MONDO

Dentro Kobanê

Non bastano le bombe per distruggere l’identità di un popolo. Ne abbiamo parlato, abbiamo letto molti articoli, l’abbiamo vista con il binocolo da lontano, forse l’abbiamo addirittura sognata. Oggi invece ci abbiamo messo piede, siamo finalmente entrati a Kobane.

La notizia della liberazione non ci ha colti di sorpresa, ma sicuramente ci ha fatto sobbalzare dalla gioia, così ci siamo catapultati di nuovo sul confine turco-siriano nella speranza di poter raccontare dal di là cosa sta succedendo. Ci speravamo ieri, appena arrivati, ma tutti tra Suruç e Mehser, ci hanno messo in guardia: sono molte le difficoltà per entrare, dall’ottusità del governo turco nell’aprire la frontiera alla presenza di molte persone in cerca solamente di uno scoop. Per noi, invece, entrare a Kobane dopo questi mesi di staffette e iniziative ha un altro significato: lo facciamo perché crediamo in questa rivoluzione e nel progetto politico della Rojava, che abbatte con coraggio i confini nelle nostre menti, oltre a quelli geografici.

Non è stato facile entrare, è stata una di quelle occasioni che si prendono o si perdono. Siamo andati a Suruç alla ricerca di un’autorizzazione governativa, che fino a ieri sera era negata a chiunque, tramite le preziose relazioni che abbiamo costruito in questo tempo. Abbiamo poi rincorso funzionari governativi tra la sede del DBP, il centro culturale Amara e i campi di rifugiati, finendo per ritrovarci in coda alla frontiera insieme ad altri 50 giornalisti. Tutto questo proprio mentre, durante una conferenza stampa nella sede del Comune, si diceva che la frontiera sarebbe stata chiusa ancora a lungo. E’ stato tutto talmente veloce e confusionario che non ci siamo praticamente resi conto di essere entrati a Kobane liberata.

La città, presidiata da un gran numero di combattenti Ypg/Ypj, è totalmente distrutta e devastata. Camminando per le vie della città nel silenzio più totale, ci rendiamo conto che servirà uno sforzo enorme per riportare a casa le migliaia di sfollati – 300mila a oggi secondo le fonti del Comune, di cui solo il 10% gestito dal governo turco – perché ogni singolo edificio presenta segni inconfondibili della battaglia: piani crollati, fori di proiettili sui muri, vetrine esplose, crateri nelle strade. Non si è trattato solo di una battaglia per difendere una città: è evidente come l’Isis abbia, deliberatamente, tentato di radere al suolo Kobane per cancellare così l’esperienza politica della Rojava.

Avanzando tra le macerie – secondo il Comune di Suruc, l’80% della città è stata rasa al suolo – si possono scorgere i resti di quella che doveva essere una città di confine abitata e vivace: i numerosi negozi hanno oggi le vetrine rotte, ma i prodotti in vendita, ricoperti di polvere, sono rimasti dove erano, a immagine di una Kobane viva. Il silenzio, rotto da colpi di kalashnikov, di artiglieria e i proiettili di mortaio inesplosi a centinaia, ci ricorda che qui – e in altri 15 villaggi – la battaglia è vinta, ma che tutt’intorno la guerra continua.

In Piazza della Resistenza incrociamo alcuni automezzi dello Ypg che portano i combattenti al fronte, ci offrono un passaggio a est, e noi decidiamo di accettarlo. Ci fidiamo di loro, sono nostri fratelli e compagni, combattono il peggior nemico del mondo e hanno tutto il nostro supporto. Ci accompagnano ai piedi della collina di Mistenur, da dove sventola alta la bandiera della Rojava, e ci mostrano le posizioni occupate appena qualche giorno fa. Offriamo sigarette e dispensiamo strette di mano, mentre loro imbracciano l’Ak-47 e a gesti ci dicono che vanno in prima linea. Scegliamo di tornare velocemente, perché in vicinanza sentiamo colpi di mitragliatrice e, attraversando nuovamente quartieri totalmente distrutti, ci riportiamo in centro città. Lì incontriamo il ministro della Difesa del cantone di Kobane: racconta della battaglia e spiega che la maggior parte dei miliziani dell’Isis in città era di origine cecena, informandoci anche del fatto che, questa sera, avrebbero riconsegnato alla Turchia il cadavere di un combattente con il passaporto turco.

Su queste macerie, a partire dalla speranza che dà l’esperienza della Rojava, deve ora cominciare la ricostruzione, come ha anche affermato in conferenza stampa Ibrahim Ayhan, parlamentare curdo del HDP. “Chiediamo aiuti internazionali – sia finanziari che militari – per permettere la ricostruzione di Kobane e consentire ai suoi abitanti di rientrare”, ha dichiarato.

Da domani la nostra staffetta riparte da qui, forte del progetto dedicato all’educazione e allo sport che abbiamo iniziato a discutere in Italia con i compagni curdi, e che andremo a discutere con i rappresentanti della municipalità di Suruç.

Chiara, Fano, Marco e Momo (Centri sociali del Nord est – Rojava Calling)