravano hanno dovuto smettere». Meno attenzione ha ricevuto nella stampa il fatto che molte Ong hanno potuto riprendere le loro attività con le donne afghane. Lo racconta Stefano Sozza di Emergency in un’intervista uscita il 17 agosto sull’inserto Alias del “manifesto”, spiegando che il Ministero della salute pubblica afghana ha fatto in modo che le restrizioni imposte dall’Emirato sulle donne che lavorano per Ong straniere non si applichino al suo settore. È quanto scriveva INTERSOS in un comunicato a gennaio 2023 in cui annunciava la ripresa delle attività sanitarie e nutrizionali dopo aver ottenuto un chiarimento dal Ministero della salute, che non applicava le direttive del Ministero per l’Economia. È lecito chiedersi se parte dell’amministrazione afghana riesce a tenere aperti i canali in cui opera ciò che non si presenta apertamente nelle vesti dell’«ingegneria sociale»6, dell’empowerment femminile, ma che lavora all’assistenza della popolazione tutta, donne incluse.

È interessante notare che questo approccio incentrato sul potenziale delle donne come strumento di pace nei contesti di conflitto finisca per essere funzionale a una narrazione che silenzia le stesse implicazioni politiche dell’agire umanitario. Si tratta di una sorta di inversione di ruoli in cui le Ong che più esprimono una consapevolezza politica riguardo al proprio operato, che non lo presentano come altro – esportazione della democrazia, interesse nella condizione delle donne, incidentalmente a partire dal 2001 – denunciano l’utilizzo strumentale di questo lavoro e degli aiuti, chiaramente funzionali non alla ripresa dell’economia ma alla sostenibilità della guerra economica7. Di contro le istituzioni che si occupano di finanziare gli aiuti umanitari resi necessari dalla guerra presentano, anno dopo anno, il proprio operato come puramente umanitario, non politico. Non è un caso che la maggior parte delle Ong non si descrivono – a differenza di Pangea e Nove onlus – in veste “attivista”, ovvero fintamente dal basso – considerando che per esempio le missioni di Pangea si svolgono nell’ambito delle attività finanziate dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale sull’agenda Donne, Pace, Sicurezza dell’Onu.

Al di là delle differenze nell’operato delle singole Ong, il distinguo sembra essere tra la presa di parola di alcune a partire dalla consapevolezza dei limiti del proprio operato, che non può sostituire una visione politica, e la visione ideologica del femminismo dell’empowerment che pensa la donna come soggetto in grado di operare economicamente dentro un contesto di conflitto.

Se INTERSOS lanciava un appello nel 2022 in cui affermava che «l’assistenza umanitaria da sola non può sostituire un’economia funzionante», chiedendo la restituzione dei «beni congelati dell’Afghanistan alla banca centrale del Paese» e «il ritorno dei fondi per lo sviluppo nel Paese»8, Stefano Sozza su “il manifesto” affermava che «in Afghanistan c’è stata una guerra provocata da un’invasione e un’occupazione durata 20 anni. Per portare la democrazia si è lacerato e distrutto, per poi andarsene in quattro e quattr’otto chiudendo il rubinetto dei fondi di un Paese flagellato anche per la nostra presenza. È motivo per rimanere con ancora più attenzione […]. L’imperativo umanitario impone di scegliere da che parte stare». Secondo Pangea, invece, la crisi poteva essere affrontata con la creazione di «agenti di sviluppo e cambiamento nella costruzione di un dialogo internazionale per la pace, la sicurezza e la promozione dei diritti, in assenza di strumenti normativi e istituzionali» [corsivo aggiunto].

(foto di Sgt. Ken Scar, da commons.wikimedia.org)

Il femminismo neoliberale dell’empowerment

Il problema delle implicazioni politiche dell’impegno umanitario hanno in questo caso a che fare con l’intento schiettamente spoliticizzante dell’empowerment femminile, che è il motivo per cui il femminismo svolge un ruolo fondamentale nello scorporamento della guerra dagli aiuti, presentandoli come due entità separate quando sono in realtà una forma di cooperazione. Definito anche NGO feminism, il fenomeno – esportazione del femminismo statunitense per mezzo di Ong finanziate da istituzioni occidentali – è molto studiato e criticato da studiose e attiviste di varie parti del mondo. La letteratura – molto vasta, sviluppatasi a partire più o meno dagli anni ‘80 – ha evidenziano come l’operato di queste Ong dedite all’empowerment delle donne nei paesi cosiddetti sottosviluppati oppure oggetto di programmi di aggiustamento strutturale sia uno dei migliori veicoli dell’espansionismo neocoloniale statunitense.

I programmi di empowerment, perlopiù programmi di micro-credito (o micro-debito), che coniugano l’idea di partecipazione in termini puramente economici, indirettamente a garanzia dei diritti, per via di un’autodeterminazione non largamente sociale ma individuale e imprenditoriale, occupano una nicchia all’interno del più generico femminismo mainstream, detto anche femminismo globale o femminismo neoliberale. La genealogia più chiara è tratteggiata da Hester Eisenstein nel volume Feminism Seduced, dove la tappa probabilmente più importante è il 1996, anno in cui l’amministrazione Clinton smantellò il welfare americano nominando una serie di donne in posizioni apicali nell’amministrazione. Hillary Clinton fu tra le prime donne a dichiararsi apertamente femminista – assieme ad altre, da Madeleine Albright, segretario di Stato, a Oprah Winfrey, miliardaria antesignana del femminismo mediatico. Se il femminismo mainstream si fa portavoce delle istanze della parità di genere intesa come la richiesta di accedere ai luoghi della competizione e del potere tradizionalmente maschili, la sua funzione è storicamente la valorizzazione delle qualità delle donne nello smantellamento e nell’individualizzazione delle strutture sociali preposte alla riproduzione e alla produzione della vita.

Il processo di mainstreaming del femminismo, la nascita del femminismo globale, risale a una serie di conferenze dell’Onu tenutesi tra il 1975 (Città del Messico) e il 1995 (conferenza di Pechino), da cui sono scaturite le linee guida sui diritti delle donne, le commissioni per la parità di genere, l’instaurarsi di un pensiero dell’uguaglianza, oggi riproposta con la dicitura dell’“inclusività”, che i femminismi storici avevano perlopiù osteggiato, lavorando per cambiare l’esistente, non chiedendo di farne parte.

Secondo Eisenstein questo femminismo prende forma con la dismissione dello stato sociale nei paesi industrializzati per essere poi esportato nel sud del mondo da Ong insieme ai programmi di aggiustamento strutturale imposti dal fondo monetario internazionale. «Il successo delle donne nella creazione di agenzie speciali per le donne non era collegato ad alcun successo più ampio nell’estensione e nel rafforzamento delle disposizioni dello stato sociale per la parte più povera della popolazione […] La rete di sicurezza in tutto il mondo veniva stracciata contemporaneamente alla crescente visibilità e all’attivismo di un movimento femminista globale».

Ciò che non viene generalmente colto è il ruolo che il femminismo svolge nell’esportazione e nella sperimentazione dei processi di privatizzazione che collegano il cosiddetto primo e il terzo mondo, una dinamica a due vie – nella misura in cui alcune sperimentazioni sono reimportate – e nella creazione e la dismissione degli stati e della sovranità. Secondo Victoria Bernal e Inderpal Grewal, autrici di Theorizing NGOs: states, feminisms, and neoliberalism, «nonostante la loro varietà, le Ong sono spesso viste come un’alternativa allo Stato e alle imprese, prendono il posto dello Stato nel lavoro sullo sviluppo e sul welfare e forniscono servizi gratuiti o a costi molto più bassi rispetto alle imprese private». Secondo le autrici «la forma delle Ong produce e converte ciò che è fuori dallo Stato in una forma leggibile all’interno di una governamentalità parallela al potere ufficiale dello Stato», operando sul terreno che sta «tra ciò che è incluso ed escluso dallo Stato».

«La neoliberalizzazione – progetti neoliberali di privatizzazione – favorisce le Ong femministe a due livelli: in primo luogo, il ritiro dello Stato e delle risorse pubbliche dai settori del welfare crea un vuoto che le Ong cercano di colmare, assumendo ruoli pubblici da posizioni private; in secondo luogo, quegli spazi di ritiro dello Stato erano spesso già luoghi di lavoro retribuito e non retribuito delle donne e di lotte femministe per ottenere risorse e servizi». Se per un verso i programmi di empowerment si presentano come altro da un lavoro puramente umanitario, perché darebbero alle donne gli strumenti necessari a diventare (economicamente) indipendenti, in verità il fatto che i progetti per la micro-imprenditoria femminile nascano nel terreno dello smantellamento delle strutture sociali preesistenti, incluse quelle informali, ha significato la paralisi delle lotte femministe, come attestato da quasi tutti gli studi che guardano a come questo processo di spoliticizzazione della componente femminile sia avvenuta in parallelo alle riforme imposte per la neoliberalizzazione dei paesi oggetto di penetrazione neocoloniale, dall’Africa ai paesi dell’ex blocco sovietico e al Sud America.

Come nota Hester Eisenstein:

«Le femministe occidentali hanno introdotto idee importanti sulla violenza domestica. Ma le donne dell’Europa orientale e della Russia stavano perdendo l’asilo nido gratuito, il congedo di maternità, l’occupazione garantita, l’istruzione gratuita e altri retaggi del regime comunista. (…) Il paradigma economico neoliberale evidenziava come i vuoti lasciati da un settore pubblico in dismissione potessero essere colmati dalla rinascita della società civile, strutturata come una serie di organizzazioni non governative private». L’emancipazione delle donne, «a quanto pare, avrebbe compensato la fine dello sviluppo economico promosso dallo stato».

Il caso dei paesi dell’ex blocco sovietico è molto diverso da ciò che accade, per esempio in Sud America o in Africa. Se la nascita di questo tipo di femminismo avviene nei paesi di provenienza all’epoca della transizione neoliberale e dello smantellamento del sistema Keynesiano, è interessante notare come la retorica dell’empowerment imprenditoriale si appoggi a una nozione di società civile che ha di mira ciò che è esterno alla dimensione propriamente istituzionale. È qui che l’operato extra-statuale delle Ong prende a prestito il linguaggio dell’attivismo, parassitandolo, per costruire una prospettiva in cui i problemi delle donne sono slegati dal contesto in cui originano. È in questo senso che dalla Moldavia all’Africa orientale le accuse mosse al femminismo dell’empowerment si somigliano: «la produzione di verità sulla situazione delle donne», frutto di questionari e programmi Onu, è sia essenzialista – il genere è motivo sufficiente di alleanza tra donne a prescindere dalla loro situazione socio-economica – che «culturalizzante», nella misura in cui la stessa «condizione femminile» è sganciata dalle determinanti socio-economiche e addirittura dalla cultura di appartenenza. È proprio prescindendo dalla differenza di contesti e strutture sociali che l’interesse per i «diritti delle donne» può veicolare un determinato paradigma economico che si salda all’«autonomia» delle donne.

Secondo Hester Eisenstein le radici della disparità di genere non sono nell’esclusione delle donne dal regime della produzione, ma nella separazione materiale e ideologica tra produzione e riproduzione. Si deduce che se è vero che il femminismo dell’empowerment serve a compensare la distruzione dei sistemi sociali che sostengono il lavoro di cura svolto da donne (dai sistemi di welfare alle strutture relazionali delle economie informali), con la creazione di un soggetto in grado di assumersi i compiti della produzione e della riproduzione, ciò avviene con un doppio movimento: di privatizzazione della sfera della riproduzione sociale che in un secondo momento viene ripublicizzata – resa pubblica – solo nella misura in cui è ora economicizzata. L’innesto imprenditoriale avviene nella sfera privata – desocializzata –, che fa di questo soggetto, la donna, un ibrido pubblico/privato in grado di sostenere la propria autosufficienza. La donna isolatamente empowered, che ha partecipato a un programma di micro-credito, che ha ricevuto una mucca come incentivo alla capitalizzazione di sé, diviene produttrice al fine di riuscire a finanziare da sé il lavoro di riproduzione che continua a svolgere. L’idea di rendere le donne la fonte di guadagno in un sistema familiare, che in apparenza la rende autonoma, in realtà la eleva a microcosmo in grado di produrre e riprodurre in maniera completamente sganciata dal sistema sociale in cui è inserita.

(foto di Sgt. Ken Scar, da commons.wikimedia.org)

Per tornare al caso dell’Afghanistan, è evidente che la retorica che può tenere insieme i diritti delle donne e l’ingerenza di una potenza straniera svolge alla lettera quel progetto di «governamentalità parallela al potere ufficiale dello Stato» di cui le donne sarebbero attrici. Per questo sono presentate sempre come entità separate dai legami familiari, dalle relazioni più ampie che includono gli uomini – è da tenere a mente che, come ha detto Simonetta Gola, responsabile della comunicazione di Emergency, la repressione in Afghanistan riguarda le persone giovani, non solo le donne – e come entità apolitiche – a queste donne non viene mai chiesto quale progetto politico immaginano per il proprio paese e quale dovrebbero essere le relazioni con la comunità internazionale.

Dalla rappresentazione che l’occidente fa di queste donne è esclusa anche la componente religiosa. D’altronde risale al periodo del colonialismo classico l’equazione tra modernità e diritti femminili da una parte, tra Islam e arretratezza dall’altra.

Quando l’obiettivo vero della war on terror, come ricorda Eisenstein, non è propriamente l’Islam, ma «tutte le formazioni economiche premoderne che vengono percepite come non ricettive all’ascesa dell’economia capitalista. La guerra globale al terrore ha preso l’Islam come riferimento per le pratiche culturali tradizionali di ogni tipo. Questo quadro ideologico nasconde l’enorme varietà di pratiche culturali e regimi giuridici che vanno sotto il nome di società islamiche».

La guerra economica in Afghanistan ha bisogno di un consistente aumento di donazioni e di un ingente incremento di finanziamenti nel settore umanitario da cui dipende la sua sostenibilità. Nessuna delle donne, perlopiù nei luoghi decisionali e di potere, favorevoli a che l’Afghanistan rimanga sotto la minaccia e il controllo dei paesi occidentali vuole che la popolazione muoia di fame: ma ha bisogno, per evitare questo, di finanziare gli aiuti umanitari affinché le sanzioni, il controllo delle relazioni commerciali, dei fondi per lo sviluppo, delle riserve che appartengono alla banca centrale afghana possano continuare a essere usati come strumento di ricatto. I diritti delle donne entrano in gioco in questo scenario in maniera complicata, in quanto sono sia terreno di unione che di divisione di due sfere separate – gli interessi della popolazione afghana e gli interessi dei poteri neocoloniali. Per un verso sono il terreno in cui il regime afghano ha risposto alle pressioni occidentali e alla diplomazia apertamente ricattatoria dell’occidente, sfidandola, anzi accettando di misurare il proprio potere sul terreno che lo stesso occidente pone come altamente simbolico; per altro sono il terreno in cui la diplomazia occidentale presenta una unitarietà di interessi che sono invece diametralmente opposti.

Gli obiettivi dell’invasione dell’Afghanistan non sono mai stati i diritti umani e delle donne, l’instaurazione di un regime democratico; hanno sempre avuto a che fare con la sicurezza nazionale. Ora, nel 2023, questi obiettivi continuano a non coincidere, ed è qui che i diritti delle donne sono funzionali a eliminare il problema che questa non coincidenza continuamente pone, ovvero che il conflitto non è mai andato a favore delle popolazioni locali.

La questione della libertà femminile è funzionale a ottenere un aumento della spesa umanitaria che renda sostenibile la guerra economica e per nascondere l’impatto che la guerra economica ha sulle donne, a cui è funzionale l’interpretazione neoliberale dei diritti: donne resilienti, autonome, isolate, ovvero sganciate dalla struttura economica e sociale all’interno del quale il loro agire imprenditoriale dovrebbe avere luogo, sono vettori di una spoliticizzazione più ampia. Se il nucleo generativo di questa concezione risiede nello scoppiamento della agency femminile dal contesto socio-politico e familiare, gli effetti di questa concezione si traducono nell’idea che la libertà delle donne, a patto che siano in grado di lavorare, possa convivere pacificamente con un regime di dominazione straniera. È in questo interstizio che il lavoro svolto da femministe in tutto il mondo sull’operato delle Ong che si prestano a questa visione ha mostrato che proprio i diritti delle donne intesi in senso neoliberale sono tra i migliori vettori della neocolonizzazione statunitense.

Note

1Il “Guardian” conferma che non è stato pubblicato alcun articolo a firma di Shabnam Nasimi nel periodo che va dal 31 luglio, data menzionata nell’articolo citato, e il 17 agosto.

2 Il passaggio citato è il seguente: «a disconcerting narrative is surfacing, suggesting the Taliban are harbingers of security and stability. […] On 31 July, the US State Department issued a statement regarding a meeting of US officials with senior Taliban figures: “The American delegation acknowledged that there has been a decrease in large-scale terrorist attacks against Afghan civilians.”».

3 Le spaccature interne alla Commissione europea risalgono al 2021. Nel 2022 l’UE notava che «L’esperienza maturata negli ultimi mesi di attuazione e i contatti con i partner, le Ong internazionali e i think tank mostrano un crescente consenso sul fatto che gli aiuti umanitari e l’assistenza ai bisogni di base sono importanti ma non sufficienti». La spaccatura riguardava la difficoltà creata dal non poter spendere in fondi destinati allo sviluppo nel comparto umanitario, dal momento che i canali sono differenziati e con la ritirata delle forze statunitensi i fondi per lo sviluppo dovevano essere bloccati.

4 Il 19 dicembre 2021, in un articolo sul “Corriere” titolato Kabul, la crisi alimentare (e politica) da evitare, Franco Venturini scriveva che un milione di bambini era a rischio di fame e che «anche chi, come il sottoscritto, era inizialmente favorevole alla linea dura dell’Occidente verso i talebani, oggi deve riconoscere che l’emergenza umanitaria impone un cambiamento di linea». È un articolo interessante nella misura in cui non si limita all’argomento umanitario ma elenca tre validi motivi per intraprendere un cambio di rotta attinenti alla «logica di potenza», il primo riguarda il consenso – potrebbe persino rivelarsi utile un giorno che gli aiuti siano distribuiti dai talebani; in secondo luogo c’è la questione del terrorismo, e il terzo punto riguarda il ruolo della Cina. Questi ultimi due punti si sono realizzati a distanza di due anni: il terrorismo rappresenta di nuovo una minaccia mentre la Cina è oggi una delle principali investitrici nel paese.

5 È indicativo che lo stesso Strategic Framework per l’Afghanistan 2023–2025 reso pubblico dall’Onu il 3 luglio 2023 persegue gli stessi obiettivi del 2021 o degli accordi di Doha: alla creazione di «opportunità economiche» puntando sulla «resilienza» e la «creazione di un ambiente favorevole» soprattutto per «i gruppi esclusi come le donne». Gli obiettivi sono «coesione sociale, inclusione, uguaglianza di genere, diritti umani e Stato di diritto», «prerequisiti per lo sviluppo sostenibile e la pace in Afghanistan» [corsivo aggiunto].

6 Già nel 2012 Serena Fioretti di Nove onlus non solo spiegava che «le donne di Kabul sono le uniche ad avere la possibilità di emanciparsi» per via della «presenza degli occidentali», ma insisteva sull’importanza del ruolo dell’educazione e dei programmi finanziati dalla comunità internazionale come quello dell’Onu e del ministero per l’haji, per «la formazione dei giovani leader religiosi musulmani» che prevedeva viaggi organizzati a La Mecca e «un periodo di soggiorno in un Paese islamico moderato, sotto la supervisione di un funzionario donna».

7 Se in altri paesi gli appelli delle Ong che lavorano in Afghanistan vengono ripresi dalle principali testate, come ha fatto il “Guardian” il 15 agosto che pubblicava un appello firmato dalle più grandi organizzazioni inglesi, in Italia alle Ong si è chiesto prevalentemente di comunicare le voci di singole donne afghane e la loro sofferenza. Mentre Alberto Cairo raccontava su “Repubblica” di un padre che si è indebitato per portare in vacanza le sue figlie, già il 15 agosto del 2022 il “Guardian” dava spazio alla voce di 32 associazioni e Ong presenti in Afghanistan – titolando Afghanistan: le Ong chiedono lo sblocco dei beni per porre fine alla “povertà quasi universale” – queste presentavano una “road-map” per uscire dallo stallo creato dalla comunità internazionale.

8 INTERSOS avvertiva: «Se i fondi per lo sviluppo non torneranno in Afghanistan e se l’economia non riceverà una spinta urgente il sistema sanitario, già sovraccarico, sarà messo in ginocchio e la crisi della fame che sta attanagliando la nazione porterà ancora più bambini sulla soglia della morte».

Immagine di copertina di Sgt. Joshua Edwards, da commons.wikimedia.org