MONDO

Egitto, al-Sisi e i suoi compari (prima parte)

Gli esponenti delle forze armate egiziane occupano un posto fondamentale nella vita politica del paese, anche quando smettono di indossare la divisa. La prima parte di un’inchiesta sul peso della lobby militare nell’economia politica egiziana.

«Vittoria o martirio», il motto di cui vanno fiere Al Quwwāt Al Musallahat Al Miṣriyya ovverosia le moderne Forze Armate egiziane, in quasi un secolo di vita ha prodotto poche vittorie e molti martiri. Accanto agli oltre ventimila caduti nelle sconfitte più cocenti, come la guerra dei Sei Giorni contro Israele, i martiri l’esercito del Cairo li semina fra la sua stessa gente; dedicandosi a reprimere i concittadini critici, com’è accaduto dal 2011 e soprattutto col golpe bianco del generale al-Sisi nel luglio 2013. L’Egitto contemporaneo che annovera fra i presidenti tutti ex militari, eccezion fatta per Morsi defenestrato dopo un anno, ha coi graduati un rapporto di stretta dipendenza. La propaganda sostiene la retorica che fa dell’esercito il “difensore del popolo”, oltre che dei confini nazionali, mentre i vincoli si fanno più stretti non solo quando i coscritti vestono la divisa ma anche se la dismettono, restando legati a un cordone ombelicale che offre lavoro a un terzo di odierni egiziani. Restando ai numeri, che indicano in mezzo milione i riservisti immediatamente disponibili e sommabili ai 480.000 soldati effettivi (30.000 gli avieri e altrettanti i marinai), l’età di abilità alle armi, compresa fra i 18 e i 49 anni, può portare più d’un terzo della popolazione (35 milioni d’individui) a rivestire quell’uniforme. Del resto le Forze armate della vittoria e del martirio, occupano pur sempre la dodicesima posizione mondiale fra gli eserciti. Comunque generali e ammiragli cercano un altro tipo di legame, soprattutto quando si occupano di economia e politica.

 

 

I due campi fanno parte della storia di queste Forze armate nella loro ricollocazione moderna da quando, nell’estate 1952, i “Liberi ufficiali” posero i propri stivali sulla testa dell’Egitto, scalzando la monarchia di Faruq abbandonata a sé dallo stesso ex tutore britannico. E dall’avvìo della Repubblica con la presidenza Naguib, quindi con quella Nasser, la statalizzazione del Paese ha unito politica ed economia nelle mani della lobby militare. Essa s’è consolidata decennio dopo decennio e, nonostante le aperture “liberiste” permesse da Sadat e Mubarak, un 40% dell’economia egiziana è controllata dai militari, che hanno mani in pasta in ogni branca. Innanzitutto energia, gestendo petrolio, gas e dintorni, poi agricoltura e industria, edilizia e vie di comunicazione (compreso il fruttuoso canale di Suez, recentemente raddoppiato, da cui si ricavano copiosi dazi), e distribuzione delle merci, sanità, assicurazioni, turismo, media, vendita pubblicitaria. Un sistema di grande garanzia cui si sono aggiunti, sotto la presidenza Mubarak, un’agenzia speciale e un organismo autonomo che offrono servizi ai propri aderenti e alla cerchia di quell’indotto che con l’esercito vive, sulla base d’un articolato intreccio di appalti, subappalti, favoritismi e favori. E non parliamo dei giri personali con cui chi riveste cariche pubbliche aiuta se stesso e il proprio clan per interessi privati, quella sequela di accaparramenti che aveva creato problemi giudiziari a Mubarak dopo la caduta, ai suoi figli maschi Gamal e Ala, al fedele Shafiq, il “mubarakiano” di ferro presentatosi contro Morsi per la corsa alla presidenza del 2012.

Stellette, politica e affari sono perciò una necessità imposta dal potere egiziano e chi si rapporta a esso ne conosce perfettamente il legame. Il nostro ENI, passato dalla gestione visionaria e avventurosa di Mattei a quelle assai più allineate coi poteri forti dei colossi petroliferi mondiali, costituisce un legame consolidato da decenni, non solo al Cairo ma in tanto Medioriente. Attualmente gestisce un business con 14 miliardi di dollari di investimenti (il dato si riferisce al 2017), estraendo gas nel Delta del Nilo e nella parte di mare prospiciente a esso, giacimento Nooros, mentre dal 2015 è in corso di definizione lo sfruttamento della grande riserva scoperta e chiamata Zohr, 850 miliardi di metri cubi gas, che consentiranno al Paese almeno quarant’anni di autosufficienza energetica, oltre alla possibilità di commerciare il prodotto. Eni ha avviato una collaborazione con l’Egyptian Natural Gas Holding Company. Ma non è solo. Quel sito energetico è per il restante 40% di altre due compagnie: la russa Rosneft che ne detiene il 30% e la British Petroleum col 10%, introdotte proprio da Eni che ha in tal modo finanziato in loco la propria attività futura. Con questa scoperta, la sua valorizzazione e il suo sfruttamento l’energia costituisce il pilastro dell’economia egiziana del domani, seppure altre fonti (idroelettrico, eolico, solare più la centrale nucleare di El Dabaa, sulla costa nord-occidentale) rappresentino una diversificazione per i consumi interni. La popolazione, che alcuni dati avvicinano ormai ai 100 milioni, divisa fra 30 milioni d’impiegati di vario genere e altrettanti dediti a un commercio grande, medio e minuto, non dismette il settore produttivo. Proprio l’area del Delta, dove già sorgevano nuclei industriali che hanno subìto una profonda recessione nell’ultimo decennio, nei progetti statali (e dunque della lobby delle stellette) è vista come il grande hub energetico-commerciale di un futuro già iniziato.

 

 

L’industria turistica, un tempo in gran spolvero e poi precipitata a causa dell’instabilità politica e per il timore del terrorismo, ultimamente è in ripresa. I dati del 2017 vedono triplicate le cifre dell’anno precedente, sebbene sul Pil nazionale il settore pesi per il 2%, ed energia a parte, secondo i dati elaborati dal nostro Istituto statistico in testa resta il settore manifatturiero (16,7%), seguìto da commercio (13,9%), agricoltura (11,7%) e immobiliare (10,5%). L’Italia, che rientra in una rosa di clienti con cui Il Cairo mantiene rapporti strettissimi, è orientata prevalentemente sul settore energetico. Affiancano in gigante Eni: Edison, in partnership con l’Egyptian Petroleum Company, Ansaldo Energia, Tecnimont, Breda Energia, mentre nel settore delle costruzioni impegni e commesse vedono in prima fila Italcementi e Cementir. Altra storia, dibattuta soprattutto dopo la vicenda dell’omicidio Regeni, è quella che riguarda il commercio di armi col regime di al-Sisi. Ma i dati a disposizione si riferiscono in genere a forniture di armi leggere, quisquilie rispetto alle grasse commesse di materiale bellico (jet Rafale francesi, carri Abrams statunitensi, missili S-400 russi) avviate o promesse alla lobby militare egiziana. Forniture che rientrano negli aiuti offerti dagli alleati, com’è il caso di Washington, che spesso si tramutano in armi da guerra utili ai disegni geopolitici del “benefattore” più che agli interessi del governo amico, cui vengono imposti obblighi ben precisi di carattere strategico e politico, aggirando totalmente gli intenti di sviluppo economico. E tacciamo dei bisogni e delle necessità della popolazione. Comunque il milione e trecentomila euro, o giù di lì, che finanziano forniture di carabine da ordine pubblico, sono inezie rispetto ai miliardi di dollari delle citate armi da guerra ricevute dal Cairo o prossime a venire. La contraddizione magari assume risvolti politici al pensiero dell’uso che gli uomini in nero della polizia egiziana hanno fatto e fanno di quelle carabine nelle vie e nelle piazze del Paese.