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Per dimostrare solidarietà ai manifestanti in Iran, non cancellate la classe lavoratrice

L’elemento più significativo della recente ondata di proteste in Iran, è il ruolo assunto dalla classe lavoratrice. Nonostante le origini non chiare delle proteste, il cuore del movimento sembra essere costituito da giovani dei ceti a basso reddito, spinti a protestare dalle difficoltà economiche e contro la propria espulsione dal sistema politico ed economico della Repubblica islamica

L’Iran è un paese a reddito medio, dove i consumatori della classe media sono il fulcro della crescita economica. È quindi politicamente opportuno che le politiche centriste iraniane si rivolgano a questa classe sociale in ascesa. Questo è un dato in linea con la direzione stessa della Rivoluzione islamica del 1979. Come nota Ervand Abrahamian, i primi testi e discorsi dell’Ayatollah Khomeini non contenevano alcun riferimento a concetti quali tabageh, classe, ma in seguito, negli anni Settanta, adottò attivamente un linguaggio derivato dalla sinistra iraniana. In quegli scritti successivi Khomeini denunciava una società “profondamente divisa tra due classi in guerra tra loro”, facendo ricorso all’immaginario dei zagheh-neshinha (abitanti degli slum) e dei kakh-neshinha (abitanti dei palazzi). Nell’Iran post-rivoluzionario, l’imperativo dello sviluppo economica portò a privilegiare gli “abitanti degli appartamenti” – la classe media – ignorando gli estremi di povertà e ricchezza, oscurando il fallimento della Rivoluzione islamica nel sanare le disuguaglianze economiche, un tempo additate come il più grande tradimento dello Shah.

In questo contesto, la recente ondata di proteste in Iran è significativa per via dell’importante ruolo assunto dalla classe lavoratrice. Nonostante le origini non chiare delle proteste e una loro crescente eterogeneità, molti analisti ben informati concordano nell’affermare che il cuore del movimento è costituito da giovani dei ceti a basso reddito, spinti a protestare dalle difficoltà economiche. Ogni atto di protesta è una richiesta di riconoscimento. Ma questa mobilitazione, su questa scala, sembra il tentativo vivace da parte della classe lavoratrice di correggere la propria espulsione dal sistema politico ed economico della Repubblica islamica.

 

La classe lavoratrice ignorata

Purtroppo, nel corso degli ultimi decenni, gli osservatori esterni sono stati complici dell’eliminazione della classe lavoratrice Iraniana. Le teorie politiche ed economiche dominanti sull’Iran hanno minimizzato o ignorato questo segmento della popolazione iraniana. Le scelte politiche dei membri della classe lavoratrice sono state costantemente svalutate e i loro voti per i candidati conservatori sono stati giudicati erratici, frutto di coercizione o di lusinghe, ma non di scelte deliberate. Come ha recentemente osservato Kevan Harris, «Gli analisti spesso danno per scontato che gli schieramenti conservatori dell’élite politica mobilitano i voti di individui che ricevono aiuti o godono del welfare dal governo, favorendo con questo processo la creazione di una classe sociale dipendente dai benefici». In un importante studio Harris non ha trovato alcuna evidenza a supporto di questa teoria. La forte influenza delle istanze per i diritti civili sulle analisi occidentali e sulle narrazioni sull’Iran difficilmente permettono di prendere in considerazione l’azione della classe lavoratrice, generalmente circoscritta entro valori conservatori.

Nel discorso sul potenziale economico dell’Iran post-sanzioni, la classe lavoratrice è stata nuovamente ignorata. I media internazionali hanno salutato con entusiasmo i gusti occidentalizzati dei consumatori della classe media iraniana e le ambizioni degli imprenditori della classe media, che si combinano nel creare un nuovo promettente mercato. Ma oltre a evocare la forza lavoro iraniana e il potenziale manifatturiero, la classe lavoratrice è stata lasciata fuori dal quadro. Quando se ne discute, l’accento cade spesso sulle disfunzioni. Disoccupazione, povertà, tossicodipendenza, sono messi in luce per dimostrare i fallimenti economici del governo. I milioni di lavoratori iraniani, membri produttivi della società che producono i beni e i servizi che autorizzano la narrazione della classe media, restano invisibili.

Con un emergente carattere cosmopolita, diventa più semplice valorizzare i tratti familiari di una classe media iraniana come il “vero volto” del paese. Questo è forse il grande lascito del contrastato Movimento Verde, in cui la coraggiosa e lodevole mobilitazione della classe media per i diritti civili più che contro le difficoltà economiche, ha prodotto una sorta di agiografia. Se le proteste attuali dovessero continuare conservando la stessa composizione di classe, anche la classe lavoratrice iraniana riceverà dimostrazioni di solidarietà? Riceverà la stessa adulazione e celebrazione da parte dei politici occidentali e dal pubblico informato? O piuttosto l’impulso sarà quello di omettere la distinzione tra gli eventi attuali e quelli di nove anni fa, in modo da offrire una qualche catarsi per coloro secondo cui giustizia deve ancora essere fatta?

La classe lavoratrice: ieri e oggi

Per evitare l’elisione o la commistione delle mobilitazioni politiche iraniane, è altresì importante riconoscere le differenze tra la classe lavoratrice del 1979 e quella attuale. L’attuale classe lavoratrice iraniana beneficia di una maggiore mobilità sociale rispetto alle generazioni precedenti. In un interessante studio qualitativo del 2015, Manta Hashemi elenca le strategie impiegate dai giovani della classe lavoratrice per ottenere una mobilità socio-economica «nel rispetto di alcuni criteri morali che permettono loro di salvare la faccia dinanzi ai membri del loro ambiente sociale personale». «Salvare la faccia» sta per «autosufficienza, duro lavoro, l’essere puri e mantenere le apparenze». L’adesione a questi valori aiuta i giovani a costruire un “capitale morale” e utilizzarlo per accedere alle opportunità sociali ed economiche offerte dalle reti personali e di comunità.

Il fatto che la mobilità sia aumentata accredita la recente affermazione di Ali Shabani, secondo cui le proteste in Iran dovrebbero essere viste attraverso la lente del J-curve. Secondo questo concetto, le proteste avvengono quando «un lungo periodo di aspettative e gratificazioni crescenti è seguito da un periodo in cui le gratificazioni … improvvisamente decadono mentre le aspettative … continuano ad aumentare». La diffusione dell’educazione, l’accelerazione dell’urbanizzazione, l’incremento dello sviluppo economico hanno creato più contatto tra la classe media e quella più povera in Iran, creando opportunità di mobilità sociale per i giovani della classe lavoratrice, permettendo loro di coltivare la convinzione che tale mobilità sociale sia raggiungibile. Ma, se da una parte i giovani della classe lavoratrice godono oggi di una maggiore mobilità individuale, il potenziale economico collettivo della classe lavoratrice è diminuito.

Storicamente il bazar incarnava la forza della classe lavoratrice. Come ha osservato Arang Keshavarzian nel suo fondamentale studio sul Grand Bazar di Teheran, storicamente ci sono state «estreme disparità in termini di ricchezza, educazione, e strumenti per sviluppare una reputazione all’interno del bazar». Prima della rivoluzione islamica, le élites del bazar godevano di mezzi uguali se non maggiori rispetto alla classe media. Riuscivano anche a provvedere al sostentamento di milioni di membri della classe lavoratrice, che facevano parte della cerchia sociale delle élites del bazar. Secondo la valutazione di Abrahamian, all’epoca della rivoluzione del 1979 «il bazar continuava a controllare almeno la metà della produzione manifatturiera del paese, due terzi del commercio al dettaglio e tre quarti del commercio all’ingrosso». Il bazar non era soltanto una fonte di redditi. Era un istituto finanziario che aiutava i membri della classe lavoratrice ad accumulare risparmi e ad accedere a prestiti.

In risposta all’isolamento politico praticato dallo Shah, che favoriva la mobilità ascendente delle classi medie, il sistema preesistente di prestiti interni si sviluppò in «un importante fonte di fondi per coloro che non potevano accedere al sistema bancario ufficiale». Infatti, nonostante il proprio statuto para-statale, il sistema di prestiti divenne abbastanza potente e «si stima che nel 1963 i prestiti erogati dai i bazar in Iran equivalevano a quelli erogati dall’insieme delle banche commerciali. Si stima che nel 1975 il bazar controllasse il 20% del volume di mercato ufficiale, 3 miliardi di scambio internazionale e 2,2 miliardi di prestiti da rimborsare». Questo conferì al bazar un potere economico crescente e consolidò la classe lavoratrice come una potenza che, contro ogni aspettativa, avrebbe alla fine spodestato lo Shah.

Oggi, con la modernizzazione dell’economia iraniana, il bazar non riveste più un ruolo così centrale. La classe operaia adesso dipende dai salari pagati in larga misura da imprese statali, che sono proliferate e cresciute quando l’Iran ha perseguito una industrializzazione sostitutiva delle importazioni durante gli anni Ottanta.

Ad esempio, l’industria automobilistica iraniana, controllata da società statali, è oggi responsabile per il 12% dell’occupazione nazionale, secondo stime del governo. Il fatto che la classe lavoratrice tragga lo stipendio da enti statali, con il supplemento di misure di welfare, ha creato una dipendenza economica nei confronti dello stato che non esisteva ai tempi in cui l’economia era dominata dal bazar. Tuttavia, come avverte Harris, i rapporti economici non riflettono le alleanze politiche: «Il voto di individui interessati da programmi di welfare riconducibili, in passato o nel presente, a figure o schieramenti politici conservatori… non è mediamente diverso da quello di individui legati a programmi di welfare promossi da politici o schieramenti tecnocratici o moderati». Tuttavia questi livelli di dipendenza implicano che le politiche economiche del governo e le loro disfunzioni producono un impatto maggiore sui mezzi di sostentamento della classe lavoratrice.

Mentre il potere economico del bazar diminuiva, un nuovo gruppo di istituti di risparmio e prestito, senza licenza, cresceva fino a colmare il vuoto di servizi finanziari. Questi istituti, le cui pratiche senza scrupoli sono state al centro di azioni repressive da parte dello stato, raddoppiano la dipendenza nei confronti dello stato. Secondo alcuni esperti la maggior parte di questi istituti sono «affiliati a centri di potere e ricchezza istituiti da enti para-statali».

Solidarietà con la classe lavoratrice iraniana

Il sentimento collettivo di emarginazione della classe lavoratrice è palpabile nelle proteste, specialmente nello slogan “Morte al Dittatore”. Per molti manifestati della classe lavoratrice, il principale abuso di potere perpetrato dal “dittatore” non è tanto un’imposizione ideologica o la negazione dei diritti umani quanto l’emarginazione economica e la riduzione dei mezzi di sostentamento.

Mentre la comunità internazionale vaglia una risposta appropriata alle proteste e mentre i membri più avvertiti dell’opinione pubblica globale considerano la loro solidarietà, è importante non tralasciare o ignorare la dimensione economica e la composizione di classe delle proteste.

Nel tentativo di elaborare una soluzione politica al “dilemma” dell’Iran – uno stato rivoluzionario che ha ottenuto notevoli successi nonostante l’isolamento imposto e gli errori – gli osservatori esterni rischiano di emarginare le esperienze di un’intera classe iraniana. Parallelamente, per la classe media iraniana, che ha in parte partecipato alle proteste per solidarietà e per esprimere le proprie istanze, la sfida consiste nel non ammutolire le voci di quanti desiderano innanzitutto innalzarsi al loro livello, se le circostanze economiche un giorno lo permetteranno.

 

Articolo pubblicato su Muftah

Traduzione di DINAMOpress