ROMA

Il diritto e la ragione. Il tribunale di Roma accoglie il ricorso di Asgi

L’importante pronuncia della giudice Silvia Albano, che ha accolto ieri il ricorso presentato dall’avvocato di Asgi Salvatore Fachile, riconoscendo il diritto di una famiglia straniera a percepire il buono spesa per l’emergenza Covid-19 concesso dal comune di Roma.

R.A. (il nome e il cognome sono appuntati per tutelarne la riservatezza e quella dei componenti della sua famiglia) è un uomo di 38 anni, originario delle Filippine, che vive da quattro anni a Roma all’interno del municipio XV, insieme alla sua compagna e tre minori che hanno, rispettivamente, 17, 16 e 3 anni di età. In seguito all’ultima gravidanza della donna, i due genitori erano diventati titolari di un permesso di soggiorno per cure mediche (così come prevede l’articolo 19 al comma 2, lettera d del d.lgs n. 286 che dal 1998 disciplina la normativa italiana sull’immigrazione). La stessa normativa, però, ha previsto la scadenza e la non convertibilità di tale permesso dopo sei mesi dalla nascita del minore. Così, R.A. e sua moglie si trovavano nelle condizioni di titolarità di un permesso di soggiorno “per lavoro”, avendo entrambi un contratto regolare. L’uomo lavorava come aiuto cuoco in un ristorante che si trova nella zona del rione Prati e “arrotondava” con l’impiego come badante per un anziano residente nel suo municipio.

La donna, invece, possedeva – anche lei – un doppio impiego: come baby sitter e addetta alle pulizie. Insomma, la loro era fino a qualche mese fa una esistenza economicamente dignitosa che permetteva ai due minori di 16 e 17 anni, che vivevano con loro, anche di frequentare con estremo profitto un istituto superiore della Capitale. Fino a quando a causa del sopraggiungere dell’epidemia sanitaria di Covid-19, il nucleo familiare rimane sprovvisto di permesso di soggiorno e si viene a trovare in una situazione di forte precarietà e indigenza avendo dovuto interrompere la propria attività lavorativa senza tuttavia godere di alcun ammortizzatore sociale, né garanzia.

Dunque, tale lunga premessa appariva necessaria per raccontare la storia di discriminazione (ieri per fortuna risolta a lieto fine grazie all’intervento di un giudice del tribunale di Roma) di cui è stato vittima R. A. insieme ai suoi familiari, semplicemente, per la loro condizione di stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno. Infatti, è il 7 aprile scorso quando R.A. inoltra al Municipio XV, competente per domicilio, il modulo contenente la richiesta del “buono spesa” previsto nell’ambito delle misure di Protezione civile che attraverso l’ordinanza n. 658 del 2020 ha assegnato ai comuni italiani un contributo per un totale di 400 milioni di euro per misure urgenti di solidarietà sociale.

Il comune di Roma, poi, aveva recepito tale misura attraverso un avviso pubblico approvato dal Dipartimento politiche sociali con due successivi determine dirigenziali, il 31 marzo e il 2 aprile. Nel frattempo, R.A. aveva inviato il 14 aprile una seconda mail al Municipio, specificando meglio la propria situazione – assenza di permesso di soggiorno e residenza anagrafica – ribadendo però il proprio indirizzo di domicilio, ma, soprattutto, specificando la situazione di indigenza economica.

L’uomo scopre, così, di non avere diritto alla “miseria” di un buono spesa, perché il regolamento comunale prevedeva la concessione di tale beneficio soltanto ai titolari di permesso di soggiorno, nonché ai residenti. Che ci si trovava di fronte a una discriminazione illegittima ne era convinto l’avvocato del nodo romano dell’Associazione Studi per l’immigrazione – Asgi – Salvatore Fachile, il quale depositava al tribunale di Roma un ricorso urgente, ritenendo indispensabile «soddisfare in modo tempestivo ed efficace il diritto del ricorrente e del proprio nucleo ad accedere al beneficio de quo al fine di evitare il prodursi degli effetti della discriminazione». Si legge nel ricorso: «il criterio indicato dal Comune, oltre a essere precluso dall’Ordinanza, è anche privo di ragionevole correlazione con la finalità della prestazione, ove si consideri che il riferimento al possesso di un permesso di soggiorno non ha alcun senso nel momento in cui si tratta di sopperire a esigenze alimentari derivanti da una condizione di emergenza».

Perché, secondo quanto ha scritto l’avvocato Fachile, «la finalità espressa della prestazione è quella di sopperire a esigenze alimentari derivanti da una condizione di emergenza, che riguarda evidentemente tutti coloro che sono presenti sul territorio a prescindere dalla regolarità o meno del soggiorno». Ieri sulla questione è arrivata la sentenza firmata dal giudice del tribunale romano, Silvia Albano, che non solo dà ragione all’avvocato e al ricorrente, dichiarandone il diritto di quest’ultimo a percepire il buono spesa del comune di Roma, ma che apre anche nuovi possibili scenari generali sul riconoscimento di diritti essenziali, come quello al cibo, appunto, indipendentemente dal proprio status giuridico di appartenenza. È il diritto che muta, versus quella ragione politica che a volte appare immutabile.