PRECARIETÀ

È il capitalismo, bellezza – Prima puntata

«Senza tetto né legge». La potenza di “fuoco” delle holding bancarie e l’impotenza del riformismo.

Con il contributo di oggi, prende vita una nuova rubrica di DINAMOpress.it. Una rubrica settimanale, dedicata alla crisi economica e all’uso capitalistico della stessa. Convinzione di chi scrive, infatti, è che il capitalismo non morirà di morte naturale e che, stretto dalle difficoltà, sta impiegando la catastrofe per definire una nuova «accumulazione originaria». Nell’Europa di Merkel e Draghi, tutto è molto chiaro: demolizione del welfare, enclosures, attacco ai salari, disoccupazione di massa. Ma anche negli Stati Uniti, dove la crescita ha ripreso a toccare il 3,5% annuo e la disoccupazione si è assestata al 7,8%, le politiche espansive della FED e di Obama non somigliano neanche un po’ al New deal di Roosevelt. Riprendere a studiare das Kapital, per riprendere a «far male ai padroni», questo l’intento della rubrica e degli articoli (brevi) che, da oggi e ogni settimana di martedì, troverete su DINAMOpress.it.

Federico Rampini, forse il più attento cronista della crisi economica americana, ha salutato l’ultimo risultato di Obama come una straordinaria discontinuità. Aver evitato il Fiscal cliff o comunque averne differito parte degli effetti, aver aumentato per la prima volta le tasse ai super-ricchi, invertendo una tendenza ormai trentennale, cullata dallo stesso Clinton, sicuramente è stato gesto importante. Cosa accadrà ai tagli alle spese sociali, Medicare e Social sicurity, lo apprenderemo entro marzo, ma c’è da dubitare che la scure repubblicana non porti a casa risultati significativi.

Rampini, ma non solo lui, si spinge più in là, contrapponendo un’Europa schiacciata dall’Ordoliberalismo della Bundesbank (cosa verissima, intendiamoci!) al ritrovato keynesismo americano. Come dire: il riformismo è ancora possibile, Obama è lì a dimostrarcelo. Anche i Democratici italiani la pensano così, e al Washington Post Bersani rassicura: «coniugheremo austerity e crescita». Le parole autocritiche ultime del presidente dell’Eurogruppo uscente Junker, ordoliberale di razza, autorizzano inoltre Vendola ad accogliere Monti e la Grosse Koalition in salsa italica.

Se però si impara a “grattare”, si scoprono notizie di certo poco rassicuranti per i neo-keynesiani che tifano Obama e digeriscono Monti. Mi limito a presentarne due.

La scorsa domenica il Comitato di Basilea sulla sorveglianza bancaria si è riunito presso la Banca dei Regolamenti Internazionali per ratificare il rinvio della norma sul Liquidity cover ratio (Lcr). Secondo questa norma, fissata dagli accordi definiti “Basilea 3”, a partire dal 2015 le principali holding bancarie transnazionali, quelle le cui speculazioni hanno determinato l’esplosione della crisi globale, avrebbero dovuto dotarsi di asset sicuri per 1.170 miliardi. Cosa significa asset sicuri? Una soglia di capitale sotto la quale non è possibile andare, necessaria per evitare collassi del credito e della fiducia interbancaria. In assenza di questa soglia di sicurezza, infatti, il rischio fallimento di una grande holding, votata agli investimenti spericolati a mezzo dei prodotti finanziari strutturati, si fa enorme e il fallimento, nel caso, come già è accaduto nel 2008, viene scaricato sulle tasche pubbliche. L’applicazione della norma, nel 2015, sarà limitata al 60%, il resto entro il 2018. Un po’ di respiro, dicono le banche, per evitare il credit crunch. Peccato che mai come in questo momento è impossibile per i poveri accedere al credito. È dall’inizio della crisi, infatti, che le grandi holding bancarie drenano liquidità dalle banche centrali, a tassi di interessi bassissimi, e continuano a speculare, sulle commodities come sui titoli di Stato. L’aumento dei prezzi agricoli e la crisi alimentare, l’impennata dei costi energetici e, last but not the least, la crisi dei debiti sovrani in Europa non sono comprensibili se non facendo riferimento a questo fenomeno; ciò che Krugman definisce la «trappola della liquidità».

Seconda mossa, questa tutta americana. Proprio nei giorni in cui Obama evitava il Fiscal cliff, le banche sono riuscite ad ottenere il rinvio dell’applicazione della legge Dodd-Frank. Tentativo timido di riformare i mercati finanziari e, soprattutto, le attività delle investment bank, la legge Dodd-Frank impone alle grandi holding americane del credito di isolare dalle attività tradizionali, protette da assicurazioni federali sui depositi e accesso a prestiti agevolati della Federal Reserve, il trading sui derivati. Misura ancora timida – occorrerebbe quanto meno ritornare alla divisione tra banche commerciali e banche di investimento, così come prevedeva la legge Glass-Steagall (voluta da Roosevelt nel 1933 e cancellata da Clinton nel 1999) – utile a fare luce su una parte assai ridotta (il 20%) delle attività speculative di banche del calibro di Jp Morgan, Citygroup e Bank of America e ad evitare che i fallimenti di queste attività possano ricadere materialmente sulle casse pubbliche, sarà vincolante, forse, a partire dal 2015 e non più dal 16 luglio di quest’anno. Legge timida, applicazione incerta: Obama evita il Fiscal cliff, ma le holding bancarie continuano a comandare.

Due esempi per cominciare, per evitare di credere alle sirene riformiste che vogliono la politica, nella sua autonomia e senza conflitti radicali al centro della scena, robusta e affrancata dalla potenza di “fuoco” del capitale finanziario.