EUROPA

E l’Italia (senza sorprese) è paese di emigranti

Mentre qualcuno agita ancora la retorica dell’invasione, l’Italia si riscopre paese di partenza dei flussi migratori . Nel frattempo, nell’Europa delle migrazioni interne, i diritti degli emigranti sono sotto attacco.

Finalmente anche la grande stampa nazionale si è accorta che il problema non è la supposta invasione dei rifugiati, ma la fuga annuale di migliaia di persone dall’Italia. Lo ha fatto con un interessante articolo di Fubini sul Corriere della Sera, dove si lancia l’allarme sul declino demografico del Paese. La stampa mainstream ha impiegato degli anni ad accorgersi del fenomeno, nonostante ormai dal 2010 si registri un progresso inesorabile delle partenze. Del resto, in questi anni i giornali sono stati troppo impegnati a far crescere la percezione di insicurezza dei cittadini, fomentando la paura nei confronti dei migranti, piuttosto che descrivere cosa stava realmente avvenendo nel Paese.

Come si usa dire, meglio tardi che mai. Tuttavia, come tutti i primi passi, questa constatazione iniziale è ancora impacciata e timida, non cogliendo fino in fondo le implicazioni politiche e sociali del cambiamento. Innanzitutto, va fatta una precisazione sui numeri, data per assodata l’inadeguatezza delle rilevazioni Istat è alquanto ingenuo affermare che basti una semplice operazione aritmetica per aggiornarli. Moltiplicare per quattro le partenze raggiungendo le 435 mila, come ha suggerito Fubini, può andare bene per alcuni paesi Ue come l’Inghilterra, la Germania e la Svizzera, ma non certo per gli altri. Ad esempio, il quarto paese di destinazione è la Romania, meta quasi esclusiva di viaggi di ritorno e dunque soggetta ad altre dinamiche non correlate con la nuova migrazione italiana. Con minori certezze questo assioma può essere esteso agli Stati extra Schengen come la Cina e gli Stati Uniti dove il trasferimento è molto più complicato. Inoltre, il dato sulle partenze non è sufficiente a descrivere le migrazioni. La libera circolazione, infatti, consente di modellare liberamente il progetto di vita all’estero rendendolo estremamente flessibile e soggetto ad eventuali ripensamenti nel breve periodo. Ben più significativo è il saldo, ovvero la differenza tra partenze e arrivi avvenute nello stesso anno. A tal riguardo è vero che nel 2014 si sono diretti in Germania oltre 56 mila italiani, però nello stesso arco di tempo oltre la metà ha percorso il tragitto al contrario. Dunque non si deve assumere la partenza come un addio, ma come un fenomeno in constante divenire dettato molto spesso da un mercato del lavoro che assume sempre di più dei tratti europei. Analizzando i dati dell’Istat è interessante osservare come il movimento maggiore si verifichi proprio dalle aree più ricche. Ai primi due posti per il numero di trasferimenti vi sono la Lombardia e il Veneto: un bel paradosso che proprio le regioni governate dalla Lega, cioè coloro che a parole sostengono di difendere gli interessi del Nord a discapito degli altri, siano quelle in cui si registrano più espatri!

Lasciando stare le beghe politiche nazionali, ritorniamo alla domanda che si pone Fubini, sono di più le persone che arrivano o quelle che partono? Difficile rispondere, ma soprattutto non è un problema rilevante. Del resto, se l’obiettivo è togliere argomenti a Salvini è solo tempo perso, per lui anche un solo migrante potrebbe rappresentare un’invasione. Senza dimenticare che per decenni gli invasori sono stati i meridionali, perciò non sarà certamente l’aritmetica a disinnescare la sua retorica xenofoba. Questo ragionamento, al contrario, può danneggiare la nostra prospettiva, distogliendo dalla discussione delle due questioni realmente importanti che ci pone il nuovo ciclo migratorio italiano: una di carattere europeo e l’altra tutta interna.

In Europa si va progressivamente formando un mercato del lavoro unico, con delle caratteristiche peculiari di subordinazione della periferia al centro, infatti le migrazioni sono per lo più interne all’area Schengen, scaturite dai paesi dell’est e del sud. Il ruolo egemone è interpretato, ovviamente, dalla Germania, che nel solo 2014 è stata la principale destinazione con quasi 1,4 milioni di persone di cui oltre il 60% cittadini di un paese membro e il 75% dall’Europa geografica. Del resto il mercato del lavoro tedesco è uno dei pochi in espansione negli anni della crisi, dal 2008 ha registrato un aumento di posti di lavoro concentrato soprattutto nei servizi, la cui peculiarità è una spiccata polarizzazione tra terziario avanzato ad alto valore aggiunto, da un lato, e terziario arretrato e lavoro non qualificato, dall’altro. Tuttavia come mostrano le richieste della Gran Bretagna per scongiurare il Brexit, accettate in fase di negoziato anche dagli altri paesi membri, la partita si gioca nel campo del welfare. In altre parole, mentre nei fatti si va costituendo un mercato del lavoro europeo, non solo il welfare rimane una prerogativa esclusivamente nazionale, ma si attua perfino una riduzione delle prestazioni sociali per i migranti. L’obiettivo è risparmiare sui costi della manodopera straniera scaricando le spese sociali sui paesi di partenza, il dibattito sul welfare tourism non è niente altro che la giustificazione a questo tipo di espropriazione. Il problema sollevato da Fubini sull’insufficienza dei dati Istat, non è solo una conseguenza dell’incertezza sui tempi di permanenza ma è anche un problema di carattere economico: cancellarsi dalle anagrafi italiane comporta la definitiva uscita dal SSN e, per lo meno in Germania, l’obbligo di stipulare un’assicurazione sanitaria con una spesa minima intorno ai 2.000 euro all’anno. Pertanto in molti preferiscono temporeggiare fino a quando non trovano un lavoro stabile e ben pagato, nel frattempo le spese sanitarie di emergenza ricadono sull’Italia.

In questo contesto come si colloca l’Italia? Parafrasando il giudizio di Lucia Annunziata sul Belgio, si tratta di un «Stato fallito»: dal 2008 fino agli sgravi del governo Renzi l’unico settore in cui si sono registrate un aumento di posti di lavoro sono stati i servizi alla persona, ovvero un ambito che per definizione non può conoscere crisi. Tutte le altre aree di occupazione hanno registrato delle diminuzioni di personale dalla manifattura all’istruzione fino ai servizi tecnici e professionali. Il capitalismo italiano è chiaramente in declino, o meglio, nella competizione globale ha scelto i settori a bassa produttività e poco valore aggiunto (oltre che la rendita) come ambiti di accumulazione. La conseguenza è uno sfruttamento selvaggio del lavoro che si manifesta attraverso: disoccupazione, bassi stipendi e tanta precarietà. La recente bolla occupazionale creata dagli sgravi, che già oggi sta per scoppiare, rappresenta l’ennesimo aiuto all’imprenditoria italiana al fine di diminuire il costo del lavoro, già di per sé uno dei più bassi dell’Europa occidentale. Come dichiarano molti italiani all’estero, la motivazione del loro trasferimento è «l’assenza di futuro», perché giudicano l’Italia un paese dove nei migliori dei casi si può «campicchiare» passando da un contrattino ad un altro, ma che non permette di progettare la vita nel lungo periodo. Per molti il trasferimento rappresenta una fuga verso un’esistenza più sicura, in paesi che garantiscono un livello di benessere accettabile e delle tutele minime per disoccupati e precari. Tuttavia il successo per chi parte non è garantito, gli italiani all’estero non aprono tutti un ristorante nel ricco quartiere di Chelsea come ha mostrato questa settimana repubblica.it, anzi è alto il rischio che la mobilità geografica aggiunga incertezza ad una vita già precaria.

Per concludere, si può affermare che la ripresa delle migrazioni italiane è da leggere all’interno di un nuovo equilibrio del mercato del lavoro europeo, nel quale la migrazione è divenuta un fattore fondamentale per l’economia del continente. In questo quadro l’assenza di un sistema di welfare comune è una leva che consente di agire per tagliare il costo della manodopera. Del resto il costante dibattito intorno al welfare tourism non è niente altro che una strategia per ricostituire di fatto quelle discriminazione per appartenenza nazionale che la libera circolazione si proponeva di superare. Quando si parla di migrazioni, intra o extra europee, è bene porre al centro la questione dei diritti, piuttosto che continuare a lamentarsi per il declino demografico.